
Ora, per venire direttamente alla sua domanda e cioè al “significato” dell’avvenimento, bisogna cominciare col dire che di significati ve ne furono molti.
Intanto, come si sa, all’epoca in ballo c’era la questione dell’Asse – (un proposito di intesa italo-tedesca che, a dire il vero, era in discussione da due anni – e sul quale ora pareva a tutti che fosse giunto il momento di trasformare l’intenzione in un accordo vero e proprio. Una prospettiva che piaceva molto a Wilhelmstasse ma che trovava Mussolini dubbioso e, anzi, assai preoccupato delle smanie belliciste dei tedeschi. D’altra parte in quei mesi erano state avviate iniziative per avvicinare Inghilterra e l’Italia, la quale non intendeva affatto chiudersi in un rapporto bilaterale con la Germania. Peraltro non era nemmeno del tutto tramontato il proposito, coltivato dallo stesso Mussolini, di stipulare un “accordo generale” con l’Inghilterra; infatti, nonostante la crisi generata dalla avventura “imperiaie” abissina, l’Italia seguiva ancora la strategia della “doppia porta aperta”, della quale era testimonianza quel gentlemen agreement con l’Inghilterra del 1937 sulla libera navigazione mediterranea.
Mussolini era preoccupato dell’esuberanza tedesca in politica estera e, al tempo stresso, sperava che il crescente dinamismo di Hitler avrebbe indotto il governo britannico ad accettare un accordo generale che ponesse – su base paritaria! – i rapporti italo-inglesi nel Mediterraneo.
A palazzo Venezia si riteneva che l’ “opzione tedesca” sarebbe stata l’ultima che il governo italiano avrebbe preso in considerazione e solo dopo che fosse fallito ogni tentativo di ricucire le relazioni con le potenze occidentali, e in special modo con l’Inghilterra.
Peraltro l’Italia guardava anche ad Est con interesse, soprattutto con l’obiettivo di instaurare buoni rapporti sia con la Romania che con la Iugoslavia proprio per calmierare le spinte espansive tedesche in quello scacchiere. Su tutto gravava poi la grave crisi spagnola esplosa nel luglio del ’36 e che vedeva coinvolta l’Italia. Si ricordi quanto scrisse l’ambasciatore Dino Grandi a proposito della Germania che spingeva l’Italia a esporsi pesantemente sulla questione spagnola per poi esibirsi a Londra nelle vesti dell’elemento moderato dell’Asse.
Non secondario era anche il fatto che per l’opinione pubblica italiana la Germania restava pur sempre il nemico della Grande guerra e che restava aperta la questione delle cosiddette terre redente, tra le quali l’Alto Adige (Südtirol) abitato da una popolazione in maggioranza di lingua tedesca. Infine, nel marzo 1938 – ovvero nell’imminenza dell’arrivo di Hitler in Italia – c’era stato il drammatico Anschluss dell’Austria col quale la Germania, di fatto, si ripresentava ai confini della nazione!
Anche la Santa Sede fu coinvolta in questo avvenimento e le decisioni di Pio XI furono clamorose …
Si, infatti. Clamorosa fu la decisione di Pio XI di chiudere tutte le chiese a Hitler. Già nel ’34 Pio XI aveva preso posizione contro il nazismo razzista, materialista e ateo. Anche se, è bene ricordarlo in certi ambienti ecclesiastici si considerava Hitler in modo assai più indulgente, come un capo di Stato capace di frenare l’espansione del bolscevismo e sconfiggere i poteri massonici.
Dal canto loro i nazisti ritenevano che il cristianesimo fosse diventato il maggior impedimento alla instaurazione dell’arianesimo. Certo se in quella occasione Hitler avesse espressamente e pubblicamente chiesto udienza al papa, questi l’avrebbe accolto in Vaticano. Ma così non fu e Pio XI, prima che Hitler giungesse nella capitale, lasciò il Vaticano per ritirarsi a Castelgandolfo e lì, il 4 maggio, parlando a un gruppo di sposi, esortò tutti a pregare, perché, come disse, stavano accadendo cose tristi come quella che vedeva inalberata a Roma l’insegna di una croce che non era quella del Cristo. Nell’occasione Pio XI fece chiudere tutti i luoghi di culto, musei vaticani compresi e fece spengere tutte le luci dei luoghi di rappresentanza della Santa Sede, nessun ecclesiastico avrebbe dovuto prendere parte ai festeggiamenti e così ordinò si facesse nelle altre due città interessate dalla visita del cancelliere e cioè Napoli e Firenze.
Insomma una situazione mai vista e clamorosa!
Quali furono le tappe della visita del Fuhrer?
Hitler partì in treno dallo Anhalter Banhof di Berlino nel pomeriggio del 2 maggio del’38 con al seguito una folta delegazione di quasi cinquecento persone trasportata da tre treni speciali. Della quale facevano parte tra gli altri il ministro degli esteri Von Ribbentrop, il luogotenente del Führer Rudolf Hess, il ministro della propaganda Goebbels, il capo della polizia Himmler, il segretario degli affari correnti e membro del Consiglio Segreto di Gabinetto Hans Lammers, il generale Keitel e il capo ufficio stampa Otto Dietrich. Alla stazione del Brennero fu accolto da un variopinto gruppo di italiani con le bandiere, e da alcuni diplomatici italiani di rango e esponenti politici, tra essi il duca di Pistoia e il ministro e segretario del partito Starace.
Prima tappa della visita fu, ovviamente, Roma, dove, alla stazione Ostiense fu ricevuto dal re, da Mussolini e dal ministro degli Esteri. Ebbe così inizio una vera e propria sarabanda di visite, incontri, saluti e cerimonie che scandirono la settimana hitleriana in Italia. A principiare dal famedio reale del Pantheon, cui seguì la visita all’altare della patria e a palazzo Venezia.
Il 5 maggio Hitler si recò in visita a Napoli, seconda tappa del soggiorno italiano, per assistere a una spettacolare esercitazione navale.
Rientrato a Roma presiedette alla grande parata militare di via dei Trionfi. Hitler fu il primo capo di Stato straniero che vide i “moschettieri del duce” (emuli fascisti dei corazzieri del re), circa 5000 camicie nere e alcuni reparti della polizia coloniale esibirsi nel nuovo passo fascista – il “passo romano” – ispirato al “passo dell’oca” prussiano che i nazisti avevano peraltro anche loro adottato come passo di parata. La manifestazione ebbe luogo in un’area compresa fra il circo Massimo e piazza Venezia ed ebbe per sfondo l’arco di Costantino, il Colosseo e piazza Venezia: tutti luoghi nei quali alle vestigia romane si sommavano più recenti ‘segni’ che indicavano la nuova dimensione politica della nazione, lì c’era il Ministero delle Colonie, proprio di fronte al Palatino col suo obelisco di Axum giunto dall’Etiopia.
La settimana hitleriana in Italia fu costantemente scandita dalle immancabili parate che esprimevano energico entusiasmo e vitalità: quei caratteri dell’italiano nuovo che il regime voleva mettere in mostra.
L’ultima tappa della settimana hitleriana fu, come è noto, Firenze. Il Führer vi giunse nel primo pomeriggio del nove maggio e fu fatto passare sotto un arco trionfale alzato nei pressi della stazione ferroviaria, all’imbocco della via che portava verso il cuore della città antica.
Lungo l’itinerario furono aggiunte varie riproduzioni in gesso per rendere meno disadorni alcuni spazi: nell’esedra di fronte alla palazzina reale della stazione erano stati sistemati calchi dell’ Oceano» e di Sirene del Giambologna oltre che dei leoni della Loggia dei Lanzi, all’inizio di via Panzani era stata collocata una fontana e più avanti la copia della statua equestre del Gattamelata di Donatello, mentre lungo via Tornabuoni una serie di calchi in gesso di arte etrusca. Il corteo transitò per piazza del Duomo, ma la cattedrale di Santa Maria del Fiore e la residenza del cardinale erano sbarrate, come del resto tutte le altre chiese; poi proseguì verso Palazzo Pitti. L’unico luogo religioso toccato dal führer fu La Basilica di Santa Croce, per quanto solamente nella sua parte ‘sotterranea’ dove sorgeva la cappella dei martiri fascisti nella quale potè accedere da un ingresso laterale senza quindi entrare in chiesa. Fece poi una breve sosta a Piazzale Michelangelo e nel giardino di Boboli dove assisté ad alcune esibizioni di giochi toscani: il calcio storico, il pisano gioco del ponte, quello aretino del Saracino e l’immancabile palio senese. Fu quindi condotto in visita agli Uffizi, e quindi in Palazzo Vecchio, dal cui balcone parlò alla folla insieme a Mussolini.
Quali apparati cerimoniali furono preparati per la visita di Hitler?
In ogni città furono approntati imponenti apparati festeggianti. Essi furono il vanto del regime, sebbene poi tutta quanta la messinscena sia stata spesso rubricata come pura esibizione propagandistica, cioè come qualcosa di miserevolmente incantatorio. In verità la visita di Hitler in Italia non fu solo esibizione di bandiere. Fu un evento scenograficamente progettato fin nei minimi particolari, con decine di architetti e artisti messi al lavoro per creare il contesto simbolico più adatto. Unitariamente ispirato – nonostante alcune oscillanti soluzioni formali ed estetiche – ai dettami dell’estetica futurista: con lo spazio adattato alle macchine (treni, automobili, navi), e plasmato dalle luci elettriche, dall’uso monumentale delle scritte cubitali… . Futuriste furono, per esempio, le trovate sceniche al Colosseo, nella cui cavea fu simulato un enorme incendio, grazie ad una una fastosa illuminazione ad “eliofiamma”. Una scelta non sappiamo quanto polemica visto e considerato che l’arte futurista in Germania era stata attaccata nel 1934 – in occasione della mostra berlinese Aeropittura futurista italiana – e definita senza significato e poi nel nel ’37 come “arte degenerata“.
Firenze fu celebrata quale “Atene fascista”, rivaleggiando con Roma come capitale del Regno: quale retorica accompagnò il confronto tra latinità e germanesimo?
Dopo le esibizioni romane e napoletane, a Firenze spettava l’incombenza di fornire una chiave di lettura dei rapporti tra culture dei due paesi soprattutto alla luce della nascente amicizia tra le due nazioni. Due culture, come scrisse Guido Manacorda in tale occasione, parallele e antitetiche; anche se il professore ben si guardò dal toccare la questione della nascita del Comune fiorentino per non evocare la questione della lotta di molte città italiane contro il germanico Barbarossa, capo del Secondo Reich. Per tanti motivi non era facile conciliare la cultura fiorentina con quella tedesca anche perché Firenze era stata una città a lungo dominata da un lato da un antifascismo rigoroso e dall’altro da una “fronda” squadristica violenta (tra le sue file Ardengo Soffici, tanto per nominare solo un intellettuale di grido). E insieme a tutto questo e, verrebbe da dire, nonostante ciò, Firenze in quegli anni stava diventando sul serio l’ “Atene fascista”. Dal ’24 l’Istituto Superiore si era trasformato in Università degli Studi; era stata fondata la prestigiosa Biblioteca Nazionale, c’erano intellettuali di calibro come Giovanni Gentile e Alessandro Pavolini che si era inventato l’uno dopo l’altro l’industria turistica, il Maggio Musicale… . E come non ricordare la nuova stazione di Santa Maria Novella, la Caserma della GIL di Piazza Beccaria, lo stadio di Campo di Marte con il vicino Istituto dell’Africa Italiana, la Manifattura Tabacchi, la Scuola di Guerra Aerea.
Nelle sue escursioni in Italia, Hitler fu accompagnato da una guida ‘turistica’ d’eccezione: Ranuccio Bianchi Bandinelli, il quale dedicò all’evento un memoriale; come visse l’archeologo l’incarico?
Lo visse benissimo. Ranuccio Bianchi Bandinelli era stato chiamato a fare da guida al Fuhrer in quanto personaggio di spicco dell’antichistica e professore all’Università di Pisa. Si trovò perfettamente a suo agio a far da guida all’ospite. Sebbene, anni dopo, allorché pubblicò le sue “memorie”, in un contesto politico diverso abbia cercato di far passare l’idea che avesse partecipato alle giornate hitleriane di controvoglia e costretto.
Avete fatto un’ipotesi fantastorica.
Si, abbiamo fatto un gioco di spregiudicata ucronìa. Che è partito con la domanda: se Benito Mussolini fosse morto di un accidente, poniamo non il 28 aprile 1945 ma il 28 aprile 1935, all’indomani dei patti di Stresa durante i quali aveva dimostrato di aver compreso prima e meglio di altri la natura del pericolo rappresentato dalla Germania nazionalsocialista, che cosa ne sarebbe stato di lui? Cioè: se fosse morto prima di scatenare la guerra d’Etiopia e di lasciarsi avvolgere dall’abbraccio stritolante di Hitler, egli sarebbe di sicuro rimasto gravato dall’ombra di aver organizzato lo squadrismo e di essere l’uomo del delitto Matteotti. Ma sarebbe anche stato il motore del risanamento delle istituzioni statali, della lotta alla piaga dell’emigrazione, della Carta del Lavoro, della fondazione dello stato sociale, dello sbancamento della mafia – ricordiamolo: riportata in Sicilia dai “liberatori” americani, quelli della strage di Gela del ‘43! -. Mussolini sarebbe rimasto in definitiva l’uomo della modernizzazione del paese.
Invece non è morto nel 1935 e tra il ’38 e il ’45 ha causato immani tragedie. E dopo la guerra e molto a lungo chiunque avesse fatto appello ai valori patriottici, alla solidarietà nazionale e al senso dello Stato veniva tacciato di “fascista”. Ciò ha provocato al paese un danno morale immenso.
È per questo che voi partite per tornare a riflettere sulle interpretazioni del fascismo.
Esattamente. È necessario guardare con maggior freddezza alla questione. Ancor oggi, dalle scuole ai mass media, Benito Mussolini è l’organizzatore delle squadre di avventurieri teppisti che avevano scippato il potere, è il tiranno, l’uomo delle leggi razziali e della sudditanza a Hitler, colui che ha cinicamente gettato l’Italia nel carnaio della seconda guerra mondiale. È giusta quest’immagine? Secondo noi è distorta e riduttiva. Per questo siamo tornati sulle “interpretazioni” del fascismo: da quelle di Gramsci., Croce, De Felice, Emilio Gentile a Woolf, Zunino, Tarchi, Sternhell, Ledeen e tantissimi altri – che qui non c’è spazio per richiamare – per cui è spesso arduo orientarsi. E ripercorrendo queste lunghe strade delle letture e interpretazioni del fenomeno abbiamo dovuto constatare che tra le altre questioni, il problema della “scoperta” e della definizione del “vero” fascismo si è andata enormemente e ulteriormente complicando: e, per rimanere in ambito italiano, ci si è andati in realtà sempre più rendendo conto di quanta ragione avesse quell’intellettuale d’eccezionale finezza che fu il Gobetti quando parlava delle “due anime” del fascismo, quella plumbea, bigottamente statalista (fra il neo-piemontese e lo pseudo-prussiano), e quella scapigliata, bécera, anarcosocialoide. Due anime e due dimensioni del fenomeno: da una parte “Stato etico” e dall’altra “Strapaese”.
Insomma abbiamo scritto ancora una volta di fascismo perché siamo convinti che – come diceva Angelo Tasca – l’unico modo di definire il fascismo è scriverne la storia.
Roberto Mancini insegna Storia contemporanea presso la sede di Firenze del Middlebury College. Tra i suoi libri: Infedeli. Esperienze e forme del nemico nell’Europa moderna (Nerbini, 2013) e Il martire necessario. Guerra e sacrificio nell’Italia contemporanea (Pacini, 2015).