“Hierà kai hosia. Antropologia storica e letteratura greca. Studi per Riccardo Di Donato” a cura di Andrea Taddei

Prof. Andrea Taddei, Lei ha curato l’edizione del libro Hierà kai hosia. Antropologia storica e letteratura greca. Studi per Riccardo Di Donato pubblicato da Edizioni ETS. Innanzitutto, come si è sviluppato il percorso di fondazione dello studio antropologico del mondo antico?
Hierà kai hosia. Antropologia storica e letteratura greca. Studi per Riccardo Di Donato, Andrea TaddeiL’antropologia storica del mondo antico affonda le proprie radici nel dialogo che si sviluppò tra Sociologia e Storia nei decenni a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. È da quel dialogo, e dal successivo intreccio con l’etnologia di Marcel Mauss e soprattutto con la psicologia storica di Ignace Meyerson (1888-1983), che prese forma la riflessione di Louis Gernet (1882-1962), sociologo ed ellenista, fondatore dell’Antropologia storica della Grecia antica. Si tratta di percorso molto articolato e di un fitto reticolo di intrecci, ricostruito proprio da R. Di Donato a partire dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso in molti saggi – ricordo tra tutti Per una antropologia storica del mondo antico (Firenze 1990) e Per una storia culturale dell’Antico (2 volumi, Pisa 2013) – un cammino che conduce alla fondazione di una nuova disciplina, portata ad una prima realizzazione da Jean-Pierre Vernant (1914-2007) con il volume Les origines de la pensée grecque, stampato a Parigi nel 1962. Il volume fu tradotto in italiano nel 1976 ed è stato un vero e proprio successo editoriale, tradotto in molte lingue e continuamente ristampato. D’altra parte, nel 1968 J-P. Vernant, che fu allievo tanto di Meyerson quanto di Gernet, portò a compimento un progetto concepito dal secondo studioso evocato prima della morte e pubblicò la Anthropologie de la Grèce antique.

Come accennavo, il percorso è lungo e assai articolato. Mi limito a rinviare ai volumi di Di Donato sopra citati, per una ricostruzione dei tracciati storico-culturali che hanno condotto a una antropologia storica del mondo antico: si tratta di un lungo lavoro svolto tra la polvere degli archivi e le biblioteche, stabilendo relazioni tra testi editi e manoscritti inediti di Gernet e Vernant (ora custoditi presso il Laboratorio di Antropologia del mondo antico, e liberamente accessibili on line). Un punto di svolta per l’ingresso di questa corrente di studi nella cultura antichistica italiana è stato un convegno organizzato da Bruno Gentili a Urbino nel 1973, al quale parteciparono anche alcuni studiosi del gruppo che ruotava intorno al Centre de recherches comparnées sur le sociétés anciennes di Parigi e che a lungo – e con semplificazione non piccola – è stato chiamato la “Scuola di Parigi”. È una definizione che non tiene conto delle differenze tra gli studiosi che partecipavano alle attività del gruppo che, dopo la morte dell’autore della Anthropologie de la Grèce antique, prese il nome di Centre Louis Gernet e ora, dopo un’ulteriore riorganizzazione si chiama Centre ANHIMA (Anthropologie et Histoire des Mondes Antiques).

Un dato troppo spesso trascurato, e messo in luce proprio da R. Di Donato è l’importanza del ruolo giocato da Ignace Meyerson, fondatore di una psicologia che volle definire storica, lontana da ogni fissismo e da ogni tentazione assolutizzante, da ogni interpretazione che prescinda dal tempo e dallo spazio. È dal dialogo continuo e serrato tra la sociologia di Gernet (che fu anche editore di Antifonte, Lisia, Demostene per Les Belles Lettres) e la psicologia storica meyersoniana che poté maturare l’esperienza intellettuale di Jean-Pierre Vernant, il quale indicò con le parole “studi di psicologia storica” il sottotitolo di un altro suo libro assai noto (Mythe et pensée chez les Grecs, apparso a Parigi nel 1965 e tradotto in italiano nel 1970).

Quali relazioni è possibile stabilire fra Antropologia storica e Letteratura greca?
Si tratta di relazioni scientifiche prima ancora che disciplinari e didattiche, oltre che istituzionali. Quando fu avviata, in Italia, l’esperienza del Liceo classico (con la legge Casati, approvata nel 1859 ed entrata in vigore nel 1860) furono le scienze dell’antichità in lingua tedesca (l’Altertumswissenschaft che aveva nel Gymnasion prussiano il modello del futuro liceo classico italiano) ad essere prese a modello, e lo studio della letteratura greca e romana affondò saldamente le sue radici nella linguistica storica e nella filologia, vale a dire nella ricostruzione delle vicende che hanno prodotto i testi che noi, oggi come nel passato, leggiamo, discutiamo e analizziamo anche con grande finezza di risultati. Si tratta di un contributo fondamentale, a dire poco cruciale, che ci permette di avere più chiaro – sempre in corso di definizione, mai dato una volta per tutte – il testo di un autore del quale ricostruiamo il pensiero, lo stile, il mondo poetico. Gli studi filologici e letterari sono e restano essenziali per la comprensione, l’approfondimento, lo stabilimento di relazioni tra i testi che l’antichità ci ha consegnato, attraverso numerosi passaggi fino alle edizioni critiche dei moderni (esse stesse calate nel loro tempo).

L’individuazione univoca di questo referente ha però lasciato da parte tutta una linea di studi che tentava di stabilire relazioni tra i testi e i contesti di cui questi sono espressione, e che cercava nelle espressioni dell’immaginario collettivo (quello che con parola greca il cui significato primo è “parola”, “racconto”, si chiama mythos, mito) possibili vie per entrare in un modo diverso, complementare e non alternativo a quello dell’analisi filologica, formale o storico-linguistica, nel patrimonio letterario dei Greci. L’antropologia è una disciplina che può essere declinata – ed è stata effettivamente declinata – in molti modi che situerei lungo un arco che ha ai suoi estremi l’antropologia strutturale e quella storica.

Quando è storica, l’antropologia può essere applicata allo studio della letteratura greca tentando di stabilire continuamente multiple e reciproche connessioni tra i modi nei quali un testo è stato formulato e consegnato alla tradizione (l’Odissea, i Persiani di Eschilo, le Storie di Erodoto), le configurazioni articolate del modo di pensare di un gruppo sociale radicato nel tempo e nello spazio (e quindi non genericamente “I Greci”, ma quei Greci, di quella città e in quel periodo), e l’articolazione e organizzazione di quel gruppo sociale (il modo come è gestito il potere, il diritto, la vita religiosa, l’economia). Si tratta di una triade (le forme dell’espressione, le forme di pensiero, le forme di società) che affonda le sue radici nella nozione maussiana di fatto sociale totale, applicabile anche alle opere letterarie dei Greci: la tragedia è, per esempio, un fatto sociale totale, nel senso che – secondo un’ottica storico-antropologica – essa non deve né può essere studiata in modo indipendente dalla dimensione religiosa, giuridica, economica, politica della comunità di cui essa è espressione. Lo stesso vale per i discorsi degli oratori attici, che meglio si comprendono grazie alla pubblicazione di importanti inediti gernetiani che ho pubblicato (per esempio: L. Gernet, Diritto e civiltà in Grecia antica, Firenze 2000) dopo essermene occupato anche a partire dalla mia tesi di laurea. La lettura storico-antropologica di un testo letterario greco (ma lo stesso varrebbe per qualsiasi altro testo letterario, anche a noi contemporaneo) non mira alla ricostruzione del mondo poetico di un autore, oppure alla individuazione dei rapporti tra quel testo, altri testi o il cosiddetto genere letterario al quale la critica lo associa, ma si interroga piuttosto sulle relazioni tra un testo e le occasioni rituali per le quali è stato concepito, sul rapporto tra formazioni sociali e sistema di valori di cui il testo è espressione, sul variare di specifiche funzioni psicologiche (il tempo, lo spazio, il valore, la giustizia) così come riflesse da diversi testi in epoche diverse.

Sono queste le domande che ci si è sempre posti nel lungo percorso, scientifico e didattico, iniziato all’inizio degli anni ’80 con l’insegnamento all’Università di Pisa di Storia della lingua greca (con il seminario settimanale di lettura collettiva di tragedie greche), poi di Antropologia del mondo antico e, dal 2000, di Lingua e Letteratura greca per il triennio in Lettere antiche e del Seminario di letteratura greca per la laurea magistrale in Filologia e Storia dell’Antichità. Tra le esperienze didattiche di questi corsi e di questi seminari esiste uno sviluppo ma anche un solido tratto di continuità, relativo proprio al modo di leggere un testo letterario greco. Se è consentito dare voce a un ricordo personale, quando nel Novembre 1992 arrivai all’Università di Pisa – matricola e pieno di entusiasmo – avevo un’immagine molto idealizzata del mondo letterario greco e romano, quasi si trattasse di un mondo unico che parlava due lingue diverse, ma in fondo esprimeva gli stessi valori, che mi compiacevo nel definire «eterni e immutabili». Ricordo ancora la prima lezione di Storia della lingua greca con R. Di Donato, il primo giorno del mio primo anno di Università, e ricordo ancora come quel mondo da me ingenuamente idealizzato e destoricizzato si sgretolava davanti ai miei occhi in un corso dedicato al decimo dell’Iliade, il canto in cui il guerriero troiano Dolone si traveste con una pelle di lupo e un copricapo di martora per entrare di nascosto nell’accampamento degli Achei, dove viene scoperto da Odisseo e Diomede. In quel corso si parlava di travestimenti rituali, di riti di passaggio, di statuto antropologico dei guerrieri omerici, e di quanto l’epos potesse veicolare – anche all’interno della medesima formula – elementi di civiltà appartenenti ad epoche diverse, anche molto lontane tra loro. Veniva infatti elaborandosi una nozione, quella di diacronia di civiltà, fondamentale quando si considera il “modo” storico-antropologico di leggere la letteratura greca. Lo sgretolarsi di quel mondo, da me idealizzato, si accompagnava ad una contemporanea ricostruzione di frammenti, tutt’altro che omogenei ma tra loro complementari, utili alla fabbricazione ideale di un prisma dai riflessi variegati, non necessariamente armonizzati tra loro, ma preziosa e inesauribile fonte di stimolo per gli allievi di quello e dei successivi corsi. Ciascuno di quei riflessi ha infatti prodotto approfondimenti e indagini da parte di tutti noi, anche fuori dalla linea di studi omeristica che appartiene, sin dalla fine degli anni ’60, allo studioso cui Hierà kai Hosia è dedicato. Lo studio dei Greci «senza miracolo» (per riprendere il titolo – Les grecs sans miracle – della raccolta di inediti di Louis Gernet stampata, per cura di Di Donato, nel 1983 a Parigi e poi tradotta in italiano nel 1986) ha segnato, per molti di noi che seguivamo quei corsi, un punto di svolta nel modo di avvicinarsi alla Grecia e ai Greci, che abbiamo iniziato a studiare cercando di rimuovere quella patina di classicismo (la fondazione della democrazia, la nascita del pensiero occidentale, l’armonia del pensiero) con i quali la cosiddetta tradizione occidentale ce li ha consegnati, per così dire già impacchettati. E così, nessuno di noi studenti ha avvertito discontinuità o rottura quando nel 1993/1994, l’anno accademico successivo a quel corso sulla Dolonia, fu avviato il primo corso di Antropologia del Mondo Antico, dedicato ad una lettura dei Persiani di Eschilo nella quale il dramma veniva collocato all’interno della festa primaverile in onore di Dioniso Eleutereo e misurato alla luce della costruzione di un’alterità, quella persiana appunto, che contribuiva anche alla costruzione dell’identità ateniese. Né si è avvertita discontinuità quando questo tipo di contenuti è stato poi affrontato leggendo l’epica, il teatro, gli storici, la prosa filosofica nel corso di Lingua e letteratura greca rivolto agli studenti del primo anno e nel Seminario di letteratura greca dedicato agli studenti della laurea magistrale, nel quale si è molto discusso di religione greca (il papiro di Derveni, per esempio; i santuari in Pausania), ma anche di temi legati alle più attuali discussioni critiche intorno a temi di discussione relativi alla Grecia antica (il dibattito sul papiro di Artemidoro, per fare solo un esempio), con questo ribadendo l’importanza di considerare sempre il nesso, formulato da Arnaldo Momigliano (insieme ad Aurelio Peretti uno dei due maestri di R. Di Donato alla Scuola Normale di Pisa), esistente tra storia e storia della storiografia.

Quale modo innovativo e originale di leggere i testi del patrimonio letterario greco ha inaugurato il prof. Riccardo Di Donato, cui il libro è dedicato?
L’originalità consiste nel metodo e negli strumenti con cui la lettura e l’analisi dei testi è condotta. Del metodo storico-antropologico ho già detto qualcosa rispondendo alla domanda precedente, quando accennavo al lavoro sugli archivi e allo studio dell’epica greca arcaica. Partirò dal secondo dei punti appena evocati, per poi tornare sugli archivi più avanti.

Nel XVIII canto dell’Iliade, Efesto asseconda la richiesta di Teti, la madre di Achille, e prepara per l’eroe acheo un nuovo scudo e delle nuove armi, dopo che l’armatura del figlio di Peleo è stata indossata da Patroclo per combattere lasciando credere ai Troiani che era «il più forte degli Achei» ad essere tornato in guerra. La fabbricazione dello scudo è oggetto di una lunga digressione, centoquaranta versi dedicati alla descrizione delle decorazioni istoriate sull’oggetto che – insieme alle armi – permetterà al Pelide di ricostruire e recuperare la sua identità eroica e guerriera. C’è una sorta di enciclopedia astronomica in miniatura, c’è la rappresentazione di una città in pace e di una città in guerra, ci sono scene di vita rurale (l’aratura, la mietitura, le vendemmia con le descrizioni delle azioni degli uomini e degli animali), e ci sono segmenti interne a queste singole sequenze: c’è un processo la cui ricostruzione affanna gli interpreti da sempre, c’è una danza con ragazzi, ragazze e un pubblico che assiste. I versi dello Scudo sono oggetto di dibattito sin dall’antichità, quando Zenodoto riteneva di dovere espungere l’intera sequenza, e manifestano quelle che agli occhi dei moderni appaiono incoerenze tematiche e cronologiche note da tempo. È su questo punto che si innesta la riflessione dell’autore dei Problemi di tecnica formulare e poesia orale nell’epica greca arcaica del 1969, di Esperienza di Omero del 1999, di Aristeuein del 2006 e di molti altri saggi tra i quali un articolo del 2009 dal titolo significativo (Diacronia di civiltà: lo scudo rivisitato), dal quale partirò con il mio ragionamento. Rivisitare lo Scudo di Achille tredici anni dopo un contributo apparso ne “I Greci Einaudi” (vol. II, pp. 227-253) consente all’autore di richiamare uno strumento cruciale da lui introdotto per leggere e capire l’epica arcaica, vale a dire la nozione di “diacronia di civiltà”. Nella formulazione proposta da R. Di Donato, non si tratta più di immaginare, per l’epos, un contesto organico ed univoco nel quale limitarsi a individuare e descrivere gli elementi fuori serie come sopravvivenze fossilizzate, ma piuttosto di considerare quanto sia proprio la forma epica a veicolare forme di civiltà assestate diacronicamente, per le quali cercare una coerenza è sforzo vano, prima ancora che difficile: «una lettura storico-antropologica può costituire, per saggi significativi, la soluzione del problema del rapporto tra poemi epici e la diacronia di civiltà che questi hanno attraversato», come si legge all’inizio del secondo capitolo di Esperienza di Omero.

Accanto alla diacronia di civiltà, e a questa correlata, va ricordata un’altra nozione che ha rapporto con gli archivi, cui prima accennavo, e in particolare al lavoro – iniziato ormai quarant’anni fa – condotto sugli archivi delle carte inedite di Louis Gernet, ora custodite presso il Laboratorio di Antropologia del Mondo Antico, affidate a R. Di Donato da Jacques Gernet, il figlio sinologo del grecista, e da Jean-Pierre Vernant, il quale volle affidare, allo stesso Di Donato, anche le proprie carte inedite, prima di morire nel 2007.

È lavorando, tra le molte altre cose, anche su una serie di fascicoli inediti dedicati alla leggenda greca e alle possibilità di usare il mito come documento utile a ricostruire la protostoria sociale dei Greci che è stato recuperato e ricostruito il filo di una riflessione molto importante per lo studio del mito. Si tratta, anche in questo caso, di un percorso lungo, che incrocia i lavori sulla leggenda di Arnold Van Gennep e il dialogo con la psicologia storica meyersoniana, ricostruito prima in Per una antropologia storica del mondo antico, e poi giunto a ulteriore compimento con la pubblicazione degli inediti gernetiani sulla leggenda greca nel libro che inaugura la collana Anthropoi, la medesima nella quale è ora uscito Hierà kai Hosia.

Primo volume di Anthropoi è infatti Polyvalence des Images di Louis Gernet, nel quale è possibile osservare la teorizzazione di questo strumento epistemologico e la sua applicazione alla realtà viva dei miti Greci: una “immagine leggendaria”, vale a dire una specifica sequenza di azioni narrate in un mito, assume significato e forza documentaria non in quanto unità invariabile e sempre uguale a se stessa (come accade con i mitemi di Lévi-Strauss, analoghi ai fonemi della linguistica), ma al contrario come elemento che cambia nel tempo e acquisisce diversi significati a seconda delle associazioni e delle connessioni nelle quali essa è coinvolta. Una immagine del mito che torna in più miti (il tuffo dell’eroe in mare, il furto e la trasmissione di un bene prezioso) è un elemento simbolico sempre degno di approfondimento da parte dell’interprete, ma quell’immagine sarà tanto più interessante perché essa acquisisce significato non solo per il confronto tra diversi racconti (il meccanismo di associazione), ma anche sulla base di ciò che accade prima e dopo quell’evento, nel tessuto del narrato mitico (quello che diciamo il piano della connessione).

Le leggende greche diventano così, agli occhi dell’interprete, un linguaggio in grado di permettere la ricostruzione di istituti sociali di cui si è persa memoria scritta nella documentazione successiva: forme di matrilinearità, antecedenti della procedura giudiziaria, forme arcaiche della regalità, antecedenti della nozione di valore, forme di articolazione sociale che precedono e accompagnano l’elaborazione della famiglia cosiddetta ristretta, e così via. La nozione di polivalenza delle immagini ha permesso così di affrontare in modo diverso lo studio delle rappresentazioni del tempo in Omero, delle forme della sovranità in Erodoto, di immagini della esperienza religiosa nel mito, e i risultati di queste ricerche – portate avanti anche da allieve e allievi di R. Di Donato – sono ora pubblicati in Anthropoi e in altre sedi editoriali.

Come si intrecciano forme dell’espressione, forme di pensiero e forme della realtà nella Grecia di età arcaica e classica?
La relazione tra i modi in cui un testo è formulato (le forme dell’espressione), le nozioni psicologiche proprie di un gruppo sociale (le forme di pensiero) e i modi in cui quella società è articolata (le forme della realtà) è una sorta di triade epistemologica che ben riassume la molteplicità degli elementi e degli strumenti caratterizzanti una lettura storico-antropologica della letteratura greca. Formes de pensée et formes de société è sottotitolo di un libro importante e molto discusso di P. Vidal-Naquet (un altro autore la cui opera è stata studiata da Di Donato, che ne ha tradotto con prefazione Il mondo di Omero nel 2001, Lo specchio infranto nel 2002 e Atlantide nel 2006), e costituisce l’identificazione necessaria di un nesso biunivoco tra i modi in cui una società si organizza e le strutture mentali che la governano.

La ricezione della variabilità e incompiutezza delle funzioni psicologiche messa in luce da Meyerson costituisce un passaggio essenziale per la formulazione della nozione di “forma dell’espressione”: per capire gli uomini bisogna studiare ciò che gli uomini hanno fatto, e in particolare ciò che hanno fatto di meglio e con lo scopo di attribuire durata nel tempo alle loro opere. Lo studio delle funzioni psicologiche non si fa in astratto, ma nelle opere degli uomini nelle quali quelle nozioni si sono oggettivate: funzione è da intendersi infatti in senso matematico, di rapporto cioè tra una nozione specifica (il valore, il tempo, lo spazio, il sacro, il giusto…) e la sua obiettivazione in un’opera. Questo appare legittimo per i testi letterari, ed è valido anche per un’iconografia che si fa iconologia: ed è in queste direzioni che si muovono i saggi degli studiosi che sono intervenuti al convegno pisano del Febbraio 2018 ed hanno contribuito, con i loro saggi, a Hierà kai hosia, occupandosi tanto di questioni storico-culturali, quanto di analisi di problemi specifici in diversi ambiti del patrimonio letterario greco (dall’epica al teatro, dalla storiografia alla religione greca), quanto – appunto – di immagini in senso stretto, di archeologia, di storia dell’archeologia e di storia della cultura, intrecciando storia e storia della storiografia, e incrociando in questo modo uno studio storico-antropologico della civiltà greca e una storia culturale dell’antico. Nella introduzione al volume, è citato un passaggio dell’intervento di Jean-Pierre Vernant ad un convegno pisano del 2004 in cui si parlava di Polivalenza delle immagini: è un passaggio che vorrei citare in parte anche qui, per concludere.

In quella occasione, lo studioso francese si presentava – con un’autoironia e una modestia che insegnano molto – come un albero vecchio e ormai secco che, con stupore e piacere, constata che a Pisa (è una constatazione che ho fatto da molti anni), grazie a Riccardo e a tutto il suo gruppo, il vecchio albero vede germogliare, sulla stessa radice che gli ha dato per mezzo secolo la forza di lavorare sulla Grecia antica, su questa stessa radice vede germogliare un albero giovane, nuovo e verdeggiante….

Vernant si riferiva al Laboratorio di Antropologia del Mondo Antico e, più in particolare, a chi lo aveva fondato e ancora lo dirige. È una frase che riempie d’orgoglio tutti noi che, di quel laboratorio, facciamo parte.

Andrea Taddei è Professore Associato di Lingua e Letteratura Greca presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa

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