
Anche se il discorso dell’autore trasmette idee prodotte da una soggettività, esso in ultima istanza acquista agli occhi del lettore una sua oggettiva concretezza di senso. Ḕ questa l’“oggettività del testo” con la quale l’interprete è chiamato a confrontarsi. L’autore si annulla interamente nella realtà verbale che egli crea quando costruisce il suo testo; le sue intenzioni non si possono cercare al di fuori del testo: quelle che erano le sue intenzioni diventano alla fine le “intenzioni del testo” e solo lì, nella concreta forma del suo discorso, possono essere individuate.
L’interprete per parte sua deve adeguare se stesso a quella realtà che, creata dalla soggettività dell’autore, è divenuta testo, in quanto ha assunto una facies linguistica concreta e oggettiva. Ecco perché l’interprete deve tener fuori dalle sue incombenze ogni protagonismo importuno e attenersi invece al concreto aspetto fenomenico che il testo ha assunto nell’espressione. Ma per riuscire in questo cómpito, egli ha bisogno di un’idea forte della conoscenza; se vuol capire e non abbandonarsi a fantasticherie, dovrà necessariamente confidare nella ‘verità’ delle parole che formano il testo.
In che modo «dal secondo dopoguerra, ha cominciato ad affacciarsi l’idea che il significato di un testo fosse indipendente dal controllo dell’autore»?
Già dai princìpi dell’era cristiana (e forse ancor prima, nell’ermetismo greco) si sono susseguite forme di ermeneutica che negavano ai testi letterari un senso univoco ed esaltavano l’illimitatezza dell’interpretazione. Ha dunque origini remote la moderna critica “reader-oriented” che tratta il testo come una costruzione aperta, in cui – complice una pretesa ambiguità del linguaggio – il senso non sarebbe più il prodotto delle concezioni consapevoli dell’autore ma germoglierebbe di volta in volta dalla libera ingegnosità dei lettori.
Il fatto è che negli ultimi decenni del secolo scorso una ventata di crisi ha investito i valori della razionalità quali erano stati proclamati dall’Illuminismo; scetticismo e ironia hanno finito per minare i tradizionali postulati conoscitivi. Tali postulati sono stati travolti da un relativismo epistemologico: il virtuale ha soppiantato il reale. Tutta questa polemica di ispirazione postmodernista (antesignano il filosofo Derrida e il suo decostruzionismo, ma anche Lyotard con la sua critica della condizione postmoderna e Rorty con la sua ironia) ha inaugurato una temperie culturale che riconduce a uno sterile oscurantismo. Per fortuna si può dire che gli effetti negativi di tali tendenze corrosive sono ormai giunti a esaurimento o addirittura sono già estinti: da tempo e da più parti infatti si percepisce una rinnovata fame di realtà. Tutte le istanze di quei pensatori dèsabusés sono cadute nel vuoto giacché nessuno di loro ha mai saputo aggiungere nulla alla nostra conoscenza analitica o empirica.
Suggestionato da tale crisi del pensiero critico e per altro verso incoraggiato dai fantasmi critici della stagione simbolistico-decadente, l’interprete postmoderno non esita dunque a praticare la più impropria manomissione del testo, fino alla sua completa espropriazione. Solo un interprete smagato quale egli sente di essere (in quanto appunto scettico ed ironico) sarebbe allora l’interprete capace di comprendere quel che si nasconde sotto l’evidenza superficiale, giacché l’originaria intenzione dell’autore resterebbe fatalmente preclusa a chi legge: l’autore infatti sarebbe inevitabilmente ‘parlato’ da quel linguaggio stesso con cui si illude invece di poter comunicare.
È così che l’interprete viene a mutarsi in proprietario (o almeno in gestore) del testo e dei suoi significati nascosti. Egli opera in realtà come un artifex artifici additus, come ‘collaboratore’ dell’autore, e si sente perciò legittimato ad estrarre dal testo tutto quel che egli sospetta sia possibile: il significato delle parole risiederebbe anzi in quel che non viene detto e che dietro di esse sta mascherato. L’opposizione ad ogni vecchio e nuovo positivismo critico diventa il suo nuovo credo (e se cerca un maestro autorevole, se lo fabbrica forzando le critiche antipositivistiche di Nietzsche). Tale interprete rifiuta ogni spiegazione oggettiva e razionale; si costruisce una concezione che non è fondata più sul ‘vero’ della realtà, bensì su quanto sfugge alla ragione. La realtà stessa diventa solo un’apparenza che nasconde un’altra realtà, misteriosa e più profonda, comunque instabile. Il suo soggettivismo diventa così lo strumento per la ricerca di una verità oscura, a metà fra il conscio e l’inconscio.
L’interprete disciplinato a cui io vorrei ci si affidasse pratica invece un altro mestiere: non è altro che un famulus artifici additus. Ḕ cioè un ‘servitore’: le sue mansioni consistono nel piegarsi docilmente alla lettera del testo, non nell’estorcerne un senso a piacimento. La sua gloria è solo ancillare, la sua virtù è la modesta fedeltà ai segni linguistici e alle cose concretamente segnalate nel testo. La Filologia è la sua arma, e si applica nella riacquisizione di un senso che è quello programmato dall’autore, vale a dire quello che da lui è stato originariamente depositato nel testo. Solo le sperimentate procedure di un metodo filologico ormai millenario possono insomma contrastare gli abusi di pratiche interpretative arbitrarie e in ultima analisi assolutamente antieconomiche: sono pratiche illegittime che sottraggono alla comunicazione letteraria il valore di conoscenza condivisa.
In cosa consiste il significato di un testo?
Il significato di un testo è quello stesso che l’autore ha programmato e che riflette i presupposti storico-empirici che hanno dato origine al testo. Il significato è una costruzione che l’autore ha realizzato quando ha usato il linguaggio che convenzionalmente lo accomunava ai suoi destinatari. Alla fine del processo compositivo essi pure – i destinatari e la loro cultura – figurano tra i “significati” che individuano il testo e sono riconoscibili nella forma ideologica del discorso. Forse qualcuno vorrà magari distinguere fra “l’intenzione di senso” imposta dall’autore e il “senso depositato nell’opera”, ma semmai dovrebbe essere cómpito dell’interprete mediare fra questi due aspetti complementari: entrambi andrebbero comunque indagati entro i limiti del contesto reale, non fuori o nell’indifferenza di esso. Il significato del testo, per quanto assediato da infinite interpretazioni diverse, non può perdere la sua costitutiva identità, un’identità che è oggettiva solo se corrisponde a quella concepita dall’autore.
Bisogna imparare a discriminare fra le possibili interpretazioni: è evidente che non tutte sono possibili. E se è difficile dire quale sia giusta, è facile invece dire quali sono impossibili. La logica della convalida offre un metodo: lo strumento di verifica non potrà che essere il controllo esercitato dalla Filologia, in quanto scienza di un senso probabile. Nell’ermeneutica la verifica delle ipotesi è appunto l’unico processo mediante il quale si riesce a stabilire la relativa probabilità di una qualunque interpretazione. Se un significato non viene metodicamente verificato, esso resterà irrelato, sarà soltanto il significato dell’interprete, potrà trovare validità unicamente nel suo arbitrio.
Si ha sempre l’impressione che l’interprete indiscreto sia come ossessionato dal timore che un’ermeneutica rispettosa dei segni linguistici da cui è formato il testo risulti limitante, difettosa, incompleta, rispetto alla pluralità di sensi che a piacere possono essere attribuiti al testo – quasi che una illimitata proliferazione dei significati potesse essere un omaggio capace di certificare la ricchezza poetica di un’opera. Sciocca illusione: le interpretazioni infondate non arricchiscono affatto il senso del testo, bensì lo falsano, finiscono anzi per oscurare o indebolire i suoi veri significati.
In che modo, nell’interpretazione dei testi letterari, si scontrano il problema della verità con il problema della certezza?
L’uso di “vero” e “falso” allude all’idea di concordanza o corrispondenza con la realtà esterna o con i fatti – nel nostro caso con la fattualità dei segni linguistici e con la loro capacità di rinviare a significati appropriati. L’idea di verità è d’importanza fondamentale per la teoria della conoscenza e in particolare della conoscenza scientifica. Scienza infatti è ricerca della verità: non è il possesso del sapere, ma la ricerca della verità. Su ciò però epistemologi e logici non trovano un accordo. Secondo molti di loro, se si accetta la teoria della corrispondenza – ossia si assume che la verità di una proposizione sia la sua concordanza con i fatti – occorre distinguere la verità dalla certezza, distinguere la verità dalla fondatezza o dimostrabilità. La dimostrabilità o la fondatezza d’una proposizione – per quel che riguarda noi, empirici interpreti dei testi letterari, – ha come immediata conseguenza il suo valere per vera; ma i filosofi obietterebbero che non vale il contrario: una proposizione potrebbe concordare con i fatti (cioè essere vera), senza peraltro essere dimostrabile.
Io credo che il concetto di verità debba svolgere soprattutto il ruolo pratico di ‘idea regolativa’. Potremmo anzi dire che il fatto di sapere che vi è qualcosa come la verità (o la corrispondenza) giova al progresso della conoscenza scientifica. Anche se non si sa quanto si è vicini alla verità, o quanto se ne è lontani, è possibile tuttavia approssimarsi ad essa sempre di più. Si arriva così all’idea di ‘verosimiglianza’, che è il criterio di conoscenza più vicino a quello che l’interprete possa praticare se accetta che un discorso scritto sia dotato di un dato senso, di un senso specifico.
Si sa che uno dei metodi per accettare o rifiutare le opinioni è sottoporle a controllo empirico: si confronta l’opinione da controllare con i dati forniti dall’osservazione del testo. Così un’ipotesi interpretativa non è altro che un giudizio di probabilità corroborato da prove. Si compone infatti di numerose sub-ipotesi che sono anch’esse giudizi di probabilità. In tal modo, se non la certezza, si può raggiungere l’oggettività di un giudizio. O, al peggio, se non l’oggettività, si può raggiungere almeno un consenso intersoggettivo. Quello che garantisce la Filologia.
Gian Biagio Conte è professore emerito di Letteratura latina alla Normale di Pisa e Visiting Professor a Oxford, Princeton, Berkeley, Stanford. Ha curato le edizioni critiche di Eneide e Georgiche (Teubner 2009, 2014, 2019).