
In questi ultimi anni, anche grazie alle sollecitazioni arrivate dal decennale della ratifica da parte dell’Italia caduto nel 2019, si è frequentemente parlato dei tempi di attuazione, talvolta individuando nella lentezza del processo un segnale di scarsa attuabilità. Ma dobbiamo considerare che si tratta di un lungo cammino: è importante ricordarsi che la Convenzione ONU va pensata nell’ottica di progresso dell’umanità, non di un mero aggiornamento normativo. Un paragone per capire meglio può essere l’abolizione della schiavitù: pure quel processo implicava aspetti normativi, ma si basava su lotte politiche e acquisizioni culturali. Forse ricordiamo la data del 1865, in cui è stata sancita l’abolizione nella maggior parte degli Stati nordamericani, ma sappiamo che questo atto ha avuto origine dalle prime discussioni e controversie, durate per quasi cento anni, fin dal 1770. D’altra parte vi sono stati paesi nel mondo dove la schiavitù ha continuato a essere praticata per oltre un secolo: l’ultimo paese ad abolirla è stato la Mauritania nel 1980.
Per quanto, quindi, guardandolo da questa prospettiva il lungo processo di attuazione non ci spaventi, rimane innegabile che persistano elementi diffusi di criticità, sia a livello di sistema che a livello micro. La difficoltà maggiormente diffusa è sicuramente quella legata al fatto che tutto il sistema di servizi, pratiche, politiche ma anche pensieri, linguaggi, immaginari, connessi alla disabilità nascono e si sviluppano in un paradigma precedente a quello dei diritti. Nel vecchio paradigma le persone con disabilità sono viste come persone caratterizzate da una condizione patologica che vanno primariamente protette e custodite, accudite e assistite. Con questo scopo e dunque con caratteristiche funzionali ad esso si strutturano negli anni servizi e interventi di assistenza e protezione, strumenti, approcci e anche modi di vedere, parlare e rappresentare la disabilità. La convenzione ONU, invece, modifica proprio questo: il paradigma, e quindi ci si trova a guardare con uno sguardo nuovo pratiche e sistemi vecchi. Naturalmente l’effetto è spiazzante.
Quale nuova prospettiva per i diritti delle persone con disabilità apre la Convenzione ONU?
La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità dice una cosa tanto semplice quanto dirompente: la disabilità è una forma di diversità, una tra le tante che siamo abituati a pensare come proprie degli esseri umani- colore della pelle, orientamento sessuale, genere. In quanto tale non può essere utilizzata come giustificazione per la negazione di alcun diritto umano, civile e sociale.
Una forma di diversità da’ luogo a uno svantaggio in quanto il contesto è costruito, pensato e articolato senza tenere conto di quella variante. I nostri contesti sociali, materiali, culturali sono prevalentemente costruiti oggi da persone senza disabilità per persone senza disabilità: questo genera uno svantaggio, che è una discriminazione. Non si tratta, come a volte si dice, di “abilità diverse” ma di meccanismi di oppressione: i contesti di vita sono strutturati in modo da escludere le persone che hanno certe caratteristiche, e si giustifica con queste stesse caratteristiche l’esclusione. Se un preside dicesse che la sua scuola non si sente attrezzata per accogliere alunne, date le caratteristiche specifiche delle ragazze, saremmo tutti d’accordo che si tratta di una discriminazione inaccettabile: da una parte perché è dato per scontato che i contesti siano attrezzati per accogliere le differenze di genere, dall’altra perché, si obietterebbe, le alunne non hanno tutte le stesse esigenze educative, le stesse storie, le stesse caratteristiche. Se invece ascoltiamo un preside affermare che la scuola che dirige non è attrezzata per accogliere alunni con disabilità, ci appare un’affermazione ragionevole. Magari poco gentile o “sensibile”, ma possibile. Si vede bene da questo esempio come la normativa non sia sufficiente: in entrambi i casi nel nostro paese non è consentito il rifiuto dell’iscrizione, ma è la tolleranza culturale, che ne “giustifica” una, rendendola relativamente diffusa, e ne condanna l’altra, rendendola un episodio di cui non avete mai sentito parlare.
La Convenzione ONU porta dunque la visione della disabilità come una forma di differenza e l’indicazione di una piena parità di diritti, ma le porta in un in un panorama culturale in cui l’accostamento “diritti e disabilità” è inconsueto. Quando questo accostamento avviene evoca un universo semantico ben definito: la parola diritti se accostata alla disabilità significa- o almeno significava prima della Convenzione- un’altra cosa. Se parliamo di diritti e disabilità ci sembra sempre di trattare una certa area di diritti, specifica e circoscritta: assistenza-pensione-parcheggio-ausili. Assistenza, pensione, parcheggio, ausili sono supporti, sostegni necessari, ma la finalità con cui sono forniti resta l’accesso pieno a tutti i diritti sociali, civili, umani. A complicare ancora il quadro, c’erano, e ci sono ancora oggi, alcuni concetti che funzionano da catalizzatore quando si parla di disabilità. Un certo significato di “solidarietà” è uno di questi: ogni volta che si parla di disabilità, e in particolare ogni volta che si ci si domanda come fare a garantire alle persone con disabilità la fruizione di un diritto, la risposta attiene al piano della solidarietà. La solidarietà, per come si declina quando ha a che fare con la disabilità, ne definisce uno specifico sottoinsieme semantico che attiene a un grappolo di azioni che non si configurano come reciproche: di solito per “solidarietà”, in questo campo, si intende infatti un gesto operato sistematicamente da parte di non disabili verso persone con disabilità. Entrano in campo concetti che nulla hanno a che fare con il diritto: dalla bontà al merito, dall’accoglienza al buon cuore. In questa narrazione finisce per apparire accettabile che la cittadinanza delle persone con disabilità dipenda dal buon cuore, dalla sensibilità, dal tempo e dalla voglia delle persone senza disabilità. Se torniamo al nostro esempio della scuola, sentirsi rispondere “beh dai, cerca una scuola più sensibile” a fronte del rifiuto dell’iscrizione della propria figlia a scuola apparirebbe del tutto fuori luogo. Questo fatto pone una radice storta a tutti i discorsi sui diritti, perché genera un’asimmetria strutturale, irrisolvibile, tra persone con disabilità e gli altri cittadini per la banale ragione, tra le tante, che il viceversa non è vero: la cittadinanza delle persone senza disabilità non dipende mai dalla buona disposizione e dal buon cuore delle persone con disabilità.
La Convenzione ONU si inserisce in questo immaginario e dice: “attenzione: sulla base di uguaglianza con gli altri”. Questa espressione è il cuore della Convenzione: significa non diritti speciali, e non concessioni del buon cuore. Elencare i diritti, come fa la Convenzione, ha dunque il senso di evidenziare il fatto che vi sono le situazioni in cui questo “sulla base di uguaglianza con gli altri” non è rispettato, in cui la violazione di uno di essi è percepita come meno grave, o talvolta neppure percepita come una violazione, perché la si giustifica con la disabilità. Abbiamo fatto l’esempio della scuola, ma pensiamo ad esempio al diritto sancito all’articolo 19: scegliere dove e con chi abitare. Se ci immaginiamo che ci sia una situazione in cui chi è nero o chi è gay non può scegliere dove e con chi abitare, ma è tenuto ad andare a vivere in appartamenti appositamente costruiti e organizzati per “persone come lui” rileviamo immediatamente una enorme discriminazione. Non sarebbe qualcosa di accettabile. Se pensiamo la medesima costrizione giustificata con un’altra forma di differenza, la condizione di disabilità, ci sembra invece del tutto ragionevole: le persone con autismo devono abitare in appartamenti per loro, dove l’operatore ritiene che sia il posto più adatto, dove c’è un posto libero. Non è sulla base di uguaglianza con gli altri: nessuna persona senza disabilità ha un potere così grande che grava sulla propria esistenza.
Nella prospettiva della Convenzione, non è dunque la disabilità che fa sì che il diritto venga violato, ma è il modello di disabilità culturalmente condiviso a far sì che la violazione di un diritto rimanga nascosta o venga accettata come consuetudine. La disabilità non è dunque ciò che causa la violenza, la segregazione, la violazione di un diritto (infatti violenza, segregazione e violazione di diritti colpiscono anche persone senza disabilità) ma è ciò che la rende, in uno specifico spazio e tempo, culturalmente accettabile e quindi tollerata. La Convenzione ONU elimina, anche dal punto di vista normativo, la possibilità di questa “giustificazione”: afferma cioè che non è più possibile consentire che una soluzione, un provvedimento, un trattamento siano considerati accettabili quando diretti a una persona con disabilità se sono considerati la violazione di un diritto quando diretti a una persona senza disabilità.
È semplice, ma è incredibilmente dirompente perché chiama in causa il controverso rapporto delle nostre società contemporanee, complesse e molteplici con il concetto di norma e sulle situazioni in cui la distanza da questa norma viene usata come unità di misura della possibilità di violare un diritto umano.
Quale cammino rimane ancora da percorrere per una piena e sostanziale attuazione della legge?
Per una piena e sostanziale attuazione della legge appare necessario comprenderne autenticamente la prospettiva: la Convenzione ONU afferma che la disabilità è una delle forme della diversità umana. Non si può percorrere un autentico cammino di attuazione senza aver compreso e interiorizzato questa definizione. È questa che ci consente una lente nuova per guardare non solo alla disabilità ma alla società in generale e ci interroga, come fanno le forme più radicali di differenza, rispetto alla nostra concezione di essere umano e di società. Una volta che assumiamo lo sguardo della Convenzione, il percorso di attuazione è tutto in discesa: le esperienze condotte sui diversi territori, che raccontiamo nel libro, lo mostrano chiaramente.
Bisogna fare però attenzione a non fare il movimento inverso, cercando, magari nella fretta di “attuare subito” di “infilare” la Convenzione dentro un’idea di disabilità che non le appartiene. Nel momento, ad esempio, in cui affermiamo che la Convenzione tutela le persone con disabilità perché sono “fragili”, stiamo continuando a pensare all’interno di uno schema che disegna questa fragilità come una caratteristica intrinseca della persona, determinata dalla disabilità. È radicalmente diverso affermare – come fa in effetti la Convenzione stessa – che la Convenzione tutela le persone con disabilità perché sono discriminate, non perché sono fragili. La norma, in questa prospettiva, è un costrutto culturale e non, come spesso viene superficialmente rappresentata, un dato statistico incontrovertibile. L’universo semantico della normalità, oggi, seppure spesso coperto dal manto del politically correct (guai a dire “normale”) è ancora strutturale nel pensiero sulla disabilità. È necessario in questo senso superare la visione della differenza per somma di etichette: ogni persona, con le sue caratteristiche, si colloca al crocevia di storie, relazioni, connessioni, dentro un sistema di persone, luoghi, culture che la definiscono e che lei stessa definisce. La Convenzione ONU ci ammonisce rispetto al fatto che le persone con disabilità non fanno eccezione: sono al centro di un reticolo complesso di caratteristiche e relazioni (presenti e passate) le differenze riguardano vulnerabilità sociale e accesso, riguardano il modo in cui lo stato di “occupa” di quelle persone, riguardano la concreta opportunità che quella persona ha i prendere la parola per se stessa, senza ritrovarsi sempre nella cornice sminuente della “testimonianza”, mentre poi i discorsi veri li fanno i tecnici.
Lavorando nella prospettiva di garantire i diritti alle persone con disabilità, sperimentare modelli analitici diversi rispetto a quello della “carenza individuale” consente di immaginare sistemi in cui le persone possono spostarsi dalla posizione di svantaggio sociale in cui si trovano restando quello che sono e non, come spesso avviene oggi, rinnegando o riducendo la caratteristica che è socialmente individuata come matrice della differenza. Entrare in una prospettiva intersezionale ci consente di muoverci su altre direttrici, di assumere la posizione sociale delle persone dei cui diritti ci occupiamo non come determinata da una specifica caratteristica ma come socialmente e culturalmente situata, quindi intrinsecamente variabile. È possibile, in questa prospettiva, guardare alle persone di cui sostengo i diritti non più con l’intento di osservare quanto sono diventati simili a chi i diritti li ha garantiti, quanto sono, ad esempio “migliorati”, ma osservando, ad esempio, la ricostruzione e la riconquista del capitale retorico e sociale la cui mancanza inizialmente definiva uno svantaggio, una forma di marginalizzazione, di discriminazione o di oppressione. Il percorso per l’attuazione, a questo punto crediamo sia chiaro, non passa da un metodo. Negli anni ne abbiamo sviluppati diversi, dimostrandone anche l’efficacia, prevalentemente con il fine di sfilarci dalla falsa dicotomia tra teoria e pratica: “in teoria sarebbe bello, ma in pratica non si riesce..”: riuscire anche in pratica è stato il modo più veloce che abbiamo trovato per spazzare via questa obiezione. Ma non è questo il punto.
Ci è capitato spesso di incontrare un implicito atteggiamento di sfida verso la Convenzione e i cambiamenti che porta, esplicitato spesso attraverso la richiesta di “dimostrare” che fosse un approccio attuabile. Ad oggi, a fronte di numerose esperienze che mostrano chiaramente come l’attuazione sia una strada aperta e possibile, questo atteggiamento lascia francamente disarmati. La Convenzione ONU afferma che tutte le persone hanno uguali diritti: la posizione verso questa affermazione non può essere quella di domandarne una dimostrazione. Si tratta di un’indicazione normativa ed etica, non di una metodologia di cui sperimentare l’efficacia. Parallelamente, anche l’attuale conformazione dei servizi e dei sostegni sottende una precisa visione dell’uomo e delle persone con disabilità, quindi la scelta non è tra una visione universalista dei diritti, che da’ luogo a pratiche nuove rispettose della Convenzione, e una visione neutra, che darebbe luogo alle pratiche attuali. La scelta è tra un sistema che presuppone che tutte le persone hanno gli stessi diritti a prescindere dalle loro caratteristiche e un sistema che presuppone che vi siano diritti diversi per persone con caratteristiche diverse. Si tratta di una scelta etica a cui non ci si può sottrarre- o pensi uno o pensi l’altro- ma ad oggi si tratta anche di una cogente indicazione normativa: non è solo giusto, ma è anche prescritto per legge. Il fatto che la Convenzione sia legge sta aiutando chi lavora per l’attuazione, perché consente di disegnare uno spazio per riorientare lo sguardo che abbia una cornice formale, una legittimazione incontrovertibile. Il cammino appare lungo, ma appare anche inscindibilmente intrecciato con le numerose istanze di miglioramento sociale e culturale che attraversano le nostre società negli ultimi anni.
Cecilia Marchisio, psicoterapeuta e dottore di ricerca di Pedagogia delle Scienze della Salute, è ricercatore in Pedagogia Speciale all’Università di Torino. Lavora nel campo della sperimentazione e della messa a punto di politiche pubbliche volte a garantire l’accesso universale ai diritti. Ha esperienza nel campo dell’associazionismo di familiari e delle pubbliche amministrazioni.
Natascia Curto, educatrice e dottore di ricerca in Scienze Umane e Sociali, è assegnista di ricerca e professore a contratto all’Università di Torino. Lavora nel campo degli approcci educativi che promuovono l’accesso ai diritti e della capacitazione. Sono entrambe membri fondatori del Centro Studi per i Diritti e la Vita Indipendente dell’Università di Torino.