“Hollywood Babilonia” di Kenneth Anger

Hollywood Babilonia, Kenneth AngerHollywood Babilonia
di Kenneth Anger
traduzione di Ida Omboni
Adelphi

In quello che è ormai divenuto un classico, Anger racconta con dovizia di particolari la depravazione che, sin dai suoi esordi, era di casa nella Mecca del cinema: «Hollywood, la colonia del cinema, era stata creata da un gruppetto di commercianti ebrei della Costa Orientale, convinti che ci fosse qualcosa di buono nella cinematografia, e attirati nella California meri­dionale dai suoi leggendari trecentocinquantacinque giorni di sole all’anno, e dal prezzo modico dei terreni. Nella sonnolenta propaggine di Los Angeles dove si erano stabiliti, cominciò presto una disordinata fioritura di teatri di posa all’aperto, trappole per catturare il sole con le loro lente pellicole ortocroma­tiche. In pochi anni, a forza di macinare filmetti pri­mitivi e altamente redditizi, con le loro macchine da presa pirata – sempre all’erta per sfuggire agli impla­cabili uscieri di Edison – gli ex rigattieri e gli ex guan­tai coronarono felicemente un’operazione non faci­le, nell’Eldorado di Celluloide.­»

Nasceva lo star system: «Da un giorno all’altro gli attori del cinema, oscuri e alquanto malfamati, si trovarono presi in un vortice di adulazione, di fama e di fortuna. Erano i nuovi so­vrani, la Gente d’Oro. Alcuni riuscirono a reggere la situazione e a prenderla con disinvoltura, altri no.»

Scorrono così, tra le pagine ricche di fotografie dell’epoca, le morti tragiche e violente di star e starlette, da Virginia Rappe a William Desmond Taylor, vite consumate tra eccessi di alcol e droga: come Wally Reid o «Barbara La Marr, «la ragazza troppo bella», era la drogata più affascinante, ancorché sfortunata, di Hollywood. Aveva provato praticamente tutti i tipi di stupefacenti conosciuti, prima di andarsene per una dose fatale di eroina nel 1926, a ventisei anni.» Gli scandali non risparmiarono nemmeno Charles Spencer Chaplin, “Charlie”, e la sua sposa bambina Lillita “Lita”, il cui matrimonio finì con una combattutissima causa di divorzio.

O i misteri legati alla morte di Rudolph “Rudy” Valentino, il «Grande Amante del­lo schermo, a mezzogiorno e dieci del 23 agosto 1926, al Polyclinic Hospital di New York. Causa ufficiale della morte: una peritonite seguita a un’operazione d’appendicite a caldo. Ma le voci at­tribuivano la fine di Valentino alla «vendetta all’arse­nico» di una dama molto nota nella buona società newyorkese che l’attore aveva piantato dopo una bre­ve avventura, mentre si trovava in città, durante il giro di lancio del suo ultimo film: The Son of the Sheik (Il figlio dello Sceicco). Un’altra diceria affermava che era stato ucciso a revolverate da un marito furibondo e un’altra ancora che era sifilitico ed era morto quan­do la malattia gli era arrivata al cervello.»

Nulla potè l’ondata moralizzatrice di Will H. Hays che da presidente della Motion Picture Producers and Distributors of America Inc. nel marzo del 1922 aveva lanciato la sua crociata contro la rilassatezza dei costumi hollywoodiani: «Le immoralità si sarebbero tagliate: non più sconvenienze, non più baci prolungati e lus­suriosi, non più carnalità, e guai alle baldorie fuori scena. La gente del cinema era tenuta a osservare una Quaresima permanente.» Nei contratti dei divi del cinema fecero la loro apparizione apposite clauso­le di moralità ma con scarsi risultati: «Nonostante le clausole di moralità inserite nei con­tratti, le ammonizioni di Hays e dei capi degli studi e i clamorosi esempi di stelle cadute in disgrazia, il Cir­colo degli Eletti continuò imperterrito a far baldoria per tutti gli Anni Venti.»

Una storia in realtà proseguita sino ai nostri giorni tanto da ispirare anche un omonimo sequel della fortunata opera.

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