“Guerra civile e ordine politico” di Alessandro Colombo

Prof. Alessandro Colombo, Lei è autore del libro Guerra civile e ordine politico edito da Laterza: innanzitutto, che cosa è la guerra civile e cosa, specialmente, è «civile»?
Guerra civile e ordine politico, Alessandro ColomboA prima vista, la distinzione tra guerre civili e guerre internazionali sembrerebbe evidente: le seconde sono quelle che si svolgono fra unità politiche diverse (stati, città-stato e così via), le prime invece sono quelle che si svolgono al loro interno tra parti, partiti, fazioni costituite tra membri della stessa unità.

Ma questa distinzione è più problematica di quello che sembra. Intanto, come mostrano anche oggi i conflitti in Siria e in Libia, le guerre civili sono quasi sempre penetrate profondamente dall’esterno: a combatterle non sono soltanto soggetti “interni”, ma sono anche soggetti “esterni” alleati dei primi. Soprattutto, la distinzione tra guerre interne e guerre internazionali dipende dalla condizione che esista una chiara distinzione tra “interno” ed “esterno”, “politica interna” e “politica internazionale”. Ma questa distinzione non è sempre esistita nella storia. E questo, oltre tutto, è tornato a essere un problema oggi, almeno a prendere sul serio la retorica del mondo “globale” o “senza confini”. In questa presunta transizione alla globalità, quali conflitti armati meritano di essere ancora definiti come “civili”? Quelli interni alle “vecchie” unità in via di superamento? Quelli interni alle “nuove” unità in via di formazione, quali sarebbero secondo una diffusa retorica politica e intellettuale tutti i conflitti all’interno dell’Unione Europea? Oppure, ancora, “civili” diventerebbero da una prospettiva rigorosamente cosmopolita tutti i conflitti tra esseri umani? O, all’opposto, nessuno di essi, vista l’insussistenza della distinzione tra “interno” ed “esterno” che sarebbe implicita in tutti i fenomeni “globali” (compresa la guerra)?

Per quali ragioni le guerre civili hanno permanentemente costellato la storia istituzionale europea?
Perché le guerre civili hanno molto spesso segnato il passaggio o il tentato passaggio da una forma di convivenza (interna e internazionale) a un’altra. Nelle città-stato greche, per esempio, i lunghi anni di trasformazione dal monopolio aristocratico dell’epoca arcaica alla struttura della città-stato classica fino alla cruenta oscillazione, anche al suo interno, tra oligarchia e democrazia, o tra una fazione oligarchica e un’altra. A Roma, il travagliato passaggio dalla repubblica all’Impero. Nell’Italia del tardo Medioevo, la crisi dei Comuni e il passaggio alle Signorie. Senza dimenticare, poi, che fu proprio un lungo ciclo di guerre civili (le guerre civili di religione) a costituire il terreno di coltura della soluzione moderna all’ordine politico, sia interno che internazionale, dopo avere devastato singoli paesi ed essere confluite nella guerra costituente per eccellenza del modello moderno di convivenza internazionale, la Guerra dei Trent’anni. Così come fu un altro ciclo di guerre civili a segnare la crisi e, un secolo e mezzo più tardi, il definitivo tracollo di questo modello: il ciclo inaugurato dalle Rivoluzioni americana e francese alla fine del Settecento e culminato, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, nel vortice della guerra civile europea e poi mondiale del ventesimo secolo.

Quale marginalizzazione caratterizza la guerra civile nel lessico e nella temporalità moderni?
Questo è uno dei paradossi dai quali muove il libro. Nonostante la ricorrenza storica della quale abbiamo appena parlato, la guerra civile si è quasi sempre trovata ai margini della riflessione teorica. Diversi fattori hanno contribuito, in combinazione storicamente variabile, a questa marginalizzazione: la difficoltà alla quale abbiamo già accennato di definire la “guerra civile” e distinguerla da altri fenomeni di violenza di massa (prima di tutto: la guerra esterna e la rivoluzione); l’inclinazione a nascondere la guerra civile dietro fenomeni “nobilitanti” quali la rivoluzione, appunto, o qualche “guerra di liberazione” contro un tiranno “interno” o un invasore “esterno” (preferibilmente associati tra loro); la compresenza, nei discorsi sulla guerra civile, di tre rappresentazioni diverse e inconciliabili, riconducibili ad altrettante matrici storiche e intellettuali – quella romana del bellum civile, quella greca della stasis e quella hobbesiana della “guerra di tutti contro tutti”. Ma, soprattutto, la marginalizzazione è dipesa dal fatto che il lessico e la temporalità del Moderno hanno preferito vedere nella guerra civile un fenomeno residuale, politicamente sterile e storicamente anacronistico, vuoi perché inconciliabile con le norme e il lessico politico-giuridico dello Stato alle quali, che lo riconosca o no, il nostro immaginario politico resta tuttora ancorato; vuoi perché a lungo subordinata al concetto e alla retorica (in tutti i sensi, più promettenti) della “rivoluzione”; vuoi perché – come avviene oggi – sepolta sotto una sgangherata filosofia della storia che confina nel passato o nella patologia, sociale e psicologica, tutto ciò che non somiglia alle condizioni “normali” dei paesi “sviluppati” e, quindi, può liquidare a cuor leggero le guerre civili contemporanee (dalla Jugoslavia all’Iraq alla Siria e alla Libia) come il prodotto di qualche “ritardo” politico, economico o persino culturale.

Qual è l’origine della distinzione tra interno ed esterno?
Questa distinzione è alla base dell’identità di tutti i gruppi politici (non solo quelli istituzionalizzati, come gli Stati o le federazioni di Stati ma, in modo persino più estremo, quelli che li contestano, come i movimenti radicali o rivoluzionari). I membri del gruppo si sentono tanto più legati fra loro quanto più si riconoscono diversi dagli altri e, reciprocamente, si riconoscono tanto più diversi dagli altri quanto più si sentono legati fra loro. Con la conseguenza che nessuna unità politica può sopravvivere una volta che i propri membri (polītai, civites, concittadini, correligionari, compagni, camerati) abbiano smesso di considerare la distinzione rispetto agli estranei come politicamente più intensa di tutte le distinzioni tra di loro. La relazione opera sia in un senso che nell’altro. Da un lato, ogniqualvolta tornano a prevalere le divisioni interne, è destinata a perdere peso anche la separazione esterna tra membri e non membri. Dall’altro lato, ogniqualvolta si affievolisce il senso di distinzione rispetto agli estranei, riacquistano peso al suo posto le divisioni interne.

Quali movimenti caratterizzano il riorientamento dell’appartenenza?
Il collasso dell’unità politica e la politicizzazione delle fazioni al suo interno passa quasi sempre attraverso tre movimenti, non necessariamente successivi tra loro – anzi quasi sempre intrecciati e incuneati l’uno nell’altro – ma comunque individuabili e distinguibili sul terreno analitico. Il primo movimento è quello, in senso proprio, di dis-integrazione: la crisi definitiva dell’identità politica comune e la secessione di massa dalle sue istituzioni e dai suoi simboli comuni. Il secondo movimento, che subentra al tracollo del controllo comune sulla violenza, è la corsa disordinata e, almeno in una prima fase, incoerente alla mobilitazione e al riarmo delle parti. Questo “processo a cascata” richiama il comportamento tipico di tutte le fasi di catastrofe: ciascuno per sé, ciascun gruppo per i propri interessi. Il terzo movimento è il riorientamento di tutta la violenza latente o già esplosa in una sola direzione. Rispetto alla violenza mimetica, diffusa e informe della “guerra di tutti contro tutti”, infatti, quella della guerra civile è violenza ri-unificata, politicamente orientata, resa unanime dalla convergenza di tutte le aggressività e gli odi personali in una direzione comune

Quale radicale ambivalenza permea la guerra civile?
La guerra civile è una guerra ambivalente per antonomasia. Scaturendo dal collasso di un ordine politico e venendo prima dell’instaurazione dell’ordine successivo, essa è irriducibile alle categorie e alle distinzioni pensate per il “caso normale”. Così, la guerra civile è “civile”, appunto, cioè presuppone l’esistenza di una comunità politica, ma è il prodotto del disfarsi di quella comunità e dell’emergere (o del riemergere) di identità “parziali” più forti di quella comune; è “politica” al massimo grado, in quanto divide radicalmente gli uomini in amici e nemici ma, da questo massimo di politicità, finisce per varcare la soglia di indifferenza tra violenza pubblica e violenza privata; è per definizione “interna” o “intestina” ma, fra tutte le guerre, è anche quella più aperta alle contaminazioni e agli interventi dall’esterno; scatena una violenza senza limiti e, quasi sempre, senza regole, ma mobilita nella stessa misura anche il diritto, un po’ come argine un po’ come maschera e un po’ come strumento supplementare (e micidiale) di annientamento; soprattutto, è il contrassegno del collasso dell’ordine politico ma, allo stesso tempo, è anche la sua fonte più radicale – oltre che lo specchio nel quale, anche una volta istituito, è condannato a riflettersi.

In che modo la guerra civile costituisce una determinante fondamentale dell’ordine politico?
Prima di tutto perché, come abbiamo visto, la guerra civile è molto spesso all’origine dell’ordine politico e delle sue determinanti fondamentali (l’identità, la memoria collettiva, la Costituzione stessa). Ma soprattutto perché, anche una volta che l’ordine è costituito o già consolidato, il fantasma della guerra civile continua a inquietarlo e, periodicamente, a scuoterlo. Che è un’altra delle ragioni per prendere nuovamente sul serio la guerra civile, in un contesto nel quale il rischio di una rottura interna torna nuovamente a crescere insieme al declino dell’ordine politico e giuridico varato nel secondo dopoguerra e rilanciato in modo velleitario alla fine della guerra fredda. A maggior ragione perché l’esperienza più recente della disgregazione della Jugoslavia e, soprattutto, dell’Unione Sovietica ci ha ricordato (o, almeno, avrebbe dovuto ricordarci) che anche oggi la possibilità del fallimento non risparmia nessun attore – non soltanto quelli geograficamente periferici e strutturalmente fragili, ma anche quelli centrali dai quali dipende la tenuta dell’intero ordine internazionale.

Alessandro Colombo è professore ordinario di Relazioni Internazionali nel Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-politici dell’Università degli Studi di Milano e responsabile del Programma di Relazioni Transatlantiche dell’ISPI, per il quale cura dal 2000 il Rapporto annuale. Tra le sue pubblicazioni, oltre a Guerra civile e ordine politico (Laterza 2021), Tempi decisivi. Natura e retorica delle crisi internazionali (Feltrinelli 2014), La disunità del mondo. Dopo il secolo globale (Feltrinelli 2010), La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale (Il Mulino (2006).

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