
Anche di fronte al problema della denatalità diffusa e del conseguente rischio di un inverno demografico, sovvengono le parole di Dacia Maraini: «Non so perché tutti insistano con questa idea che si debba essere per forza sessanta milioni: in Italia abbiamo vissuto bene anche in trenta milioni. Certo, bisognerebbe che chi ci governa, anziché esortare i giovani a riprodursi, creasse strutture che ci consentano di essere di meno.»
Nel dibattito, la Sciandivasci si schiera ammettendo di non «sentire il morso di una mancanza, la piccolezza della mia esistenza, l’insensatezza di una vita che se non dà altra vita è mal spesa». Perché, come rileva la giornalista, «esiste, nel non fare figli, una ragionevolezza, una ricchezza, qualcosa che va ascoltato e osservato come il fenomeno socioculturale che forse è, e come l’altra faccia della natura umana che pure forse è» mentre si dichiara innamorata della sua solitudine, anche perché, come ricorda invece Elena Loewenthal, «fatica, incoscienza, perdita di libertà – un figlio è vincolo per antonomasia».
C’è chi come Nadia Terranova, scrittrice messinese, ricorda che «mettere al mondo un altro essere umano» implica l’atroce «possibilità di vederlo morire», sentimento che già Natalia Ginzburg aveva descritto sostenendo che «avere un bambino condanna per sempre all’inquietudine, al temere per la sua vita anche quando è adulto, a voler vivere per lui e non per sé, a lasciare che sia lui la ragione di tutto».
Come ci ricorda Silvia Ranfagni, scrittrice e sceneggiatrice – e chi lo ha vissuto sulla propria pelle sa bene -, avere un figlio significa in realtà «partorire un genitore», dal momento che «una nuova nascita estrae di prepotenza la nostra infanzia dal forziere del corpo, e il dolore psichico, se c’è stato, si propaga come un’infezione.»
Certo, dietro la scelta di non avere figli si nascondono infinite motivazioni e il fatto che dove le condizioni economiche sono più favorevoli le donne scelgano di non diventare madri o di avere un figlio solo, dimostra che la questione economica è solo una parte del problema. Scrive Maria Cafagna, autrice TV: «Essere genitori è faticoso, richiede sacrifici […], ma molte donne scelgono di non averne soprattutto perché la loro vita è già completa così com’è e non hanno bisogno che arrivi qualcuno a completarla.» Sono donne innamorate dello loro vita «così com’è», con «una disperata nostalgia del presente, una possessività feroce nei confronti del proprio tempo»: «Il tempo, questa è la cosa cruciale. Il mio grande amore», confessa Flavia Gasperetti.
C’è anche chi, come Maria Sole Tognazzi, regista e sceneggiatrice, confessa: «Io non ho avuto figli, non ne sono venuti, non ne ho cercati. Però mi sento madre ugualmente. Mi sento, in questo preciso momento, soprattutto madre di mia madre, e credo sia una cosa del tutto naturale: a un certo punto, la vita impone un ribaltamento dei ruoli, i genitori diventano figli dei loro figli e viceversa. […] Mi sento madre di mia madre e dei miei film e dei miei amori: credo che la maternità sia, a conti fatti, un qualcosa che si esprime. E i figli sono solo uno dei modi che le donne hanno di esprimere la maternità.»
È forse illuminante, allora, una frase di Natalia Aspesi: «Il destino delle donne non è fare figli. Il destino delle donne è vivere».