
di Michael Walzer
traduzione di Fabio Armao
Laterza
«La realtà morale della guerra consiste di due parti: dei giudizi sulle ragioni che gli stati adducono per combattere e dei giudizi sui mezzi da essi adottati. Il primo genere di giudizio ha un carattere aggettivale – diremo allora che una data guerra è giusta o ingiusta; il secondo avverbiale – valuteremo se la guerra viene combattuta in modo giusto o ingiusto. Gli scrittori medievali rendevano la differenza distinguendo tra jus ad bellum, la giustizia della guerra, e jus in bello, la giustizia in guerra, servendosi di diverse preposizioni per enunciare problemi di diversa sostanza. Lo jus ad bellum rinvia a concetti quali aggressione e autodifesa; lo jus in bello all’osservanza o alla violazione delle norme consuetudinarie e positive del combattimento. I due tipi di giudizio sono tra loro logicamente indipendenti: è del tutto ammissibile combattere una guerra giusta in modo iniquo e d’altra parte combattere una guerra ingiusta in stretto accordo con le norme. Eppure tale indipendenza, sebbene le descrizioni che il più delle volte offriamo delle guerre vi si conformino, nondimeno crea perplessità: commettere un’aggressione viene considerato un crimine, ma una guerra d’aggressione rimane pur sempre un’attività governata da norme; resistere all’aggressione è giusto, ma la resistenza è soggetta a dei limiti morali (o legali). Il dualismo jus ad bellum/jus in bello incarna quanto di maggiormente problematico vi sia all’interno della realtà morale della guerra.
È mia intenzione analizzare la guerra nel suo insieme, ma dal momento che tale dualismo costituisce l’aspetto essenziale della sua unità, devo anzitutto render conto delle due parti. In questo capitolo, quindi, mi propongo di spiegare cosa intendiamo dire quando affermiamo che è un crimine dare inizio a una guerra, nel prossimo invece cercherò di spiegare perché le norme che regolano il combattimento vengono applicate anche ai soldati impegnati in guerre considerate criminali. Questo capitolo farà da premessa alla seconda parte del volume in cui analizzerò nei particolari la natura del crimine, descriverò le forme appropriate di resistenza e valuterò quali scopi soldati e statisti possono legittimamente porsi quando si trovano a dover combattere una guerra giusta. Il prossimo capitolo, invece, introdurrà la terza parte nella quale verranno esaminati gli strumenti legittimi della guerra e le sue norme sostanziali, si vedrà come queste si applichino alle circostanze del combattimento e in che termini possono venire modificate dalla «necessità militare». Soltanto allora sarà possibile affrontare la tensione fra fini e mezzi, fra jus ad bellum e jus in bello.
Non sono sicuro che la realtà morale della guerra sia coerente nel suo insieme, ma per il momento non è necessario esprimersi su questo argomento. È sufficiente che essa abbia una forma riconoscibile e relativamente stabile, che le parti di cui si compone possano venire aggregate e disaggregate secondo criteri riconoscibili e relativamente stabili. Tale realtà morale, del resto, non deriva da assunzioni arbitrarie; essa riflette piuttosto il nostro grado di comprensione del comportamento degli stati e dei soldati, i protagonisti della guerra, e del combattimento, la sua principale manifestazione. I termini di questa comprensione costituiscono il mio primo e più immediato oggetto di analisi in quanto, al tempo stesso, prodotto storico e condizione necessaria dei giudizi critici che esprimiamo ogni giorno e perché, inoltre, sanciscono la natura morale (o immorale) della guerra.»