
Cosa prevedeva per l’Europa centro-orientale la “dottrina Gorbačëv”?
Gorbačëv era un comunista riformista pervaso da una sorta di “umanismo socialista”. Egli si convinse non solo dell’inutilità politico-strategica dell’uso della forza, ma anche dell’obbligo morale di introdurre cambiamenti in Urss e nell’Europa centro-orientale. La “dottrina Gorbačëv” agì dunque sempre nel rispetto dell’autodeterminazione dei popoli, ma allo stesso tempo non liquidò l’idea che Mosca dovesse contribuire al mutamento del blocco sovietico.
Il leader del Cremlino intendeva salvare il comunismo tramite una sua radicale riforma che rilanciasse i “veri” valori dell’Ottobre: tentò di farlo attraverso la “forza dell’esempio”. Gorbačëv pensò che presto o tardi anche gli altri leader dell’Europa centro-orientale lo avrebbero seguito. Il successo delle riforme in Urss avrebbe alla fine convinto i più scettici. Ecco, perciò, che invece di chiedere la rimozione dei conservatori, suscettibili di rallentare o danneggiare la perestrojka, decise di condividere con loro il percorso di rinnovamento. In quest’ottica più che con la forza dell’esempio, Gorbačëv condizionò gli sviluppi del blocco sovietico con la sua accondiscendenza.
La “persuasione” era del resto l’unico modo per tentare di favorire un rinnovamento tra gli alleati del Patto di Varsavia, non avendo alcun mezzo economico e avendo rinunciato allo strumento militare. Così facendo però i tempi per attuare le riforme si dilatarono, mentre in contemporanea gli effetti della crisi si fecero sempre più evidenti. Ciò favorì l’emergere di nuovi soggetti più radicali in grado di scavalcare contemporaneamente, nei mesi decisivi del 1989, i sostenitori e gli avversari della perestrojka e allontanare i comunisti dal potere. Questi ultimi si trovarono spiazzati e non riuscirono in alcun modo a guadagnare in elezioni competitive un consenso che non avevano probabilmente mai avuto. La “dottrina Gorbačëv” favorì così nell’Europa centro-orientale non tanto la riforma del comunismo, come era nelle sue intenzioni, ma la sua fine.
In che modo la ricerca di un socialismo democratico si sposava col progetto di una Casa comune europea?
Dobbiamo tenere presente che per Gorbačëv la riforma del sistema internazionale e la riforma del sistema sovietico dovevano andare di pari passo. Per riuscire in questo intento egli abbozzò una visione “umanista” e riformista del comunismo capace, secondo l’ultimo segretario del Pcus, di rilanciare il modello sovietico e il movimento comunista su scala globale. Perciò abbandonò la visione staliniana dei “due campi” e propose un punto di vista che era già stato sposato in precedenza da altri comunisti riformisti. Il socialismo democratico tentò, ad esempio, di conciliare il pluralismo e il sistema a partito unico, come fatto dai riformisti a Praga nel ’68, e riprese quanto detto da Dubcek sulla possibilità di una riconnessione pacifica delle due Europe. Dall’eurocomunismo di Berlinguer, invece, Gorbačëv ereditò la visione di un mondo interconnesso e interdipendente.
In questo contesto elaborò la proposta della Casa comune europea, che teorizzava la possibilità di costruire una Europa denuclearizzata, pacifica, per certi aspetti integrata e soprattutto in grado di armonizzare le diversità sistemiche presenti al suo interno. Nel suo celebre discorso tenuto a Strasburgo nell’estate del 1989, Gorbačëv rivendicò alcuni tratti peculiari dell’Unione Sovietica che, a suo dire, non sarebbero stati abbandonati. Pure nel 1990, ben dopo la caduta del muro di Berlino, chiese a più riprese ai partner occidentali di tenere in considerazione le “differenze” tra Est e Ovest per non vanificare le prospettive aperte dalla fine della Guerra fredda. In altre parole, egli non sposò mai l’idea di copiare l’Europa occidentale, piuttosto propose una graduale convergenza che avrebbe permesso la costruzione di nuove strutture pan-europee alternative a quelle già esistenti.
Come reagì alla perestrojka il regime tedesco-orientale?
Il regime della Germania dell’Est inizialmente accolse con un certo favore la perestrojka. Del resto i primi passi di Gorbačëv erano contrassegnati da alcuni temi già cari ai comunisti: la necessità di recuperare lo scarto tecnologico con l’Occidente e la volontà di favorire un disarmo programmato. Entrambi questi punti aggiornavano l’agenda politica sovietica senza stravolgerla. Il regime tedesco-orientale fu perciò soddisfatto dell’arrivo di Gorbačëv. Le cose cambiarono all’inizio del 1987 quando il leader del Cremlino iniziò una serie di riforme politiche che avrebbero gradualmente rivoluzionato l’Urss.
Da parte loro, i conservatori come Honecker capirono meglio e prima dei riformisti intorno a Gorbačëv la fragilità del sistema sovietico e i rischi corsi a causa delle riforme. Tuttavia, la dittatura della Germania comunista fu tanto perspicace nel segnalare i pericoli verso cui andava in contro il blocco sovietico, quanto incapace di proporre una strada alternativa da percorrere.
Una volta che la perestrojka riuscì finalmente a favorire il superamento della divisione dell’Europa la dittatura della Repubblica Democratica Tedesca venne travolta nel suo immobilismo. A ben vedere, però, dopo la caduta del Muro di Berlino la perestrojka non riuscì a esercitare alcun ruolo utile per i tentativi di rinnovamento della Germania Est. Nel marzo 1990, durante le prime e uniche elezioni democratiche della Germania comunista, la Cdu di Kohl stravinse contro le formazioni politiche più sensibili ai progetti di Mosca (i post-comunisti e i socialdemocratici) rendendo inevitabile l’integrazione della futura Germania unita nella Nato e nella nascente Unione Europea. Il punto di vista di Gorbačëv, che sperava nel simultaneo scioglimento del Patto di Varsavia e dell’Alleanza atlantica, venne dunque scartato dai cittadini della Germania Est, così come il suo socialismo democratico e la sua proposta di Casa comune europea.
Quali esiti ebbe la politica di Michail Gorbačev?
L’aspetto paradossale della “vicenda Gorbačëv” è che l’Unione Sovietica non riuscì in nessun modo a giovarsi dei successi internazionali pure raggiunti tra il 1985-90. In altre parole, l’abbattimento del Muro di Berlino fu un evento ambivalente per la perestrojka, perché rappresentò un suo logico e coerente risultato che di fatto conteneva in sé i germi della rovina del progetto riformatore di Gorbačëv. Allo stesso tempo, il modo in cui si realizzò la riunificazione della Germania da una parte assecondò i desideri di Mosca nel porre termine alla divisione dell’Europa, dall’altra rese evidente la marginalità dell’Unione Sovietica nel futuro del continente. Il difficile rinnovamento proposto dai sovietici fu reso impossibile da questi sviluppi: la Germania fu così lo scenario del più grande successo politico di Gorbačëv che destinò però alla pattumiera della storia la perestrojka.
Non dobbiamo, inoltre, dimenticare i disastri economici causati dalla perestrojka in Urss. La sclerotizzazione del mercato interno, lo spreco di risorse e i ritardi burocratici si sommarono ad una ideologica avversione verso la creazione di un reale mercato libero. La crisi interna e la dissoluzione del socialismo reale nell’Europa dell’Est produssero uno scoramento generale nella classe dirigente e l’impressione generalizzata nel paese di un sostanziale fallimento del governo.
Anche se l’Urss cessò di esistere nel dicembre 1991, il comunismo era stato liquidato già nel 1990. Negli anni della perestrojka la centralizzazione e la pianificazione erano state abbandonate e, nonostante esistesse ancora la proprietà di Stato, i rapporti di forza tra pubblico e privato erano definitivamente cambiati. La glasnost’ e la democratizzazione avevano distrutto la credibilità del marxismo-leninismo, perciò l’ideologia comunista non fungeva più da tratto peculiare del paese. Nel corso del biennio 1989-90 in Germania Est si chiuse il cerchio. L’abbattimento del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca sancirono, infatti, il definitivo disgregamento dell’impero esterno sovietico e con esso lo scioglimento del movimento internazionale guidato a fatica dal Cremlino. Fenomeni globali e complessi di breve e lungo periodo, di cui la perestrojka fu contemporaneamente causa ed effetto, incrociarono le loro traiettorie determinando nel 1990 la scomparsa del comunismo in tutte le sue varianti come soggetto della storia.
Andrea Borelli è assegnista di ricerca presso l’Università della Calabria e collabora con la Fondazione Gramsci di Roma. Autore di numerosi saggi, ha insegnato Storia della Russia all’Università degli Studi di Firenze e ha partecipato a numerosi convegni nazionali e internazionali. Negli anni si è interessato alla politica estera sovietica, alla storia del comunismo e alle politiche della memoria nella Russia di Putin.