
Quali conseguenze produce la mancanza di attenzione e vigilanza sulle parole?
L’attenzione al linguaggio che usiamo sembra a molti una questione di dettaglio, un capriccio degli amanti del politicamente corretto, quasi un lusso di fronte a problemi economici, discriminazioni sul posto di lavoro, crimini d’odio. Ma quello che diciamo, se non viene messo in discussione, ha il potere di spostare un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, scontato, legittimo. Certe espressioni e certe frasi cambiano (e abbassano) gli standard del discorso civile e di quello politico: le frasi violente o razziste – se appunto non vengono pubblicamente criticate – vengono implicitamente legittimate, e questo rende più accettabili ulteriori asserzioni razziste, sessiste, omofobiche. In questo modo cambiamo i limiti di ciò che può essere detto, e questo lentamente cambia i limiti di ciò che può essere fatto: ci abituiamo alla mancanza di attenzione sulle parole, che rende più accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni. Il silenzio, l’indifferenza o la superficialità con cui spesso accogliamo gli usi offensivi di altri corre il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione e legittimazione – e muta noi in complici e conniventi.
A cosa ci si riferisce con l’espressione hate speech e quale portata ha assunto nella nostra società tale fenomeno?
Con il termine hate speech si indicano generalmente quelle forme espressive (parole e frasi, ma anche immagini, simboli, gesti, caricature, condotte) ostili e offensive, volte a causare danno a individui e gruppi storicamente oppressi e marginalizzati, identificati da caratteristiche sociali (reali o anche solo percepite) come razza, etnia, nazionalità, religione, genere, orientamento sessuale, disabilità. L’etichetta raccoglie usi discorsivi estremamente vari, con caratteri fra loro molto diversi: dalla propaganda nazista alle leggi sull’apartheid, dal discorso ideologico di certe formazioni politiche fino agli esempi quotidiani di linguaggio d’odio divenuti così tristemente frequenti – e tipici di scritte su muri, striscioni, cori da stadio, conversazioni, reali o virtuali.
In che modo i nuovi media hanno amplificato il linguaggio d’odio?
Il tema del linguaggio discriminatorio è diventato ancor più pressante con il diffondersi dei nuovi media: le parole d’odio hanno trovato un ambiente ideale per esprimersi nella rete, dove spesso mancano mediazioni, filtri, censure o autocensure. Il fenomeno delle parole d’odio online tocca in modo particolare le donne, da sempre fatte bersaglio di epiteti violenti, che spesso rimandano alla prostituzione e segnalano il peso del controllo sociale sulla sessualità delle donne – nonché la sostanziale riduzione delle donne alla loro sessualità. Tali termini denigratori vengono però usati non solo per aggredire le donne dalla condotta sessuale considerata troppo disinibita, ma più in generale per stigmatizzare atteggiamenti e condotte non conformi alle norme di genere, prima fra tutte la partecipazione alla sfera pubblica. Per fare solo qualche esempio, la ex presidente della Camera Laura Boldrini, la scrittrice Michela Murgia, l’attivista Caroline Criado Perez (nota per la campagna volta a incrementare il numero di donne presenti sulle banconote britanniche, che ha condotto alla sostituzione di Darwin con Jane Austen sulle banconote da dieci sterline), la classicista Mary Beard (“rea” di aver espresso opinioni favorevoli ai migranti in una trasmissione sulla BBC) sono state tutte vittime di minacce di morte e di stupro – volte non tanto a condannare le loro opinioni quanto a delegittimare la loro presenza attiva nello spazio pubblico.
Come si esprime l’ingiustizia discorsiva?
L’ingiustizia discorsiva è un particolare fenomeno comunicativo, quello secondo cui individui che appartengono a gruppi sociali oppressi vedono la possibilità di far presa sulla realtà con le loro parole non solo indebolita, ma a volte del tutto annullata. Questo può avvenire, ad esempio, quando le donne affermano che certi commenti o condotte sono sessisti, o quando appartenenti a minoranze etniche asseriscono che certe dichiarazioni o azioni sono razziste. Quelle che i parlanti appartenenti a minoranze discriminate proferiscono come affermazioni sul mondo, con un contenuto cognitivo aperto al dibattito razionale, e che dovrebbero essere valutate come giustificate o meno, vengono a volte accolte e interpretate come mere reazioni soggettive, semplici manifestazioni di disagio, espressioni di stati personali che non possono aspirare a registrare fatti della realtà né a essere dibattute sul piano delle ragioni.
In altre circostanze le parole di chi appartiene a un gruppo discriminato, invece di essere distorte o indebolite, vengono del tutto annullate, e il parlante si ritrova a non riuscire a fare nulla con le proprie parole: parliamo in questo caso di riduzione al silenzio. Questo può valere ad esempio per i tentativi delle donne di denunciare gli abusi e le violenze subiti: pregiudizi e stereotipi diffusi nella nostra società tendono ad addossare la responsabilità delle violenze alle donne che le subiscono, rendendole riluttanti a sporgere denuncia, e minando la credibilità di chi ha il coraggio di farlo.
In che modo il linguaggio d’odio si manifesta anche nelle relazioni amorose?
La persistenza di stereotipi negativi e pregiudizi dannosi sulla “natura” e i comportamenti di donne e uomini può condurre a distorsioni e danni nelle situazioni comunicative legate più che alla sfera amorosa, a quella sessuale. Sono tante le forme espressive, di intrattenimento o di cultura popolare – televisione e pubblicità, narrativa e cinema, riviste, canzoni e non ultima certa pornografia (quella degradante e violenta) – che possono diffondere pericolosi stereotipi, come la credenza che le donne siano sempre alla ricerca di sesso, e che i “no” da loro proferiti non contino come tali, ma siano modi per fingere ritrosia, o addirittura per eccitare. Esempi tipici di riduzione al silenzio sono allora i casi di rifiuto di avances sessuali. Dire “no” (o parole equivalenti) è il modo standard con cui rifiutiamo un’offerta, decliniamo un invito o proibiamo a qualcuno di fare qualcosa, ma quando una donna dice “no” per rifiutare un rapporto sessuale può accadere che qualcosa vada storto: può succedere che gli uomini, immersi in stereotipi sessisti sulle convinzioni, i desideri e i comportamenti delle donne, non ne riconoscano (o fingano di non riconoscere) i tentativi di rifiutare, oppure li riconoscano ma ne mettano in dubbio la sincerità, o mettano in questione l’autorità della donna nel rifiutare un rapporto sessuale (in certe culture la donna viene considerata priva di autorità sul proprio corpo, che appartiene al partner, al marito, al padre).
Cosa sono e come funzionano gli epiteti denigratori?
Gli epiteti denigratori sono insulti come “terrone”, “puttana”, “negro”, “frocio”: si tratta di espressioni che, malgrado la loro valenza emotiva di carattere negativo, popolano le nostre interazioni, reali o virtuali, infestano aggressioni verbali e attacchi online, corrompono il tifo sportivo e lo scontro politico, si accompagnano a pratiche di discriminazione e di violenza, fino a fomentare massacri e genocidi. Gli epiteti hanno dato vita a un dibattito recente ma intensissimo, non solo in filosofia del linguaggio e linguistica, ma anche in etica e filosofia politica. La ragione di questo interesse è duplice. In primo luogo, a differenza degli insulti generici (come “cretino”) che colpiscono un individuo, gli epiteti hanno la caratteristica di colpire insieme un individuo e un gruppo sociale: con “terrone” valutiamo come degno di disprezzo un individuo e, allo stesso tempo, tutti i meridionali. In secondo luogo, negli epiteti alla dimensione descrittiva del linguaggio si accompagna strettamente la dimensione valutativa: con “terrone” non solo descriviamo un individuo come meridionale, ma allo stesso tempo lo giudichiamo come disprezzabile in quanto meridionale. Si può sostenere che gli epiteti esprimono disprezzo, derisione e ostilità verso certi gruppi perché rispecchiano il sessismo, il razzismo e l’omofobia che caratterizzano la nostra società. Nel libro cerco di mostrare invece come gli epiteti non si limitino a rispecchiare, ma contribuiscano a generare e rinforzare disprezzo, derisione e ostilità: le etichette denigratorie sono potenti mezzi simbolici per normalizzare, e legittimare credenze, atteggiamenti ed emozioni negative contro persone, gruppi, comportamenti, affetti.
In che modo è possibile contrastare il linguaggio d’odio?
Sono molte le strategie di contrasto del linguaggio d’odio a nostra disposizione, strategie che ci impegnano come individui oppure come gruppi, come semplici spettatori o come militanti. La riflessione teorica stessa può rivelarsi una forma di resistenza concettuale. La filosofia ci permette di plasmare nuove, potenti nozioni, e di metterle a disposizione non solo degli individui ma anche del mondo giuridico, medico, educativo. Dal momento che a contare è stata a lungo la prospettiva sulla realtà di uomini, bianchi, occidentali, eterosessuali, di ceto medio-alto, a volte mancano i concetti stessi utili a definire, raccontare e interpretare realtà che contano per certi gruppi discriminati, o per le donne. Per fare qualche esempio, concetti e termini come “molestie sessuali”, “sessismo”, “femminicidio”, o lo stesso concetto di “genere”, sono categorizzazioni recenti elaborate da studiose femministe allo scopo di colmare queste lacune interpretative e identificare elementi problematici comuni alle esperienze di molte donne. L’importanza di questo potere ermeneutico non deve essere sottovalutata: dare un nome a un problema è il primo passo per identificarlo e combatterlo. Naturalmente, accanto alla resistenza concettuale, abbiamo anche forme di resistenza pratica, che possiamo mettere in atto in quanto cittadine e cittadini. Possiamo allora identificare i discorsi d’odio e criticarli, sostenere e amplificare le lotte in difesa dei diritti civili, dare riconoscimento e valore a identità inconsuete di donne e uomini, promuovere narrazioni alternative delle loro relazioni. Soprattutto, possiamo scegliere di non restare in silenzio, di non restare indifferenti, di non diventare complici – più o meno consapevoli. Come scrive John Stuart Mill: “Perché i malvagi raggiungano i loro scopi, non c’è bisogno d’altro se non che i buoni rimangano a guardare senza far nulla”.
Resistere al linguaggio d’odio non è semplice perché raramente i contenuti tossici prendono la forma di affermazioni esplicite, aperte alla vista e facili da identificare e contrastare. I discorsi d’odio assumono spesso le sembianze insidiose di impliciti che si insinuano nelle nostre conversazioni e si presentano come conoscenza comune e scontata, ragionevole e accettata da tutti. E allora questo libro costituisce anche un manuale di resistenza al linguaggio d’odio, un testo che aiuta a esplicitare i contenuti tossici, a farli affiorare e uscire allo scoperto, per poi criticarli e contrastarli.
Claudia Bianchi è professoressa ordinaria di Filosofia del linguaggio presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Si occupa di filosofia del linguaggio, pragmatica e filosofia del linguaggio femminista – in particolare di linguaggio d’odio, epiteti denigratori e ingiustizia discorsiva. Fa parte del Direttivo della SWIP Italia (Society for Women in Philosophy). È autrice di Pragmatica del linguaggio (2003), Pragmatica cognitiva. I meccanismi della comunicazione (2009) e Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio (2021), tutti pubblicati da Laterza.