
a cura di Luca Canali e Guglielmo Cavallo
Biblioteca Universale Rizzoli
«La “scrittura di strada e di piazza” di Roma antica -la scrittura non delle epigrafi pubbliche e private destinate a durare in un contesto concettualmente imperituro, ma la scrittura spontanea graffita, tracciata a carbone o dipinta, che fermava sui muri pensieri, emozioni, messaggi, parole salaci, sfoghi occasionali o effimeri- non è finora entrata nella rappresentazione della civiltà romana. Pure, quella scrittura ora frantumata, sbiadita, consunta dai secoli o dalle intemperie, un tempo “esponeva” le sue parole discrete e sfacciate, vereconde e oscene, accattivanti e aggressive, dolci e furenti nelle “strade dei vivi”, nei fori, lungo gli intonaci affacciati delle case, sui colonnati dei cortili; e non solo negli spazi urbani aperti, ma anche negli interni domestici, negli edifici pubblici, nei locali delle scuole, nelle osterie e nei lupanari le pareti accoglievano e rimandavano scritte. Quella che ci viene incontro da Roma antica, dunque, è una scrittura prodotta da molti e rivolta a molti, appartenenti a strati sociali diversi, tra coloro che vivono in una comunità urbana; scrittura che ci si può fermare a leggere, o sulla quale si può gettare uno sguardo distratto camminando o intenti ad altro, o che, quando si è analfabeti, si può chiedere di leggere al passante che ne sia capace. […]
Nell’epoca, grosso modo, tra Augusto e l’età dei Severi, lo scrivere sui muri si mostra largamente diffuso, di pari passo con la diffusione dell’alfabetismo. Sono sempre più coloro che imparano a leggere e a scrivere, e anzi sono incentivati a farlo proprio man mano che aumenta la quantità di scrittura prodotta ed esibita, alla quale si vuol partecipare come protagonisti o come lettori. Questa esplosione di scrittura spontanea di solito investe determinate superfici, mentre è assente in altre; e pur se non mancano scritte sparse e isolate, pare che una scrittura invitasse nuove e sempre più numerose mani a imbrattare o graffire la calce o l’intonaco. Né si tratta solo di scritte, ma pure di figure e disegni, indizio anche questi di un qualche alfabetismo, di un saper tenere in mano e adoperare uno strumento scrittorio. In età imperiale, insomma, si fa più prepotente una figura di alfabeta che legge e scrive solo in quanto… alfabeta, semplicemente perché è libero di farlo e gli piace farlo, sia fuori di certe precise funzioni ch’egli svolga (maestro di scuola, scrivano di mestiere o servile, funzionario pubblico o altro), sia quando non svolga alcuna di queste funzioni, ma possieda comunque un certo grado di alfabetizzazione. Gli spazi per questo “libero” alfabeta non sono quelli che la città riserva “istituzionalmente” alla cultura scritta pubblica o privata, quella di monumenti e mosaici, di epigrafi celebrative, di tabulae bronzee esibenti trattati, costituzioni, senatoconsulti e decreti, di cippi miliari o gromatici, di targhe funerarie; questi spazi “liberi” per una scrittura “libera” sono qualsiasi superficie urbana su cui si possa scrivere, e talora anche uno spazio già occupato da un’epigrafe che gli è propria e alla quale è destinato, ma su cui vengano tracciate scritture libere, fino al prodursi di un intricato palinsesto di segni sovrapposti e contrapposti.
A Pompei- la città romana che più di ogni altra ci ha conservato sotto le colate di lava questa massa di testualità dipinta o graffita – muri esterni e interni si ricoprono di locandine di spettacoli, di manifesti elettorali, di saluti, di complimenti, di motti spiritosi o scatologici, di sospiri d’amore, di fantasie erotiche, di messaggi interpersonali, di ingiurie sguaiate, di oscenità brutali, di riferimenti al quotidiano. E pur se meno vari e ricchi, gli stessi “temi” si trovano anche altrove. Ed ecco alcuni squarci, frammenti, bagliori di questa “littérature de rue”: Coge mori; quem sine te vivere coges – Costringimi a morire, poiché mi costringi a vivere senza di te; O utinam liceat collo complexa tenere braciola et teneris oscula ferre labellis – Oh potessi abbracciarti con le mie braccia avvinte al tuo collo e portare baci alle tue tenere labbra; Cestilia, regina Pompeianorum, anima dulcis, vale – Cestilia, regina degli abitanti di Pompei, dolce anima, addio; Suspirium puellarum traex Celadus – Sospiro delle ragazze, il tracio Celado; Romula cum suo hic fellat et ubique – Romula lo succhia al suo amato qui e dovunque si trova; Iulius cinaedus – Giulio finocchio; Seni supino colei culum tegunt – A un vecchio supino i coglioni coprono il culo; Miximus in lecto. Fateor, peccavimus, hospes; si dices quare nulla matella fuit – Abbiamo pisciato a letto. Lo confesso, ospite, abbiamo sbagliato. Ma se mi chiedi perché, rispondo: non c’era orinale; Secundo plurimam amabiliter salutem – Saluto Secondo molto affettuosamente; Pridie Kalendas Maias supposui ova gallinae – Il 30 aprile ho messo le uova sotto la gallina; A. Suetti Certi aedilis familia gladiatoria pugnabit Pompeis pridie Kalendas Iunias; venatio et vela erunt – La squadra di gladiatori dell’edile A. Suettio Certo combatterà a Pompei il 31 maggio; vi saranno lotta con le fiere e tendoni; M. Ennium Sabinum aedilem pomari rogant – I mercanti di frutta vogliono edile M. Ennio Sabino.
A questa stessa cultura scritta di strada o di muri appartengono, non a caso, anche i Priapea, pur se si tratta di carmi che hanno destinazione pratica. A Priapo, il dio della sessualità sono offerti quadretti osceni, tavolette iscritte che vengono appese al suo membro ritto e vigoroso, iscrizioni sui muri stessi del tempietto che gli è dedicato; e questi carmina, destinati a ladri, prostitute e passanti di ogni risma, si connotano per il realismo espressivo della lingua, per il frequente ricorso a termini come cunnus e mentula – fica e cazzo – universalmente noti e onnipresenti nel parlare quotidiano e perciò comprensibili a tutti. Ugualmente, agganci con il mondo dei graffiti si sono voluti vedere nel “priapismo verbale” di certa letteratura colta come le nugae di Catullo.
Certo, a Pompei la diffusione sociale dell’alfabetismo può essere stata più larga che altrove; ma il mondo romano (greco-romano, anzi) dei primi secoli dell’impero rappresenta forse, in generale, il periodo di più alta alfabetizzazione, e quindi circolazione di cultura scritta, dell’antichità, almeno nei centri urbani. In quest’epoca il leggere e lo scrivere non sono pratiche riservate a certe categorie sociali, come nell’antichità tarda, ma pratiche aperte a chiunque; si può diventare alfabeta a un qualche livello in famiglia, sotto la guida di uno schiavo o di un liberto, o anche facendosi insegnare le lettere da un “affine” che le conosce, o si può andare alla scuola pubblica di un povero maestro che per una somma misera o pochi doni offre i rudimenti della scrittura di base e, ai più volenterosi, qualche competenza ulteriore, o si può trovare tra gli scrivani di mestiere di libri o documenti l’alfabeta esperto cui rivolgersi. Le opportunità sono tante!
Le ragioni di questa vasta diffusione di scrittura a vari gradi di capacità, da una “craft literacy” a una padronanza assoluta, vanno cercate nella pace sociale di cui Roma poté beneficiare a partire dall’avvento del principato, che creò le condizioni favorevoli all’insorgere di una società “di dialogo” fondata su vari modi di comunicare tra cittadino e istituzioni, e tra individui e gruppi; nella creazione di una fitta rete di uffici centrali e periferici con il relativo sviluppo di documenti, e quindi di quanti erano tenuti a produrli graficamente o a prenderne conoscenza; nella crescita economica e perciò nella necessaria pratica di registri e di scritture contabili; nell’azione divulgativa e di stimolo esercitata da una letteratura rivolta a un pubblico di lettori di cultura media o medio-bassa. Questa diffusa capacità di leggere e scrivere faceva del mondo romano cittadino un mondo di prodotti scritti diversissimi per tipologia e funzione: sono non soltanto documenti civili e militari, libri di letteratura “alta” o “da intrattenimento”, iscrizioni ufficiali o private, ma anche cartelli trionfali e votivi, insegne, volantini, libelli, gettoni con leggende, stoffe scritte, calendari, “cahiers de doléances”, lettere. […]
La massa di graffiti pompeiani – s’è accennato – non si ritrova altrove né sotto l’aspetto del numero, fitto e imponente, né sotto l’altro della diversificata, anzi spesso contrastante, qualità di livelli culturali, di spazi di collocazione, di tipologia dei messaggi, di padronanza dei segni alfabetici. Meno numerosi, meno vari e meno significativi si mostrano i graffiti a Ercolano, o a Roma quelli del Paedagogium o della Domus Tiberiana sul Palatino, della Domus Aurea, della Basilica Argentaria nel Foro di Cesare, della caserma dei vigili in Trastevere sul Monte de’ Fiori, o ancora, a Ostia, quelli di un’altra caserma dei vigili e della casa di Giove e Ganimede. In generale, le scritte parietali “colte” sono relativamente rare, e comunque limitate a luoghi o ambienti urbani di tradizione sociale aristocratica, in confronto alla massa di scritte puramente occasionali, per lo più scorrette, graffite da individui semplicemente alfabetizzati, tante volte capaci soltanto di scarabocchiare qualche breve invettiva, il prezzo di una prestazione sessuale, un modesto conto, o non più che un nome. E anche in località più o meno eccentriche del mondo romano si trovano testimoniati graffiti, nel Magdalensberg in Carinzia, ad Haltem in Renania, a Usk in Gran Bretagna, a Villard d’Héria e, soprattutto, a La Graufesenque/Condatomagos in Gallia. Ma sono proprio le scritte elementari, quotidiane e oscene che più di altre accomunano questa società alfabetizzata presente ovunque siano giunti gli eserciti e la scrittura di Roma. Alla Pompei dei graffiti più sconci fa eco Villard d’Héria nella lontana regione montagnosa del Giura: Cunne, licet plores vel tota nocte mineris: eripuit culus quod tua praeda fuit – Fica, implora o minaccia pure per tutta la notte: il culo ormai ti ha scippato quello ch’era il tuo bottino.
A messaggi verbali molto semplici e rozzi corrispondono spesso prodotti grafici che la scrittura rivela di semialfabeti o quasi analfabeti di ritorno. Ma con un’avvertenza: non sempre è possibile rilevare quali caratteri siano dovuti a inesperienza dello scrivente, e quindi inerenti alla sua condizione di semialfabeta, e quali siano conseguenza tecnica dell’impatto fra strumento e supporto nello scrivere a sgraffio; e ancora, entrano in gioco altri fattori, come l’indole effimera del prodotto scritto, la qualità specifica della superficie da graffire, la posizione di chi scrive rispetto a quest’ultima. […]
Un certo numero di queste mani che “graffiano” pareti paiono dell’ambito della scuola: maestri (schiavi? liberti?) che “insegnavano” nelle case dei ricchi o anche in proprio, magari nella strada o nell’angolo del foro, e scolari più o meno discoli; e se piuttosto ai primi sono forse dovuti richiami o citazioni che rimandano alla grande poesia di Roma (ma anche minacce a chi non vuole studiare Cicerone), agli altri vanno di sicuro riferiti insulti e lagne. Vi sono poi le scritture delle convivenze coatte, quelle delle caserme o delle familiae domestiche di schiavi, con il loro linguaggio nudo e greve, e i loro segni per lo più stentati. E di altri, non molti, si conosce il mestiere, ch’è quello di lavandaia, tessitore, fornaio, profumiere, riparatore di attrezzi da calzolaio. Qualche volta vi compaiono individui di posizione sociale più elevata, come un medico; e da mansioni del quotidiano si ricava qualche altro indizio su chi ha tracciato due o tre parole. Ma niente si sa dello stato sociale dei più. In questo formicolante andirivieni di scriventi che si muovono fra strade, fori, vicoli, case, osterie, palestre, bordelli, latrine, vi sono ubriachi e truffatori, buontemponi e puttanieri, perdigiorno e turisti: tutta una varia e variegata umanità di estrazione sconosciuta. Un semplice nome, così come scritte oscene o scatologiche possono essere di chiunque, dell’individuo istruito o incolto, dei primi o degli ultimi della scala sociale, in un mondo, come quello romano, in cui “tout est objet d’affichage, quelle qu’en soit la forme”: mondo dell’ostentazione e della comunicazione. Circostanza e tipo di scritta dipendono, piuttosto, dall’indole e dalla positura del luogo: a Pompei, graffiti di sozzura o volgarità violenta si trovano soprattutto nel lupanare o nella palestra. E per quanto riguarda l’espressione linguistica, se più o meno colta, rimanda certamente a un individuo istruito; ma se si mostra infarcita di volgarismi, non può attribuirsi sol per questo a uno scrivente incolto, giacché la lingua parlata, a qualsiasi livello sociale, poteva affiorare nella sua forma più consueta e quotidiana di sermo humilis.
Anche se qualche graffito può essere stato scritto da un “delegato di scrittura” per altri, i più restano “autografi”, e quando si tratta di graffiti colti, magari di versi composti da chi li ha scritti sull’intonaco, rappresentano autografi “letterari” (o meglio, paraletterari) tra i rarissimi che ci sono pervenuti dal mondo antico. […] Anche questo comporre “letterario” sui muri s’inquadra in un’epoca di più larghe pratiche di scrittura: già Orazio (epist. 2,1,108 sg.) osservava per i tempi suoi che il populus era preso da una sola passione: scrivere.
Significativa è la partecipazione di donne a questa cultura scritta dipinta o graffita: nei “manifesti” a supporto di questo o quel candidato sono coinvolte nella febbre elettorale pompeiana, nei graffiti sono oggetto di desiderio e di ingiurie sconce, o esse stesse fanno conoscere tipo di prestazione e tariffe, invero assai basse. Certo, a scriver graffiti del genere non erano le puellae doctae, forse enfatizzate, che si vedono in scene di scrittura e di lettura in affreschi o rilievi; ma anche tra le donne di livello sociale medio o medio-basso, almeno alcune dovevano essere capaci di lasciare sui muri o di leggere qualche breve messaggio. Le più potevano delegarne il compito ad altri. […]
Immergendosi in questo universo di scrittura murale dipinta, graffita, figurata, si vedrà una Roma dei Cesari meno paludata, meno lontana; e più vera.»