“I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda” di Stefano Pivato

Prof. Stefano Pivato, Lei è autore del libro I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, edito dal Mulino: quando nasce la leggenda che dà titolo al Suo libro?
I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda Stefano PivatoNasce in Unione sovietica a partire dagli anni Venti. Una serie di carestie fra gli anni Venti e Trenta provoca milioni di morti: le notizie (vere) sul cannibalismo costituiscono l’aspetto angosciante di una narrazione che circola a cui si sovrappongono quelle (inventate) che costruiscono la leggenda come prodotto di una ideologia che divora l’infanzia. E, soprattutto, la rendono credibile nella realtà italiana in un contesto che è quello della guerra e di quel dopoguerra nella quale l’elemento esotico, e dunque ancor più perturbante, è accentuato da quei caratteri della dittatura staliniana che sempre più si identifica nell’immagine del suo protagonista, Stalin, raffigurato con l’espressione di un satrapo asiatico e con i tratti somatici di Gengis Khan. E le tragedie provocate dalla fame vengono presentate come pratiche di cannibalismo connaturate all’uomo «nuovo» creato dalla Rivoluzione di Ottobre, al pari della fedeltà al partito o della professione di ateismo. Così elaborata la storia si deposita nel senso comune che trasforma tutti i russi in comunisti e tutti i comunisti in divoratori dell’infanzia. Insomma siamo di fronte a quella che i semiologi definirebbero una trasposizione di senso. Insomma, quella leggenda prende corpo e diviene credibile all’interno di un sentire diffuso che matura mano a mano che ci si allontana dalla Rivoluzione di Ottobre e alle attese miracolistiche per quell’evento si sostituisce un senso di disillusione.

Come mai il ricorso all’accusa di cannibalismo per demonizzare gli avversari politici?
Perché quella leggenda mette al centro della attenzione il «nuovo» protagonista del Ventesimo secolo: cioè il bambino. Non a caso il Novecento è stato definito come il secolo del fanciullo. Il Ventesimo secolo proietta sulla scena sociale il mondo dell’infanzia: la prima guerra mondiale e successivamente il fascismo ne accelerano i processi di socializzazione, certamente come protagonista ma, soprattutto, come vittima. La Grande guerra, con la sua mobilitazione di massa, rivela la realtà dei figli dei soldati al fronte, quelli dei feriti e dei mutilati e porta all’attenzione dell’opinione pubblica gli orfani dei caduti. La mobilitazione scompagina nel profondo la struttura tradizionale della famiglia e palesa il problema dell’infanzia abbandonata.
L’emotività e la tensione si accentuano negli anni Quaranta proprio perché la seconda guerra mondiale registra un numero di vittime elevato fra i bambini. E questo a causa delle caratteristiche del conflitto che colpisce in misura significativa la popolazione civile per effetto dei bombardamenti aerei.
Mettere al centro della tragedia della guerra la figura del fanciullo significa scatenare emotività e passioni che costituiscono il terreno fertile dentro il quale una psicologia collettiva scossa dai traumi della guerra fa diventare verosimile anche l’inverosimile.

I comunisti vennero altresì accusati della deportazione di migliaia di bambini siciliani in Urss durante la guerra.
Alla vigilia del Natale 1943, a pochi mesi dallo sbarco alleato in Sicilia, gli organi di informazione posti sotto il controllo della Repubblica sociale e degli apparati informativi della propaganda tedesca, riportano la notizia che centinaia di bambini siciliani sono deportati in Unione sovietica. Suicidi di intere famiglie che preferiscono darsi la morte con i loro figli piuttosto che consegnarli al «mostro bolscevico», scene di disperazione di padri e madri e fughe sulle montagne per sottrarsi alla cattura e naufragi di bastimenti carichi di bambini fanno da contorno a un racconto che si trascinerà per mesi. La notizia che gli organi di informazione ripetono ossessivamente in quei giorni riguarda la destinazione di quei fanciulli: qualcuno sostiene che i bambini siciliani vengono inviati nei collegi «bolscevizzatori»; altri ritengono che la destinazione di quei bambini è una morte sicura; altri ancora scrivevano che i bambini erano inviati in laboratori sovietici per essere sottoposti a esperimenti di genetica. Si trattava con tutta evidenza di una «falsa notizia»: mai nessun bambino italiano sarebbe mai stato portato in Unione sovietica. Mai nessun soldato sovietico avrebbe messo piede sul suolo italiano. In realtà le deportazioni dei fanciulli stavano avvenendo dai ghetti ebraici di tutta Europa verso i campi di sterminio a opera dei tedeschi. Non per essere mangiati ma per morire di fame o nelle camere a gas. Ma questa storia, peraltro vera, non è mai circolata durante la seconda guerra mondiale e neppure dopo. Tutto questo si sarebbe saputo molti anni più tardi. Sono i paradossi della propaganda.

É ancora diffusa la convinzione che i comunisti mangino i bambini?
Fino a qualche anno fa certamente. L’anticomunismo di Silvio Berlusconi lo ha inserito di tanto in tanto fra i motivi di una propaganda nella quale i comunisti di ogni latitudine (italiani compresi anche se erano scomparsi da almeno un decennio) venivano assimilati ai cannibali con una voracità tutta speciale nei confronti dell’infanzia. Nel 2006 il fondatore di Forza Italia provoca le vibrate proteste del governo di Pechino perché nel corso di un convegno afferma che nella Cina di Mao i bambini «li bollivano per concimare i campi». Ancora per qualche anno la stampa del Cavaliere avrebbe accreditato quella leggenda. Ma oggi direi che non se ne trova più traccia. Resta il fatto che quella leggenda ha segnato per decenni la comunicazione politica.

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