“Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica” di Paolo Agnoli

Dott. Paolo Agnoli, Lei è autore del libro Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica edito da Guerini e Associati: quale dilemma etico pose il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki?
Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica, Paolo AgnoliI dilemmi etici relativi a quei drammatici avvenimenti possono essere rappresentati essenzialmente in due problemi distinti, riguardanti rispettivamente lo sviluppo e l’impiego dei due ordigni lanciati sul Giappone.

Il primo, la scelta di costruire la bomba, riguardò in modo specifico tutti gli scienziati coinvolti. Il secondo problema, concernente le differenti possibili modalità di utilizzo delle bombe – la cui straordinaria potenza era certamente ormai chiara a tutti coloro cui spettavano le decisioni più importanti – riguardò ancora gli scienziati ma soprattutto i politici americani e segnatamente il presidente degli Stati Uniti. Ovviamente, almeno in parte, queste due questioni hanno mostrato talvolta interazioni. In particolare, sulla costruzione dell’ordigno: è opportuno e moralmente lecito che scienziati mettano a disposizione le loro competenze al fine di costruire strumenti progettati per uccidere altri esseri umani? 
E sull’impiego: non sarebbe stato più opportuno continuare a bombardare a oltranza in modo convenzionale e quindi invadere il Giappone per porre fine alla guerra in modo tradizionale, esattamente come era avvenuto del resto con la Germania? Non è poi vero che il Giappone era già sostanzialmente sconfitto prima del lancio dell’atomica?

Come si articolò il dibattito che coinvolse scienziati e politici americani in relazione allo sviluppo dell’arma atomica?
La decisione di gettare la bomba non fu presa senza riflessioni o sulla spinta della rabbia. Nel volume provo a mostrare come Truman si consultò in modo continuo e dettagliato con vari consiglieri, inclusi appunto quelli scientifici, e raggiunse le sue conclusioni con piena consapevolezza delle aspettative e delle alternative che aveva. Personalmente credo, dico subito, che una valutazione laica e razionale dei fini, possibili mezzi e costi coinvolti dimostri che la bomba atomica fu un modo terribile di finire la guerra, certo, ma il meno terribile tra tutti quelli possibili. Almeno così apparve in ogni caso a chi doveva decidere allora. Certamente credo che in realtà la sconfitta del Giappone non sia mai stata davvero in discussione, almeno dalla fine del ’44 in poi. Ma essere sconfitti non significa essere sul punto di arrendersi, come per esempio dimostra la decisione dei tedeschi di combattere fino all’ultimo. Ricordo che dei sei milioni di morti tedeschi, quattro avvennero nell’ultima parte del conflitto, in particolare quando la Germania, già sicuramente sconfitta, fu invasa dall’est e dall’ovest. E poi, visto che il Giappone era già inevitabilmente sconfitto, dovremmo considerare immorali anche i bombardamenti ‘tradizionali’ (al fosforo bianco e napalm) avvenuti nel ’45 che causarono quasi un mlione di morti, come pure gli sbarchi a Iwo Jima e Okinawa in cui rimasero uccise più persone che non dopo i bombardamenti atomici. In verità il Giappose si arrese non per quello che le bombe atomiche avevano fatto, ma per quello che avrebbero potuto fare.

La durata della guerra ed il suo costo in perdite di vite umane erano fonte di tanta incertezza e di grande preoccupazione per gli americani. I giapponesi spesso avevano indubbiamente dimostrato di non dar alcun valore alle proprie vite, ed è decisamente probabile che la decisione di Truman abbia risparmiato la vita di milioni di soldati tra giapponesi ed americani, e di ancor più civili giapponesi, evitando l’atrocità di una battaglia all’ultimo sangue sul suolo nipponico. C’è chi afferma che si poteva e doveva aspettare la resa ufficiale senza attuare l’invasione e senza ricorrere allo sgancio della bomba. Ebbene, noto che in 2.600 anni della storia del Giappone mai nessun governo si era arreso ad una potenza straniera: la nazione nipponica non aveva mai perso una guerra. Ricordo poi che le forze armate giapponesi ancora controllavano, tramite bruta e diffusa violenza, gran parte del territorio del nord della Cina, della Manciuria e della Corea. Quanti cinesi e coreani nel frattempo sarebbero morti se gli americani avessero deciso di ‘aspettare’, in un modo o nell’altro, la eventuale e davvero improbabile decisione di resa del Giappone? Non escludo che tra coloro che, non per ignoranza, tendono a trascurare questo tipo di domande vi siano anche persone influenzate da convinzioni razziste. Un morto cinese, dopo tutto, per costoro conta meno di uno americano o uno giapponese.

Per quanto riguarda gli scienziati ho provato a sottolineare nel libro che per Fermi ed i suoi colleghi (quasi tutti emigrati dall’Europa, molti di loro senza neppure la cittadinanza americana!) il nazismo semplicemente rappresentava la personificazione del male nel mondo, e in una forma così potente ed evidente che non si sarebbe potuto fare altro che combatterlo. Si trattava di una minaccia ai valori umani talmente radicale che la sua imminenza rappresentava quella che il filosofo Michael Walzer chiama giustamente una “emergenza suprema”. Perfino il pacifista convinto Einstein scrisse una lettera, 2 agosto 1939, all’allora presidente Roosevelt per invitare l’Amministrazione americana, allora davvero restia, a sviluppare un progetto per la bomba atomica. In realtà Roosevelt finanziò seriamente il progetto solo nel 1943, dopo che tedeschi, russi, inglesi e perfino giapponesi (come provo a mostrare in dettaglio nel libro) avevano iniziato il loro. L’America non iniziò la corsa all’atomica: la vinse, pur partendo ultima.

Come maturò la scelta di usare l’arma atomica?
La preoccupazione principale degli americani fu subito quella di indagare bene come la nuova arma dovesse essere usata. Essi volevano prima di tutto scegliere la soluzione che avrebbe messo fine alla guerra il più rapidamente possibile, soprattutto per scongiurare un’inutile massacro dei loro soldati. I membri del comitato congiunto che doveva pronunciarsi in merito esaminarono diverse opzioni tra le quali anche una dimostrazione tecnica del potere distruttivo della bomba che fosse effettuata in un’area isolata o anche nella Baia di Tokyo. Questa opzione però apparve subito difficile da sostenere per una serie di motivi tecnici. Per esempio il fisico di origini austriache Isidor Isaac Rabi della Columbia University (il fisico che scoprì la risonanza magnetica nucleare, tappa decisiva della medicina moderna), un’assistente di Oppenheimer a Los Alamos, argomentò che i giapponesi non avevano esperti per poter misurare e descrivere bene quello che avrebbero visto:

C’era bisogno di qualcuno che ne comprendesse la teoria per poter cogliere il significato di quello che stava vedendo. Dovremmo costruire una città modello per poter fare una dimostrazione realistica.

Inoltre, al di là del costo, notevolissimo, della bomba e della missione dimostrativa, non vi erano abbastanza certezze che un tale ‘test’ non si fosse rivelato infine solo un’informazione per i giapponesi del probabile pericolo, aiutandoli a organizzarsi poi al meglio per intercettare una eventuale missione reale di attacco atomico. Si ritenne anche che un fallimento tecnico di tale dimostrazione avrebbe reso ancora più complicata la situazione. Inoltre, se un luogo isolato giapponese fosse stato annunciato (e non poteva non essere così!), l’aereo che portava la bomba avrebbe potuto essere abbattuto. Ovviamente fare il test in una zona neutrale non sarebbe stato in ogni caso convincente, in quanto i giapponesi avrebbero potuto pensare a trucchi e messe in scena. Si pensò, in ogni caso, che troppe cose potevano andare nel modo sbagliato. Il comitato ritenne poi che fornire ai giapponesi un preavviso sui siti che sarebbero stati colpiti avrebbe sottoposto i prigionieri di guerra americani a ulteriori pericoli, perché sarebbero con tutta probabilità stati trasferiti nell’area dell’attacco.

In ogni caso sappiamo ora che i giapponesi non si arresero neppure dopo Hiroshima, e metà del gruppo dirigente non voleva arrendersi neppure dopo Nagasaki. È realistico pensare che si sarebbero arresi dopo un qualsiasi tipo di dimostrazione?

Quali riflessioni è possibile fare sulle scelte del presidente Truman e degli scienziati?
Inizierei da una premessa. Per quanto mi riguarda il concetto di etica che personalmente ritengo più convincente non lega il valore morale a determinate caratteristiche delle azioni, né a un tratto più o meno indelebile presente nelle coscienze di coloro che decidono e valutano; ma piuttosto alle ragioni che le persone responsabilmente coinvolte sentono di poter approvare. Un’etica basata sugli argomenti e non quindi su ‘pronunciamenti morali’. Questo approccio è diverso da quello che si rifà a un concetto specifico di etica il quale lega il grado di moralità a una proprietà intrinseca degli atti stessi, valutata alla luce di un metro oggettivo, ma lascia spazio a un’etica che collega il grado di moralità ai motivi che i soggetti interessati in quel momento e in quel contesto – storico innanzi tutto, ma anche politico, geografico, sociale, informativo e culturale – possono o meno approvare e coscienziosamente provare a giustificare. Vi è, nell’adottare questo concetto di etica, la motivata e forte convinzione che le questioni morali si pongono sempre realmente solo per i singoli e concreti esseri umani, i quali sono direttamente coinvolti in situazioni del tutto particolari. Esistono solo e sempre casi specifici nei quali gli individui reali si trovano a dover decidere personalmente su ciò che è bene o giusto fare in base alle informazioni in loro possesso in quel momento e alla situazione specifica nella quale si trovano a decidere.

C’è così una regola principale: giudicare mettendosi al posto degli altri. Nel caso specifico dei bombardamenti atomici sul Giappone, visto il contesto orribile ed eccezionale di quel momento (vi erano stati quasi 70 milioni di morti, e atrocità inenarrabili) credo che l’uso degli ordigni nucleari per mettere fine a quel disastro, pur rappresentando un fatto terribile, fu moralmente lecito.

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