
I copti vengono anche definiti ortodossi; il loro attuale patriarca è Tawadros II, eletto nel 2012 dopo la morte del predecessore Shenouda III. Copta è anche definita la Chiesa ortodossa d’Etiopia, sebbene nel tempo la dottrina originaria sia stata modellata secondo le tradizioni locali allontanandosi in parte da quella alessandrina. Per estensione il termine copto è stato utilizzato dal secolo scorso anche per designare quei copti ortodossi che sono diventati cattolici o protestanti. In Egitto esistono, infatti, tre comunità che si dichiarano esplicitamente copte: la comunità copta ortodossa, la comunità copta cattolica e la comunità copta protestante che comprende quella evangelica e quella anglicana. Un ultimo dato sul quale è necessario soffermarsi è la valutazione della dimensione numerica della comunità copta nell’Egitto contemporaneo, considerata tuttora un problema particolarmente complesso dal punto di vista storiografico. Tenendo conto delle diverse valutazioni, si può verosimilmente ritenere che la percentuale dei copti sul totale della popolazione non sia superiore al 10%.
Quale ruolo hanno avuto i copti nella storia dell’Egitto moderno?
I copti hanno giocato un ruolo molto importante nella storia dell’Egitto moderno. La tolleranza mostrata da Muhammad ‘Ali – che governò il paese dal 1805 portandolo, grazie alle riforme economiche, politiche e sociali realizzate, nella modernità – e dai suoi predecessori nei confronti della comunità cristiana, permise ai copti di svolgere e ricoprire incarichi di rilievo nell’amministrazione statale. Per modernizzare lo stato il sovrano favorì una migliore integrazione dei copti nella vita del paese. Ma il riconoscimento dei loro diritti stentava ancora ad emergere. Se si considera lo sviluppo dell’apparato burocratico nel periodo dell’occupazione britannica (1882), risulta evidente che i copti ricoprirono gli incarichi di maggiore responsabilità in forza delle loro conoscenze pratiche nel settore amministrativo e finanziario: nel 1907 la comunità copta rappresentava probabilmente l’8% della popolazione, ma occupava quasi la metà dei posti disponibili per gli egiziani nell’amministrazione. In questa situazione essa cominciò a reclamare a gran voce i suoi diritti: istruzione religiosa nelle scuole statali; istituzione della domenica come giorno di festa per gli studenti cristiani delle scuole statali e per gli impiegati cristiani, la nomina di copti nel corpo di rappresentanza governativo. Vivendo in uno stato di discriminazione perenne, i copti chiedevano un’adeguata rappresentanza negli organi di governo e speravano che la promulgazione della costituzione riuscisse a promuovere e garantire l’uguaglianza politica e civile, ideali assunti a simbolo e motto della rivoluzione del 1919. La costituzione del 1923 rappresentò un fatto storico importante poiché, oltre a fornire la cornice d’azione istituzionale dell’attività politica egiziana, pose l’attenzione sul problema delle minoranze. Essa venne ufficialmente promulgata nell’aprile del 1923, ma malgrado i passi in avanti fatti fino a quel momento, la richiesta avanzata da molti copti di separare la sfera politica da quella religiosa non vi trovò piena espressione: per fare un esempio, l’inserimento nella costituzione dell’art. 149, che proclamava l’islam religione di stato e l’arabo lingua ufficiale, era in conflitto con l’art. 3, che sanciva l’uguaglianza di tutti gli egiziani. I copti furono molto attivi anche in ambito politico, militando in diversi partiti, e parteciparono alla rivoluzione del 1919 contro il protettorato inglese esprimendo il loro patriottismo a fianco dei musulmani dietro la bandiera della mezzaluna che racchiude la croce. Nonostante i vari tentativi di rompere il fronte unico anti-britannico, gli inglesi si resero presto conto della difficoltà di dividere i musulmani e i copti su un terreno, quello dell’indipendenza, troppo caro ad entrambi. Gli anni Trenta videro la definitiva rottura dell’alleanza nazionale tra copti e musulmani e la messa al bando dei cristiani dalla gestione del governo nonché il ritorno di vecchie restrizioni, come la proibizione di costruire o ristrutturare le chiese. Da quel momento si aprì una fase difficile per i copti che dovranno ritagliarsi un ruolo politico e sociale negli ultimi anni dell’Egitto monarchico.
Quali diverse fasi ha vissuto la comunità copta nell’Egitto di Gamal ‘Abd al-Nasser?
Gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentano gli anni della presidenza del ra’is d’Egitto, la cui immagine e i cui discorsi rimangono impressi nella memoria di ogni egiziano: Gamal ‘Abd al-Nasser, l’uomo del nazionalismo egiziano ma anche del panarabismo, leader degli egiziani e degli arabi tutti, colui che provò a dare una sterzata secolare all’Egitto; l’uomo della nazionalizzazione di Suez (1956), della Guerra dei Sei Giorni (1967) e della disfatta clamorosa che pesò sulle coscienze del popolo arabo e che anticipò di tre anni la sua morte (1970). Questo lungo periodo fu una sorta di “epoca d’oro” nei rapporti interconfessionali in Egitto, una parentesi nella storia egiziana, fondamentale per comprendere gli sviluppi successivi della questione confessionale nel paese. Il colpo di Stato messo in atto nel luglio del 1952 dagli Ufficiali liberi inaugurò un periodo storico nel quale venne sancito non soltanto un cambiamento nella forma di governo – la monarchia cedette il passo all’instaurazione di un sistema repubblicano – ma anche una chiusura ideologica, politica, sociale ed economica con il sistema precedente. I primi anni Cinquanta, con la presidenza di Muhammad Nagib (1953-54), furono gli anni della stabilizzazione al potere degli Ufficiali liberi: essi promossero energicamente l’attuazione di una politica che prevedesse il coinvolgimento della comunità copta, così come di tutte le componenti della società, a sostegno del nuovo governo lanciando a tutti gli egiziani l’appello all’unità, all’uguaglianza e al rispetto dell’ideale nazionale. Durante gli anni Cinquanta vennero collaudate politiche diverse che, oltre a colpire il vecchio regime e le élite che lo sostenevano, provocarono ingenti danni alla comunità copta. Dalla riforma agraria del 1952 alla legge di unificazione delle giurisdizioni del 1955, passando per le nazionalizzazioni del 1957 e del 1960, i copti subirono una grave perdita di prestigio ma anche una serie di restrizioni economiche e sociali. Queste riforme, tuttavia, non furono finalizzate a proteggere gli interessi e le tradizioni di un gruppo a danno di un altro ma rientravano nel programma politico ed economico dei rivoluzionari e del loro maggiore rappresentante, Gamal ‘Abd al-Nasser – eletto presidente della Repubblica nel 1956 – il quale intendeva accentrare il potere e il controllo della società nelle mani del nuovo Stato, esautorando la vecchia leadership politica. Dalla fine degli anni Cinquanta i rapporti tra la comunità cristiana e lo Stato cominciarono a mutare. Era un periodo di “rinascita” che sembrava sfumare le differenze confessionali nell’affermazione dell’unità nazionale. In occasione della guerra di Suez la comunità copta sembrò ritrovare lo spirito e lo slancio nazionalista delle lotte di inizio XX secolo. L’appello comune alla nazione egiziana diventò lo strumento attraverso cui il governo riuscì a sopire le tensioni tra i gruppi religiosi, ma soprattutto rappresentò per la comunità copta il principio attorno al quale definire la propria identità. La ritrovata partecipazione politica venne consolidata attraverso la partecipazione del ra’is e dell’allora patriarca Cirillo VI a eventi memorabili, come la costruzione della cattedrale di San Marco nel 1965 e le apparizioni della Vergine nel 1968, e a periodi difficili che il regime nasseriano dovette affrontare, come in occasione della Guerra dei Sei giorni. Potremmo parlare, a tal proposito, di una vera e propria amicizia e intesa volta a ottenere per la Chiesa notevoli concessioni, e per il regime alleanze e appoggi politici. La Guerra dei Sei giorni consacrò la definitiva alleanza tra la comunità e il regime contro il sionismo e lo Stato di Israele contribuendo al risorgere di uno spirito nazionale in cui i conflitti interni di carattere religioso passarono in secondo ordine. Con la morte di Nasser nel 1970 ripresero vigore i gruppi di ispirazione islamica che si rivolgevano ad una interpretazione dell’islam in senso radicale. Iniziò un nuovo periodo di ripiegamento per i copti, che si trovarono a dover ridisegnare la loro posizione all’interno della società, stavolta come “comunità protetta” e non più integrata all’interno del progetto statale.
Qual è il ruolo della comunità copta nell’Egitto contemporaneo?
Copti e musulmani hanno condiviso per secoli e continuano a condividere tradizioni, spazi, culti. Diversamente dalle altre minoranze medio-orientali, i copti non differiscono dai musulmani linguisticamente, poiché sono tutti egiziani e parlano l’arabo: il credo religioso è il segno distintivo. Ancor più le differenze diventavano marginali se si vanno a vedere gli elementi culturali condivisi da entrambi i gruppi, frutto di mescolanze e di convivenze tradizionali e lontane nel tempo. Tuttavia continuano, ormai da decenni, a ripetersi, senza soluzione di continuità se non per brevissimi intervalli, violenti scontri interreligiosi tra la comunità musulmana, che rappresenta la maggioranza, e quella cristiano-copta. L’Egitto affronta oggi una difficile fase politica, sociale ed economica. Gli ultimi attentati avvenuti nella Penisola del Sinai dimostrano come la sicurezza, punto fondamentale dell’agenda politica di ʿAbd al-Fattah al-Sisi, rappresenti un nervo scoperto dell’attuale presidenza. Gli ultimi attacchi terroristici contro i copti indicano, inoltre, che i cristiani potrebbero diventare in nuovo target della violenza in Egitto, essendo loro già bersaglio di intimidazioni e di atti di violenza. Dal brutale attacco dell’11 dicembre 2016 avvenuto alla cattedrale copta al Cairo, che provocò 25 morti e 49 feriti, all’attentato della domenica delle Palme, il 9 aprile, quando due esplosioni, realizzate a distanza di poche ore all’interno della chiesa a Tanta, città sul delta del Nilo, e ad Alessandria fuori dalla chiesa di San Marco, provocarono 27 morti e 78 feriti. E ancora l’uccisione e l’evacuazione forzata di diverse decine di cristiani ad al-Arish, capitale del governatorato del Nord Sinai, nel febbraio del 2017, a causa delle violenze perpetrate dai miliziani di Wilayat Sinai, gruppo affiliato a Daesh e l’assalto ad un autobus di pellegrini diretti verso un santuario nei pressi di Minya nel maggio del 2017, che causò la morte di 26 persone. Tutti questi eventi lasciano temere in un peggioramento della situazione attuale. I copti rappresentano tra il 7% e il 10% per cento dei 94 milioni di egiziani e sono storicamente oggetto di discriminazioni, sia a livello sociale che economico e politico: la costruzione di nuovi luoghi di culto, la possibilità di ricoprire incarichi nell’amministrazione statale, di ottenere un’adeguata rappresentanza politica negli organismi eletti e di godere della piena cittadinanza rappresentano i principali motivi di protesta da parte dei copti, a cui si sono aggiunti, in tempi recenti, i conflitti provocati dai numerosi episodi di conversione e di matrimoni misti che, il più delle volte, degenerano in veri e propri scontri settari. Quando nel 2013 al-Sisi salì al potere destituendo l’allora presidente Mohamed Morsi, rappresentante del partito Libertà e Giustizia espressione politica della Fratellanza musulmana, il patriarca Tawadros II si mostrò al suo fianco a sostegno dell’intervento militare e del nuovo processo politico. La comunità copta pagò il prezzo di questa apparizione pubblica: in una fase di pericolosa polarizzazione sociale, dura arrivò la condanna della Fratellanza musulmana contro la comunità cristiana per il suo appoggio al regime. Nell’agosto successivo diverse chiese vennero date alle fiamme e violenti scontri tra cristiani e musulmani si verificarono soprattutto nelle zone rurali dell’Alto Egitto. Questo partenariato politico tra stato e chiesa, di antica tradizione, è il simbolo di una collaborazione ormai salda tra il patriarca e il presidente. Un’alleanza in grado di marginalizzare, all’interno della comunità, qualsiasi dissidenza che chieda al patriarca di operare secondo il suo ruolo spirituale. Oggi il rischio concreto è che i copti diventino le vittime della guerra dichiarata dallo Stato egiziano ai gruppi islamici. Nel generale clima di impunità e radicalizzazione crescente, l’evidente incapacità di al-Sisi di proteggere i cristiani sta progressivamente alienando lo storico consenso della comunità al regime.
Alessia Melcangi è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e collabora con il Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo Allargato dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Da anni le sue ricerche si concentrano sulla storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente, con particolare attenzione alle dinamiche sociali e politiche dell’Egitto. Tra le sue opere recenti I copti nell’Egitto di Nasser. Tra politica e religione (1952-1970), Carocci 2017, volume pubblicato con il contributo dell’Unità di ricerca dell’Università di Catania nell’ambito del PRIN 2010-2011 e North African Societies after the Arab Spring: Between Democracy and Islamic Awakening, (ed.), Cambridge Scholars Publishing 2016.