
Quali motivazioni spinsero i volontari fascisti e antifascisti ad arruolarsi?
Ancorché il fascismo e l’antifascismo rappresentano, come è evidente, due mondi contrapposti, qualsiasi tentativo di tracciare con nettezza rigidi confini tra i due volontariati rischia di restituire un’immagine semplificata di un fenomeno in realtà complesso. Oltre venti anni fa Claudio Pavone metteva in guardia dal leggere simili fenomeni esclusivamente attraverso l’azione dei partiti, intesi come unici agenti della storia, ritenendo più proficuo spostare lo sguardo sui soggetti, sulle loro molteplici motivazioni, intenzioni, speranze, illusioni.
Accostarsi all’analisi dell’esperienza di guerra dei volontari dal lato della loro soggettività, cercando cioè di conoscere ciò che ha determinato la loro partecipazione, ha mosso la loro volontà e quanto questa sia stata decisiva, ci aiuta a mettere a fuoco sia le differenti modalità in cui essi aderivano (o non aderivano) al regime, sia la loro interazione con la realtà della dittatura, restituendoci diverse angolazioni visuali di un più complesso rapporto degli italiani con il fascismo.
Sotto questa lente più ravvicinata le letture legate all’immaginario consolidato si dissolvono. Se la persuasione ideologica fu decisiva per la stragrande maggioranza dei volontari fascisti, ciò non significa che in essa si risolvano tutte le questioni legate alle ragioni che li spinsero ad arruolarsi. Riconnettendo i pezzi delle loro storie personali, emerge come tale motivazione convive con il carattere costrittivo del loro arruolamento, ma anche con adesioni conseguite con l’inganno o dettate semplicemente dal calcolo di convenienza, dall’opportunità, dal bisogno. Allo stesso modo, per quanto riguarda i volontari antifascisti, non sarebbe corretto leggere la scelta dell’arruolamento esclusivamente come espressione di una resistenza politica organizzata. Quella decisione fu piuttosto il frutto di differenti percorsi e di processi di maturazione contraddittori, difficilmente interpretabili in maniera razionale e lineare. Così, alle motivazioni ideali se ne affiancano altre più consone alla sfera sociale ed esistenziale, per quanto anch’esse spesso scaturite, direttamente o indirettamente, da una condizione politica determinata.
Perché gli esiti della battaglia di Guadalajara ebbero una risonanza internazionale?
La battaglia di Guadalajara, combattuta nel marzo 1937, costituisce uno snodo centrale dello scontro iniziato diversi anni prima tra fascisti e antifascisti: i fascisti si galvanizzarono vedendo nei loro avversari quegli stessi che gli squadristi avevano «sonoramente legnato nelle vie d’Italia» (come tenne a precisare il generale Mario Roatta alle sue truppe); gli antifascisti, invece, trovarono finalmente in Spagna quell’opportunità di rivalsa che cercavano da tempo.
Dopo tante vittorie celebrate dalla propaganda, la sconfitta di Guadalajara arrecò un duro colpo al prestigio del regime fascista ed ebbe, per di più, un effetto duraturo, amplificato dalla risonanza internazionale di un conflitto combattuto anche a livello mediatico. Da questo punto di vista la propaganda degli antifascisti italiani ebbe buon gioco a presentare Guadalajara come la prima importante vittoria sul fascismo e, esibendo i prigionieri alla stampa internazionale, a utilizzare il conflitto come prova inequivocabile della massiccia presenza del regime italiano in Spagna attraverso “volontari” che, in realtà, erano in buona parte regolari dell’esercito inviati in violazione degli accordi internazionali di “non intervento”.
Va detto che dal punto di vista militare Guadalajara non fu per i fascisti una Caporetto e la vittoria antifascista ebbe, di fatto, una valenza prevalentemente politica. Tuttavia, dopo la sconfitta Mussolini si trovò nella condizione di dover continuare a sostenere la guerra di Franco senza avere più la possibilità di condizionarne l’indirizzo strategico e politico. Inoltre, si era significativamente allontanata la previsione iniziale di una conclusione vittoriosa del conflitto nel breve termine. Sconfitto da un esercito improvvisato, il regime mostrò tutta la vulnerabilità di quell’immagine di Stato-potenza che tendeva a dare di sé. Sulla stampa europea e americana si affermarono gli stereotipi dell’italiano codardo e della scarsa inclinazione militare del paese, a scapito dei tentativi del regime di fare del proprio protagonismo in Spagna una vetrina della nuova Italia guerriera. Da questo punto di vista, dopo Guadalajara il duce dovette prendere atto di una sconcertante realtà: una parte consistente dei volontari fascisti era rimasta sostanzialmente estranea alle antitesi ideologiche connaturate al conflitto.
A Guadalajara la propaganda giocò un ruolo decisivo
Come da più parti è stato sostenuto, la guerra di Spagna fu “un grande laboratorio”: vennero sottoposti a verifica strumenti e strategie politiche e militari e, soprattutto, si consolidarono nuove modalità di comunicazione politica. Per l’antifascismo, soprattutto quello italiano, fu la scoperta dell’importanza di pianificare una propaganda di respiro finalmente internazionale rispetto ad iniziative fino ad allora spesso improvvisate. Possiamo dire che Guadalajara costituisce, per molti versi, la cartina di tornasole della risonanza internazionale che la guerra di Spagna ebbe dal punto di vista mediatico.
Già nei giorni della battaglia – per la prima volta dall’inizio della guerra – la propaganda e la lotta armata si combinarono strettamente assieme, costituendo due aspetti di un solo conflitto: si combatté con le armi, ma anche con gli scritti e i discorsi, con la forza, ma anche con la persuasione. Nei giorni successivi i corrispondenti delle maggiori testate giornalistiche (basti ricordare, tra gli altri, Ernest Hemingway) si avvicendarono in Spagna per ripercorrerne le tappe, dando alimento a quello che in poche settimane si trasformò in un vero e proprio mito che, come si è già avuto modo di accennare, ben presto travalicò i più stretti ambiti dell’antifascismo italiano.