“I Balcani dopo le guerre. Ascesa e declino dell’intervento internazionale” di Roberto Belloni

Prof. Roberto Belloni, Lei è autore del libro I Balcani dopo le guerre. Ascesa e declino dell’intervento internazionale edito da Carocci: qual è la situazione politica e sociale negli Stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia?
I Balcani dopo le guerre. Ascesa e declino dell'intervento internazionale, Roberto BelloniSlovenia e Croazia sono entrate nell’Unione Europea rispettivamente nel 2007 e nel 2013, e nel complesso posso beneficiare di solide istituzioni democratiche. Per gli altri paesi la situazione è più complicata. Il processo di dissoluzione della Jugoslavia, iniziato nel 1991, si è concluso con la dichiarazione d’indipendenza del Montenegro nel 2006 e del Kosovo nel 2008. Dal punto di vista politico queste dichiarazioni hanno fornito un certo livello di stabilità, dal momento che tutti gli stati che componevano la Jugoslavia hanno raggiunto l’indipendenza, oltre al Kosovo, che formalmente era una regione autonoma all’interno della Federazione. Tuttavia i rapporti rimangono tesi, in particolare in Bosnia, dove sia i Serbi che i Croati vorrebbero garantita maggiore auto-determinazione. L’indipendenza del Montenegro e del Kosovo ha fornito il pretesto al leader serbo bosniaco Milorad Dodik di rivendicare il diritto di indire un referendum sull’indipendenza della Repubblica Serba di Bosnia che, se attuato, significherebbe non solo la dissoluzione dello stato nella sua forma attuale ma anche lo scoppio di un nuovo conflitto armato. Negli ultimi mesi Dodik ha fatto passi concreti verso l’indipendenza, iniziando con il disconoscere apertamente la legittimità di alcune istituzioni dello stato centrale bosniaco. I rapporti rimangono complicati anche tra Kosovo e Serbia, che non ha mai riconosciuto ufficialmente la piena sovranità e indipendenza della sua ex provincia a maggioranza albanese.

A questi problemi va aggiunto il fatto che ovunque nella regione il governo delle istituzioni è sempre più autoritario e incapace di fornire risposte ai cittadini che, quando possono, cercano prospettive di vita migliori all’estero. L’emigrazione è probabilmente il fenomeno sociale più importante dell’ultimo decennio. Il fatto che spesso ad andarsene siano anche quanti hanno un lavoro stabile conferma che l’emigrazione non ha solo ovvie motivazioni economiche ma esprime anche la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, e più in generale verso un sistema di gestione del potere spesso clientelare e corrotto.

Come si è articolato il processo di peacebuilding nei Balcani?
La comunità internazionale è intervenuta in maniera massiccia per favorire la transizione post-bellica nei paesi colpiti dal conflitto, quali la Bosnia-Erzegovina, il Kosovo e la Macedonia del Nord. In generale, nella prima fase l’intervento esterno è stato molto assertivo. Funzionari internazionali hanno imposto riforme politiche, economiche e sociali nel tentativo di superare le resistenze delle élite politiche locali, che hanno di fatto occupato le istituzioni, e che governano fomentando l’ostilità e la paura nei confronti degli altri gruppi nazionali. Questo tipo di intervento ha però mostrato forti limiti sia normativi che pratici. Dal punto di vista normativo l’approccio internazionale ha creato una situazione paradossale nella quale i funzionari delle organizzazioni internazionali, che non rispondono in alcun modo ai cittadini della regione, hanno governato attraverso metodi autoritari, arrivando anche a rimuovere dal proprio incarico i politici locali democraticamente eletti che si opponevano all’intervento. Paradossalmente, i funzionari internazionali agivano in maniera autoritaria nel nome della promozione della democrazia.

Dal punto di vista pratico questo tipo d’intervento si è rivelato spesso controproducente, dal momento che l’imposizione esterna di istituzioni e riforme ha evitato che i leader locali si assumessero le proprie responsabilità di governo. Le istituzioni create dall’esterno sono state poi colonizzate dai nazionalisti locali e dalle loro reti clientelari e sono state incapaci di fornire risposte e servizi ai cittadini. Quando queste contraddizioni hanno iniziato a emergere con forza, dalla metà degli anni 2000 in avanti, la comunità internazionale ha cambiato strategia. L’Unione Europa ha avanzato la promessa di accogliere al proprio interno i paesi della regione sperando in questo modo di stimolare le forze riformiste locali e la responsabilità dei politici locali a farsi carico dei cambiamenti necessari per accedere all’Unione, cercando così di sviluppare anche un rapporto di responsabilità tra le istituzioni locali e i cittadini. In questa fase, l’auto-disciplina rispetto all’implementazione delle riforme richieste per accedere alla UE e la rendicontazione dei progressi fatti da parte delle istituzioni locali, da un lato, e il monitoraggio da parte di Bruxelles, dall’altro, sono diventati aspetti centrali del rapporto tra l’Unione Europea e gli aspiranti membri della regione.

Quale influenza esercita sugli Stati dell’area la prospettiva dell’integrazione nella UE?
In generale, la prospettiva d’integrazione non ha avuto l’impatto auspicato. Dopo l’ingresso di Slovenia e Croazia il processo d’allargamento non ha fatto passi in avanti significativi. La crisi economica e finanziaria del 2008 ha contribuito a rafforzare il punto di vista di alcuni paesi, come Francia e Olanda, che vogliono subordinare l’allargamento ai Balcani alla riforma delle istituzioni europee, di fatto allontanando la possibilità che i Paesi della regione possano entrare nella UE in tempi ragionevolmente brevi. Rimangono poi dispute bilaterali tra gli stati sud-est europei che sono già parte dell’UE e quelli che vorrebbero entrarvi. In particolare, il processo di adesione della Macedonia del Nord è stato bloccato prima dal veto della Grecia e ora da quello della Bulgaria. Di fatto, ormai da molti anni la UE non riesce più a fornire gli incentivi necessari alle élite locali per intraprendere il percorso di riforme richiesto da Bruxelles. Ma c’è di più. Con la crisi dei migranti del 2015-16 che ha portato alla ribalta il problema della cosiddetta “rotta balcanica”, la UE ha messo da parte le spinte riformiste e appoggiato i leader autoritari locali nel nome della stabilità e della difesa degli interessi europei – in particolare la chiusura e il controllo delle frontiere esterne.

Questa evoluzione nel rapporto tra EU e i Paesi della regione, o forse dovremmo dire involuzione, ha influenzato anche il punto di vista dei cittadini che, pur rimanendo in generale europeisti, iniziano sempre di più a vedere nell’Unione Europea un ostacolo anziché un sostegno alla democratizzazione.

Quale bilancio è possibile trarre dell’enorme investimento internazionale a sostegno della pace e della stabilità nell’area?
Il bilancio presenta luci e ombre. Sono stati raggiunti risultati notevoli dal punto di vista politico, economico e sociale. Istituzioni formalmente democratiche sono state create ovunque; la ricostruzione post-bellica è stata completata nel giro di pochi anni; la crescita economica è stata significativa per buona parte degli ultimi due decenni; a livello locale la convivenza tra i vari gruppi nazionali è spesso una realtà quotidiana. Allo stesso tempo, tutto questo ha avuto un costo. Corruzione e clientelismo sono diffusissimi; le istituzioni sono spesso gestite in maniera verticistica e autocratica e sono incapaci di fornire ai cittadini servizi degni di questo nome; la ristrutturazione economica secondo linee neo-liberali ha consentito buoni livelli complessivi di crescita ma in un contesto di alti livelli di disoccupazione. Rimangono irrisolti problemi enormi. La Bosnia è di fatto suddivisa in enclave etnico-nazionali, mentre le istituzioni sono paralizzate dalle continue tensioni alimentate ad arte dai rispetti partiti nazionalisti. Il rapporto tra Serbia e Kosovo ha fatto qualche passo avanti, ma la “normalizzazione” della relazione attraverso il reciproco riconoscimento appare ancora assai lontana. La Serbia, che rimane il paese chiave della regione, mantiene rapporti stretti con la Russia di Putin e sembra incapace di aderire con convinzione alla prospettiva europea.

Quali prospettive, a Suo avviso, per i Balcani?
Nei Balcani si gioca una partita geopolitica con rilevanza enorme per l’Europa. Orami da diversi anni l’Unione Europea ha relegato la regione ad una delle tante priorità della sua politica estera, di fatto aprendo la porta alla crescente influenza di attori esterni quali la Turchia, la Cina e, soprattutto, la Russia. Mosca ha rapporti stretti in particolare con la Serbia e la Repubblica Serba di Bosnia. In entrambi i casi il Cremlino esercita un’influenza considerevole, alimentata anche da importanti interessi economici. Non a caso la Serbia è l’unico paese europeo che si è rifiutato di aderire al regime di sanzioni imposto alla Russia a seguito della recente invasione dell’Ucraina. Dal canto suo, il leader serbo bosniaco Milorad Dodik ha sostenuto di non voler prendere posizione sulla questione dell’aggressione russa, in questo modo prevenendo qualsiasi iniziativa a riguardo da parte delle istituzioni centrali bosniache. In questo contesto non è da escludere il rischio di iniziative sostenute da Mosca volte a destabilizzare la regione, aprendo così un nuovo fronte di crisi in Europa. Non a caso la NATO e l’Unione Europea hanno già aumentato la propria presenza militare in Bosnia da 500 a 1.100 unità. Questo numero è certamente insufficiente nel caso che l’instabilità aumenti, ma il messaggio politico d’attenzione alla situazione è stato perlomeno lanciato.

Nel lungo periodo la prospettiva europea rimane l’unica alternativa realistica. La Russia esercita un’influenza non solo politica, ma anche economica e culturale considerevole sulle popolazioni ortodosse dei Balcani ma, se non altro da un punto di vista economico, la UE rimane di gran lunga l’attore più importante, e lo sarà anche per il prevedibile futuro. Per i prossimi mesi e anni, la questione principale da risolvere è quella del rilancio della prospettiva d’allargamento in modo tale che possa coinvolgere non solo le élite locali, ma anche i cittadini dei Balcani.

Roberto Belloni è professore ordinario di Scienza politica all’Università degli Studi di Trento ed è titolare della cattedra Jean Monnet The European Union and the Western Balkans: Enlargement and Resilience. Fra le sue ultime pubblicazioni, le curatele di Fear and Uncertainty in Europe (con V. Della Sala e P. Viotti; Palgrave Macmillan, 2019) e Stabilization as the New Normal in International Interventions. Low Expectations? (con F. N. Moro; Routledge, 2020).

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