
di Marino Freschi
il Mulino
«Strano destino quello occorso a Hermann Hesse. Pochi autori hanno conosciuto come lui momenti di così intensa fortuna, preceduti e seguiti da periodi di oblio e perfino di disprezzo. Al successo che a ondate ricorrenti ha arriso all’opera dell’autore tedesco più letto nel mondo, ha fatto riscontro una certa freddezza da parte della critica, in particolare della germanistica, poco propensa ad apprezzare lo scrittore svevo con le sue visioni salvifiche, con quel suo atteggiamento da predicatore, che ne rivelava il retaggio luterano e pietista. Questo legame con la cultura familiare percorre come un filo rosso la sua storia e la sua opera, è un legame che Hesse ha reiteratamente tentato di strappare anche con forza, con violenza, ma che nonostante tutto ha resistito attraverso innumerevoli metamorfosi e trasformazioni, in un costante processo di smarrimento e d’integrazione, di rifiuto e allo stesso tempo di assunzione attraverso radicali mutamenti. Ciò che accompagna la sua scrittura, nei saggi, nei racconti, nelle lettere, e in modo più sfumato nella lirica, è quel tono predicatorio di chi, se non ha raggiunto la verità, si aggira nelle sue vicinanze, e, per così dire, ha attinto la massima prossimità consentita all’essere umano nella modernità. La continuità con la tradizione familiare, severamente pietistica, è in realtà problematica. Si può parlare di prosecuzione solo in senso ampio, poiché per Hesse, nell’adolescenza e nella prima giovinezza, si trattò di un’autentica guerra, di una violenta contrapposizione che lo ha segnato per sempre e che ha rappresentato la sua prima ispirazione – prima in senso temporale e per importanza – con una scia che si è protratta nei decenni, come testimonia il suo capolavoro senile Il gioco delle perle di vetro.
Nella modernità la biografia dello scrittore s’intreccia strettamente con la sua opera, che – si pensi, per l’ambito tedesco, a Thomas Mann e Franz Kafka – ne risulta profondamente pervasa e configurata. E questa valutazione è vera anche per Hesse. Simile a quella di Thomas Mann, è la complicata e complessa composizione familiare. Lo scrittore nasce il 2 luglio 1877 a Calw, allora piccolo paesino della Svevia, che faceva parte del regno del Württemberg, nella Germania meridionale. Il padre, Johannes Hesse, era un tedesco baltico, ossia appartenente a quella comunità di tedeschi che nei secoli si erano trasferiti nell’impero zarista e massimamente negli attuali paesi baltici. […]
Questa compresenza di piccola patria localistica e di mondo, di provincialismo e cosmopolitismo costituisce l’orizzonte spirituale degli anni di formazione di Hesse. Fin da bambino si trova inserito in un contesto culturale, certo distante dalle correnti intellettuali egemoniche dell’epoca, ma pur sempre radicato nella società tedesca del tempo […]. Una famiglia di scrittori, di editori, di studiosi e ricercatori. Si è sempre posta a ragione l’attenzione sul violento conflitto con i genitori. Eppure accanto a questo contrasto drammatico, vi è stata sempre una linea di continuità, configurata anche da quel profondo rapporto con i libri, quelli del nonno orientalista, quelli del padre predicatore e missionario, quelli della madre pietista e anche lei autrice di edificanti biografie, come pure di un dettagliato diario sulla scia dei giornali intimi pietisti. In casa vi era una radicata dimestichezza con il libro come oggetto, indispensabile, amato, ricercato, insostituibile strumento di crescita, come l’autore, ancora nel 1955, ormai anziano, ricordò in un discorso di ringraziamento per aver ricevuto il premio per la pace dell’associazione dei librai tedeschi, che lo riportava a quel mondo di libri. E leggendo questo ricordo quasi nostalgico dell’attività di commesso di libreria, si potrebbe essere portati a credere a un’evoluzione abbastanza tranquilla. Furono invece anni duri, di disciplina forzata, di lavoro senza orario che raggiungeva di norma le dodici ore al giorno, prima in una libreria universitaria di Tubinga, poi, in condizioni lievemente migliori, a Basilea.»