“Guerra e pace dell’energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione russa e Nato” di Demostenes Floros

Dott. Demostenes Floros, Lei è autore del libro Guerra e pace dell’energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione russa e Nato, edito da Diarkos. Il libro contestualizza un tema di strettissima attualità: quali interessi si scontrano attorno al fabbisogno energetico dei paesi occidentali e chi ne sono i principali attori?
Guerra e pace dell’energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione russa e Nato, Demostenes FlorosIl saggio si pone l’obiettivo di mettere in luce gli elementi politici che si celano dietro ai principali progetti e alle infrastrutture esistenti di approvvigionamento energetico europeo ed eurasiatico e le possibili conseguenze che ne potrebbero scaturire. In particolare, i gasdotti che uniscono, e che potrebbero unire nel futuro prossimo, l’UE e la Federazione Russa rappresentano la contraddizione esistente tra i rapporti politici e militari (leggasi Nato) tra gli Stati Uniti d’America e gli Stati europei da una parte e gli interessi energetici e commerciali di quest’ultimi con la Russia – porta verso l’Eurasia – dall’altra. Sullo sfondo, le nuove infrastrutture di approvvigionamento energetico che già oggi collegano la Federazione Russa con la Cina.

Tale contraddizione è emersa in maniera chiara con il forte aumento dei prezzi dell’energia, soprattutto del gas naturale. L’impressione infatti è che questi aumenti non saranno di breve durata visto che le cause non sono unicamente riconducibili a fattori di mercato, ma anche ad aspetti geo-politici e attinenti la stessa transizione energetica, in seno alla quale il gas naturale svolgerà un ruolo ponte tra il mondo delle fossili e quello delle rinnovabili.

Nel corso degli ultimi quindici anni, in Italia, i governi che si sono susseguiti – pur con pregi e limiti differenti – sono stati incapaci nel sostenere una reale linea di equilibrio tra Stati Uniti e Russia avente l’obiettivo di perseguire, in primo luogo, gli interessi nazionali in un contesto internazionale profondamente mutato rispetto a quello della Guerra Fredda.

Il fatto che la produzione e la distribuzione del gas naturale giochino un ruolo fondamentale nelle partite geopolitiche internazionali odierne trova ulteriore conferma nel drammatico allargamento della guerra all’intero territorio dell’Ucraina, visto che il primo atto sanzionatorio implementato da Usa ed UE è stato la sospensione del gasdotto Nord Stream II.

Quale ruolo svolge la Federazione Russa di Vladimir Putin nell’odierno contesto internazionale?
A tre decenni dal crollo del Muro di Berlino, in un contesto economico segnato dallo spostamento dell’attività manifatturiera verso l’Eurasia e il Pacifico (attualmente, il peso della manifattura cinese su quella mondiale supera il 30% secondo Confindustria), riemerge prepotentemente il ruolo della Federazione Russa nello scacchiere internazionale volta a modificare gli equilibri geopolitici del pianeta a discapito dell’unilateralismo statunitense (questa la principale ragione del conflitto in Ucraina).

In tale arco di tempo, Mosca ha creato e rafforzato una serie di legami militari ed economici a partire dall’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva della CSI (OTSC), di cui sono membri dal 7 ottobre 2002, oltre alla Federazione Russa, Bielorussia, Kazakhstan, Armenia, Kirghizistan, Tagikistan (la Serbia è Osservatore dal 2013). Tale organismo è entrato in azione per la prima volta durante i recenti disordini in Kazakhstan.

All’OTSC, si aggiungono l’Unione Economica Eurasiatica (UEE) nata il 1° gennaio 2015 e di cui fanno parte Federazione Russa, Bielorussia, Kazakhstan, Armenia e Kirghizistan, l’Organizzazione per la Cooperazione (SCO-Shanghay Cooperation Organization) un Organismo Intergovernativo fondato il 14 giugno 2001 dai capi di Stato di Cina, Federazione Russa, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan ai quali si sono aggiunti India e Pakistan il 9 giugno 2017.

Da ultimo, l’associazione di cinque paesi tra le maggiori economie emergenti, i cosiddetti BRICS – composta da Brasile Russia, India, Cina e Sud Africa (2010).

Durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite, avente in oggetto la condanna dell’aggressione russa in Ucraina, Armenia, Bielorussia, Cina, India, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Pakistan, Sud Africa e Tagikistan si sono astenute o hanno votato contro.

Quale contesa ha ruotato attorno al progetto South Stream?
South Stream era il nome del progetto congiunto delle società Gazprom, ENI, Edf e Wintershall (Gruppo Basf) di un gasdotto transnazionale avente come obiettivo la diversificazione delle vie di transito del gas naturale verso i consumatori del Sud e Centro Europa grazie all’attraversamento del Mar Nero dal porto russo di Beregovaja a quello bulgaro di Varna.

Con un investimento di circa 16,5 miliardi di euro (10 miliardi per la parte offshore e 6,5 miliardi per la parte onshore), la pipeline avrebbe dovuto convogliare fino a 63 Gm3 di gas naturale all’anno dalla Russia al centro di smistamento di Baumgarten (sul confine tra Austria e Slovacchia) attraverso i Balcani, dove tuttora giunge la maggior parte del gas russo verso i principali acquirenti europei. Nel progetto originale, era previsto un ramo meridionale che avrebbe raggiunto l’Italia attraverso la Grecia, ma che fu cancellato poco dopo la presentazione del progetto a causa delle pressioni statunitensi sul governo dell’allora Primo Ministro greco, il conservatore Kòstas Karamanlìs (2013).

Aggirando il territorio ucraino, il trasporto di energia sarebbe direttamente passato dal Paese produttore al mercato di consumo, evitando che le dispute con gli Stati di attraversamento potessero mettere a repentaglio la sicurezza energetica europea e garantendo, nel contempo, una maggiore stabilità della domanda.

Eppure il gasdotto South Stream non risultava gradito agli Stati Uniti, che preferirono anzitutto sostenere un progetto rivale, Nabucco, dal momento che consideravano South Stream come lo strumento che avrebbe permesso alla Federazione Russa di tenere l’UE sotto costante ricatto politico attraverso l’arma della sicurezza energetica. Secondo Washington infatti, l’Italia rappresentava l’anello debole nelle mani di Mosca. L’8 giugno 2014, l’allora Primo Ministro bulgaro, Plamen Orecharski, subito dopo aver incontrato i senatori statunitensi John McCain, Chris Murphy e Ron Johnson) «ordinò di fermare i lavori» del tratto bulgaro del gasdotto che avrebbe permesso all’Italia di diventare hub gasiero dell’Europa centro meridionale in complementarietà e non in antitesi con il Nord Stream che da dicembre 2011 unisce la Federazione Russa alla Germania attraverso i fondali del Mar Baltico, il cui successivo raddoppio ha invece reso quest’ultima il principale hub del gas dell’intera Europa.

A chi si rivolge, per i suoi approvvigionamenti energetici, la Polonia?
Da oltre un decennio, l’obiettivo primario della Polonia è tentare di diminuire la propria dipendenza energetica dalla Federazione russa, il principale fornitore di gas naturale e petrolio del paese. A tal fine, il tentativo di sviluppare la produzione nazionale di shale gas e tight oil (l’estrazione di gas naturale e petrolio attraverso la tecnica del fracking) suggerita dagli esperti statunitensi è risultata un fallimento in termini di produzione effettiva (nulla) e costi.

Attualmente, la Polonia ha di fronte a sé due problemi: il primo concerne il consumo di carbone dati gli obiettivi del Green Deal posti dall’Unione europea. Infatti, nel 2020, il carbone estratto dai giacimenti polacchi ha soddisfatto il 42% circa dei consumi totali di energia primaria del paese. Inoltre, da un punto di vista politico, risulta complicato per l’UE criticare il mix energetico della Cina nello stesso momento in cui un proprio membro si avvale, in maniera significativa, della fonte fossile più inquinante senza però fornire le stesse prestazioni cinesi in termini di rinnovabili.

Il secondo dilemma invece riguarda la legittima volontà polacca di diversificare le forniture di gas naturale russo.

Nel 2022, scadranno i contratti di approvvigionamento del gas naturale che legano la Polonia con la Federazione Russa. L’obiettivo polacco è di sostituire le importazioni russe via pipeline (al momento, circa la metà delle importazioni totali) con il gas naturale liquefatto proveniente dagli Stati Uniti e dal Qatar, nonostante il prezzo del LNG sia superiore rispetto al gas russo via tubo. Tale processo è in realtà in corso da qualche anno e potrebbe essere favorito dalla sospensione del Nord Stream II e dalla contestuale ripresa della costruzione della Baltic Pipe (Norvegia-Danimarca-Polonia) interrotta a maggio 2019 a causa di problemi ambientali.

Detto ciò, attraverso una serie di gasdotti sottomarini, attualmente la Norvegia rifornisce la Germania, il Regno Unito, la Francia e il Belgio. Tenuto conto che i norvegesi stanno estraendo quasi al massimo delle proprie capacità, in prospettiva il rischio è che si potrebbero ridurre le forniture ai paesi dell’Europa Nord occidentale in favore della Polonia, soprattutto se il giacimento olandese di Groningen verrà chiuso entro il 2030, ipotesi sempre più concreta.

A mio avviso, negli anni a venire, molto difficilmente la Polonia si “libererà” completamente dal gas naturale russo che continuerà ad acquistare al mercato spot con tutti i rischi di prezzo che ne deriveranno soprattutto dopo il passaggio dai contratti cosiddetti take or pay oil-link di lungo periodo a quelli gas-to-gas di breve periodo tanto voluti dall’UE, ma non dalla Federazione Russa (essi sono la principale causa dell’aumento dei prezzi registrato da marzo 2021).

Inoltre, non sarà secondario evidenziare che la domanda addizionale di gas naturale di cui la Polonia necessitava durante l’ultimo trimestre 2021 è stata soddisfatta grazie al gas russo che le imprese tedesche avevano in precedenza acquistato e poi rivenduto a Varsavia tramite il cosiddetto “reverse flow”, flusso inverso, a prezzi fortemente maggiorati (nei fatti, le imprese tedesche hanno fatto la “cresta” sul gas russo, in barba all’Unione Energetica Europea).

In conclusione, potremmo riassumere la scelta politica fatta dalla Polonia sulle forniture di gas naturale nei seguenti termini: lo svantaggio economico – LNG statunitense e qatariota sarebbe chiaramente più costoso rispetto al gas russo via tubo – non supera i benefici derivanti da una – presunta – maggiore sicurezza energetica del paese.

Che ruolo svolge il Corridoio Meridionale nell’ambito del nuovo contesto eurasiatico dell’energia?
Per Corridoio Meridionale si intende la somma di tre gasdotti dalla capacità di trasporto massima di 16/18 Gm3 annui di gas naturale che dall’Azerbaijan si snodano fino all’Italia (Salento), dopo avere attraversato Georgia, Turchia, Grecia e Albania. Nel dettaglio: il South Caucasus Pipeline, il Trans Anatolian Pipeline (inaugurato a giugno 2018) e il Trans Adriatic Pipeline (attivo da dicembre 2020).

Quand’anche si realizzasse l’ipotizzato raddoppio della capacità di trasporto – ipotesi estremamente complicata date le caratteristiche geologiche dei fondali del Mar Caspio – esso non cambierebbe comunque la geografia dell’approvvigionamento europeo, i cui consumi sono stati di oltre 500 Gm3 di gas naturale nel 2020 (UE, Turchia, Regno Unito, Serbia e Svizzera).

Il problema quindi non è, come troppo spesso si ritiene a Bruxelles, come cercare di diminuire la dipendenza europea dal gas russo, bensì come trovare nuove fonti addizionali, mantenendo sostanzialmente inalterato l’ammontare di gas russo importato, il cui peso nel paniere energetico dell’Italia è quasi raddoppiato in termini relativi nel corso dell’ultimo decennio. Viceversa, se non si troverà un’alternativa agli attuali fornitori in declino, il rischio che la dipendenza europea dal gas russo aumenti diverrebbe alquanto concreta.

Ritengo doveroso ribadire quest’ultima considerazione dinanzi alle a dir poco fantasiose ricostruzioni giornalistiche e non volte a considerare come possibile la sostituzione della Russia come fornitore di energia (petrolio e gas naturale). Ciò non sarà possibile nemmeno nel medio periodo.

Per “nuovo contesto eurasiatico dell’energia”, si intende quella particolare condizione per cui la Federazione Russa vende il proprio gas naturale, sia all’Europa – con la quale sussiste tutt’ora un rapporto di interdipendenza dato dal fatto che il 60% dell’export russo concerne l’energia i cui proventi finanziano il 40% circa del bilancio di Mosca – sia, all’Asia, a partire dalla Cina.

Secondo le previsioni di Wood Mackenzie, la domanda asiatica di gas naturale al 2050 crescerà da 720 Gm3 a 1440 Gm3 (+100%) a causa della necessità di sostituire il carbone con il “più pulito” gas naturale e del contestuale calo della produzione nella regione (ad eccezione della Cina nel breve periodo).

Il saggio descrive in dettaglio il significato geo-politico del gasdotto russo Power of Siberia (oggetto dei recenti colloqui tra Putin e Xi che ne hanno decretato l’incremento della portata sino a 48 Gm3 annui) che rifornisce la Cina Nord orientale da dicembre 2019 e il progetto Altai che, attraverso il Kanas Pass, lembo di terra che unisce Federazione Russa e Cina, approvvigionerà la Cina Nord occidentale e la Mongolia rifornendosi però dai medesimi giacimenti da cui tutt’ora si approvvigiona l’Europa. Quest’ultimo aspetto non è affatto secondario soprattutto se analizzato alla luce dei cambiamenti contrattuali intervenuti nella modalità di acquisto della materia prima.

Quali prospettive per il nostro Paese?
Premesso che il gas naturale ha coperto il 41% dei consumi di energia primaria dell’Italia nel 2020, le cui importazioni sono state soddisfatte per il 40% circa dei consumi dalla Federazione Russa, il parlamento italiano poteva e doveva tentare di svolgere un ruolo di mediazione in Ucraina, proprio in virtù del forte rapporto energetico e commerciale che ha con la Russia – inalienabile negli anni a venire – e della contestuale appartenenza alla Nato (la contraddizione a cui mi riferivo all’inizio dell’intervista).

Da un punto di vista esclusivamente geo-politico, possiamo dire che il Governo Conte I cadde proprio perché si arrogò uno spazio di manovra relativamente autonomo in politica estera e commerciale con la Russia e la Cina che gli Stati Uniti non tollerarono.

Ora, temo che dipenderemo in gran parte dall’esito – “sul campo” – del conflitto in Ucraina con l’incombente stagflazione alle porte visto che con gli attuali prezzi del gas naturale il 70% della nostra manifattura rischia la chiusura.

Demostenes Floros è nato il 5 maggio 1976 a Medicina (BO). È un analista geopolitico ed economico, docente a contratto presso il Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia, dell’Università di Bologna Alma Mater, oltre ad essere responsabile e docente del X corso di Geopolitica istituito presso l’Università Aperta di Imola (BO). È stato responsabile geopolitico di NE-Nomisma Energia (2008-11) ed ha collaborato con Abo www.abo.net e la rivista WE-World Energy editi da ENI (2015-19) e con la rivista di geopolitica Limes (2011-16). Tra le sue collaborazioni: Energy International Risk Assessment EIRA (2014-17), Blue Fuel (2013-16), www.oilprice.com (2016). Dal 2019, è Senior Energy Economist presso il CER-Centro Europa Ricerche. Nel febbraio 2020, ha pubblicato il saggio: Guerra e Pace dell’Energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione russa e Nato (Diarkos Editore) con prefazione di Lucio Caracciolo e postfazione del Gen. Giuseppe Cucchi.

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