“House of Trump. Ritratto di una presidenza privata” di Giovanni Borgognone

Prof. Giovanni Borgognone, Lei è autore del libro House of Trump. Ritratto di una presidenza privata edito da Bocconi. Il suo libro propone una lettura critica e originale della presidenza Trump, quella di una «presidenza privata»: in che modo l’ideologia privatistica del tycoon ne caratterizza la gestione del potere?
House of Trump. Ritratto di una presidenza privata, Giovanni BorgognoneNel libro ho proposto la nozione di «presidenza privata» per spiegare tanto il motivo del consenso che Donald Trump ha saputo conquistare nel 2016, quanto la modalità di gestione del potere nei tre anni successivi trascorsi alla Casa Bianca. Trump si è presentato agli americani come «eroe del privato», estraneo e avverso ai «giochi» della politica e dei partiti (incluso quello repubblicano), e ha continuato a ostentare quello stesso approccio dopo essere giunto alla guida del paese. Questa, peraltro, è la versione del linguaggio e dello stile politico del populismo che egli ha sfruttato. Ha riprodotto il modello di un esasperato individualismo privato, popolare e ricorrente nelle odierne serie televisive di grande successo, l’immagine dell’uomo spregiudicato e senza scrupoli che, su tale base, è in grado di raggiungere sempre i propri obiettivi. Gli americani che lo hanno votato hanno riposto la fiducia in questa forma estrema di soggettività quale unica soluzione ai loro problemi: solo uno che è pronto a sfidare e aggirare convenzioni e regole come Trump – hanno pensato – può fermare l’immigrazione irregolare dal Messico, contrastare la concorrenza commerciale sleale della Cina e dell’Europa, difendere senza compromessi e debolezze gli «interessi americani» sempre e ovunque. In questo quadro, la classica ideologia liberale «privatistica», quella incentrata sullo Stato minimo, sulla libera impresa e sul libero mercato autoregolato, è solo una componente, peraltro non senza deroghe e correzioni (a partire dai dazi protezionistici), della concezione «privata» della presidenza.

Qual è la fenomenologia del potere trumpiano?
La comunicazione e l’azione politica di Trump, come ho provato a mostrare nel libro, ricalcano, in primo luogo, il suo ruolo di celebrity businessman nel reality show televisivo di grande successo negli Stati Uniti The Apprentice, nel quale egli incarnava l’imprenditore di successo e privo di scrupoli che «licenziava» senza pietà aspiranti imprenditori quando non si dimostravano all’altezza delle sue aspettative (vi è stata anche una versione italiana, nella quale la parte di Trump era affidata a Flavio Briatore). In secondo luogo, quella di Trump potrebbe anche essere descritta come una «presidenza Netflix», per via del fatto, come dicevo, che riproduce la soggettività senza codici morali dell’«eroe» di molte serie tv. Infine, le dinamiche della comunicazione politica dell’era Trump richiamano quelle che sono anche alla base del successo del wrestling (sport-spettacolo significativamente molto amato dal presidente degli Stati Uniti): la «narrazione» è costruita intorno al «verosimile», di fronte al quale chi assiste è indotto ad autoconvincersi che si tratti della «verità»; è questa la modalità nella quale i follower di Trump su Twitter si riconoscono in quello che il tycoon scrive, indipendentemente da ogni riscontro fattuale. Tutto ciò, chiaramente, a detrimento di un’autentica politica democratica, intesa come deliberazione pubblica in vista del bene comune.

In che modo le vicende della presidenza Trump confermano la Sua tesi?
In primo luogo, è significativo che Trump abbia messo in atto, nei confronti di collaboratori e membri della sua amministrazione, la stessa logica del suo reality show, licenziando continuamente e dando luogo, così, a un turnover vorticoso quale non si era mai visto nella storia delle presidenze statunitensi. In secondo luogo, nella sua azione politica ha ostentato i connotati «virili», la mancanza di tentennamenti e debolezze (il «maschilismo» è anch’esso un aspetto essenziale dell’esercizio trumpiano del potere). Infine, sul piano delle relazioni internazionali, ha messo in difficoltà gli analisti che provavano a inquadrare ideologicamente e a prevedere gli orientamenti dell’amministrazione repubblicana: nella gestione delle crisi e nei rapporti personali con altri uomini di Stato – basti pensare ai repentini cambi di registro discorsivo, ad esempio, nei confronti del dittatore nordcoreano Kim Jong-un – Trump ha chiaramente dimostrato di rispondere soltanto alla logica del privato, spiazzando spesso i suoi stessi collaboratori con acrobatici susseguirsi di aggressività e conciliazione, interventismo e isolazionismo; egli ha voluto mostrare, in ultima analisi, di sapere estendere alle relazioni tra Stati le abilità personali, private, del deal maker, dell’imprenditore scaltro nel «contrattare» e pronto al bluff pur di ottenere i maggiori vantaggi possibili.

Donald Trump ha fatto largo uso delle retoriche della paura e del risentimento, facendo anche scuola tra i leader mondiali: qual è il significato profondo dell’«era Trump»?
Una tesi centrale del libro è che le odierne retoriche della paura e del risentimento (su cui hanno fatto leva, a livello globale, le forze politiche della destra populista), che possono avere per oggetto i flussi migratori così come le dinamiche della globalizzazione economica (ad esempio l’«invasione» commerciale), non sono ispirate, a differenza del tentativo di neutralizzazione della paura da parte del vecchio welfare state, a principi di solidarietà all’interno della «comunità» politica, bensì alimentano continuamente il senso di incertezza e l’ossessione della sicurezza privata. L’era Trump, in tale prospettiva, segnala esiti estremi di processi di lungo corso dell’età contemporanea, quali lo smarrimento della dimensione collettiva e comunitaria della politica, la fuga dal sociale e il ripiegamento nell’individualità privata, in quella condizione di perenne ricerca della gratificazione e di inquietudine e insoddisfazione che Christopher Lasch descrisse efficacemente come «cultura del narcisismo». L’uso dei social media appare particolarmente significativo in tal senso, in quanto, come è stato scritto, quel tipo di «connessione» non stimola realmente un senso di comunità ma una «misantropia coltivata in gruppo».

Quale impatto sulla storia degli Stati Uniti e sulle relazioni tra l’America e il mondo è destinata a produrre la presidenza di Donald Trump?
Sul piano interno, la presidenza Trump sta segnalando una profonda crisi dei due partiti politici tradizionali. I democratici sono divisi tra l’ala moderata, prevalente nell’establishment di partito, e l’ala liberal, sfavorita dalle difficoltà di un pieno accesso al voto (soprattutto da parte degli afroamericani) che ancora continuano a caratterizzare le elezioni in molti Stati. I repubblicani, anch’essi scissi al loro interno in diverse correnti (basti pensare alla sfida lanciata nei confronti dell’establishment dalla componente ultralibertaria che fa riferimento al Tea Party), si sono dovuti, inoltre, sottomettere all’indisciplinata e imprevedibile leadership trumpiana. Il linguaggio del presidente, peraltro, ha conferito visibilità e rispettabilità alla destra reazionaria e razzista, rimasta tradizionalmente ai margini del discorso pubblico americano. Sul piano dei rapporti tra gli Stati Uniti e il mondo, i primi tre anni dell’amministrazione Trump ci hanno abituati a un’estrema fluidità e turbolenza delle relazioni internazionali, con tensioni estreme e inaspettate conciliazioni che incalzano al ritmo di una serie tv. Si succedono timori di nuovi imminenti conflitti e illusioni di svolte epocali verso la pace. Tutto ciò rende, tuttavia, di difficile realizzazione qualsiasi serio programma di cooperazione e di governance globale a lunga gittata. Su molti fronti, ad esempio in materia ambientale o nella gestione di crisi regionali come quella mediorientale, l’amministrazione Trump è stata guidata primariamente dal principio di non avere vincoli permanenti; in quest’ottica vengono privilegiati, chiaramente, i rapporti bilaterali rispetto al multilateralismo. Nulla, pertanto, è più lontano dalla mentalità di Trump rispetto al «mondo di regole» che ispira invece, per molti versi, le politiche dell’Unione europea.

A Suo avviso, dobbiamo prepararci a un secondo mandato Trump?
Nella campagna elettorale del 2016, Trump si spinse ad affermare che si sarebbe potuto persino mettere a sparare in mezzo alla Fifth Avenue, senza comunque perdere voti. In effetti, c’è una parte del suo elettorato impermeabile a qualunque notizia sulle malefatte del presidente degli Stati Uniti. Inoltre Trump può contare sui dati economici dei primi tre anni di presidenza: a fine 2019, il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5 percento, il più basso dal 1969. Condizioni economiche simili generalmente hanno favorito la rielezione del presidente in carica. Infine, la concorrenza democratica non appare al momento in grado di preoccuparlo: l’immagine dell’ex vicepresidente Joe Biden è, per diverse ragioni, appannata; quelle dei liberal Bernie Sanders ed Elizabeth Warren sono sgradite all’establishment e all’elettorato democratico moderato; l’impatto della dispendiosa entrata, in ritardo, nella competizione elettorale dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg è al momento molto difficile da decifrare. Pur tenendo conto di tutti questi fattori, sono poco propenso, da storico, a fare previsioni. C’è sempre, peraltro, la possibilità che qualche evento, di qui a novembre, modifichi radicalmente il quadro politico statunitense. Senza considerare il fatto che un connotato costitutivo della «presidenza privata» di Trump, come delle più riuscite serie tv, è proprio l’imprevedibilità, per un verso ingrediente essenziale della sua fortuna ma per altro verso fattore costante di rischio.

Giovanni Borgognone insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino. È nella direzione delle riviste «Passato e presente» e «Storia del pensiero politico». Ha pubblicato diversi volumi sulla storia e la politica degli Stati Uniti, tra cui La destra americana. Dall’isolazionismo ai neocons (Laterza, Roma-Bari 2004), Tea Party. La rivolta populista e la destra americana (con Martino Mazzonis, Marsilio, Venezia 2012), Storia degli Stati Uniti. La democrazia americana dalla fondazione all’era globale (Feltrinelli, Milano 2016).

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