
Quali fenomeni caratterizzano l’ordine internazionale attuale?
Il mondo attuale è un mondo complesso, come d’altronde è sempre stato. In particolare, però, al giorno d’oggi abbiamo problemi importanti da risolvere, come i cambiamenti climatici, la pandemia, i processi migratori, e così via. Insomma siamo di fronte a grandi sfide globali che richiederebbero delle azioni specifiche coordinate e che mirino a trovare soluzioni che siano a loro volta globali. Tuttavia, siamo molto lontani dal trovare queste risposte. Per di più, ci sono nuove potenze (i cosiddetti “emerging powers” che in realtà non sono più tanto emergenti) che vogliono, a buon diritto, far sentire la loro voce su quanto avviene a livello globale. Penso per esempio ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che sono considerati come un blocco che spesso ha “minacciato” la leadership occidentale. In realtà io non credo che minaccino l’Occidente, credo invece che si dovrebbero assumere degli atteggiamenti, da parte dei paesi occidentali, di inclusione e di comprensione di nuove narrative di cui questi paesi, ma anche molti altri, si fanno portavoce.
Insomma il mondo attuale si trova frammentato sotto diversi aspetti. Oltre a questi problemi globali, che Kofi Annan ha definito “problems without passports” (problemi senza passaporto, e quindi problemi che non hanno frontiere e che riguardano tutti quanti noi), ci sono nuovi attori che hanno fatto irruzione sullo scenario attuale. Sicuramente delle politiche di cooperazione, piuttosto che di ostacolo, potrebbero portare ad un arricchimento delle narrative globali, a una pluralità di visioni, e a favorire maggiori azioni coordinate nei confronti delle suddette questioni globali.
Poi, ci sono altri problemi che minano l’attualità: la crescita dei populismi e dei fascismi, che alimentano delle mentalità spesso negazioniste, o antiglobaliste, promuovendo un particolarismo sovranista che non è assolutamente adatto a “combattere” le sfide che oggigiorno riguardano tutte e tutti noi.
E la lista sarebbe ancora lunga.
Insomma, come potete vedere, ci sono molti aspetti che riguardano il mondo attuale, spesso definito “disordinato”. Si tratta di cercare di trovare “un ordine nel disordine”, soprattutto perché ce lo chiede il pianeta stesso.
Per farlo, uno dei primi passi sarebbe proprio quello di una maggiore apertura alla diversità, che arricchisce ovviamente, invece di una chiusura su posizioni statiche, obsolete e autoreferenziali.
In particolare, l’Italia potrebbe avere un ruolo importante nell’aggiungere un piccolo tassello a questo ordine mondiale multipolare: quest’anno ospita il G20 e ha anche la Presidenza di questo foro internazionale….
Quali conseguenze produce la globalizzazione e in che modo essa incide sullo Stato-nazione?
Ci sono molti dibattiti aperti sulla questione, che tratto in maniera più approfondita nel libro. Sarebbe dunque riduttivo qui poter fare un sunto esaustivo riguardo a tutto quanto si è detto e si dice in merito. Posso soltanto dire che la globalizzazione ha profondamente intaccato lo Stato-nazione sia “dall’alto” che “dal basso”. Nel primo caso, la nascita di istituzioni internazionali e regionali (come l’Unione Europea) ha sicuramente comportato la cessione di buone quote di sovranità da parte dello stato. Dall’altro, i movimenti sociali, le associazioni, e tutti quegli attori che compongono la cosiddetta “società civile”, soprattutto a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, hanno iniziato ad avanzare domande sociali da parte di gruppi che volevano essere riconosciuti nel contesto statale e nella sfera pubblica più in generale, dove fino a quel momento trovavano poco spazio. Dunque lo Stato si è visto costretto a cedere anche verso il basso alcune forme di sovranità. Anche i partiti politici, tradizionali raccoglitori e amplificatori di certe istanze sociali, hanno in realtà subito un duro colpo in questo senso.
La mia idea è che comunque lo stato resta sovrano, ma diciamo così con minore possibilità di movimento rispetto a prima (tra l’altro penalizzato anche dalla forte influenza dei mercati e, più in senso lato, dal sistema capitalista). Questo stato delle cose mette in crisi la visione realista delle relazioni internazionali, che vedevano appunto nello stato il soggetto principale di azione nel contesto delle relazioni internazionali.
In ogni modo ritengo che la cessione di parte di sovranità a soggetti nuovi (istituzioni internazionali e società civile) sia una buona cosa. Prima di tutto perché così si può agire maggiormente a livello globale, e secondo perché delle quote di partecipazione vengono riconosciute anche a chi prima non aveva proprio alcuna possibilità di farsi sentire. Sicuramente, mi risulta complicato pensare che il sovranismo possa trovare risposte adeguate ai suddetti problemi senza passaporto.
Come si è sviluppato il concetto di governance?
Diciamo che la storia della governance è molto lunga. Addirittura, in base alla letteratura che ho consultato e che cito nel libro, si possono trovare alcune tracce di questo termine nella lingua greca, dove la parola kubernân veniva usata per riferirsi all’arte di tenere il timone di una nave. Ci sono presenze anche nella lingua latina e nella Francia medievale, con le rispettive accezioni. Poi, dopo esser caduto in disuso a lungo, il termine governance è ritornato ad essere utilizzato alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, quando l’economista Ronald Coase scrisse un articolo riferendosi a dei nuovi modi di intendere l’impresa: si trattava della governance d’impresa (corporate governance). Ma soprattutto Coase stava dando origine ad un nuovo ambito di studi che poi sarebbero andati sotto il nome di neo-istituzionalismo.
Tuttavia, l’accezione con cui la conosciamo oggi, e alla quale mi rifaccio nel libro, si è andata sviluppando negli ultimi decenni, durante i quali è diventato un concetto molto diffuso nel linguaggio politico contemporaneo, ma anche in altri ambiti come detto prima.
Credo che l’esigenza di descrivere la complessità del mondo attuale abbia fatto riemergere un interesse per questo paradigma, il quale viene a volte usato anche a sproposito, ma che nel fondo riflette un po’ quelle che sono le aspirazioni ad una maggiore partecipazione soprattutto per quanto riguarda problematiche che riguardano tutto il pianeta, come nel caso della global governance.
In cosa consiste la global governance?
La global governance è una delle accezioni del concetto di governance, in pratica descrive i processi di governance a livello globale. In particolare, la Commissione sulla Global Governance del 1995, la definisce come: “La somma dei molti modi in cui gli individui e le istituzioni, il pubblico e il privato, gestiscono gli affari comuni. Essa è un processo continuo attraverso il quale conflitti e interessi diversi possono essere conciliati e può essere avviata un’azione cooperativa”. Ci sono ovviamente tante letture sul significato della governance, tuttavia potremmo dire che per definizione descrive dunque questa molteplicità di interessi che oggigiorno riflettono la complessità del mondo attuale, i quali dovrebbero trovare appunto una qualche forma di armonia per poter essere gestiti.
Come specifico nel libro, la governance ha anche delle letture negative, per esempio c’è chi crede che esprima una certa confusione, vale a dire che in assenza di definizioni adeguate per descrivere il mondo attuale, si è adottata la definizione di governance per poter colmare questo voto concettuale. Io non credo che sia così, ma sono d’accordo con chi appunto la ritiene come uno strumento analitico utile per capire cosa sta succedendo nel mondo odierno. Ovviamente con i suoi limiti e le sue contraddizioni.
In che modo la governance incarna il concetto più idoneo per descrivere il funzionamento del sistema internazionale attuale?
A mio avviso, il concetto di global governance descrive in maniera più precisa il fatto che oggi come oggi ci troviamo in un contesto dove ci sono sempre più attori che agiscono a livello internazionale. Per questo ritengo che sia un concetto che possa esprimere bene la condizione attuale del mondo: una accresciuta interdipendenza e legami sempre più stretti a livello globale. Di conseguenza la governance, almeno a livello teorico, credo possa essere assunta a “mezzo” per descrivere come funziona il sistema internazionale attuale: vale a dire un sistema in cui si dovrebbe avere una partecipazione sempre più allargata ai processi decisionali. In base alla definizione della Commission on Global Governance del 1995, questo è appunto lo scopo della governance, come abbiamo detto prima. Tuttavia, nella pratica vediamo invece che non è così. Siamo ancora molto lontani dal garantire un’effettiva partecipazione, per esempio, della società civile, nei processi decisionali. Avviene per esempio che molte Organizzazioni Non Governative (ONG) vengano chiamate ad assistere durante fasi preliminari di sedute importanti, ma poi nel momento pratico il loro peso non è decisivo nel condizionare le scelte politiche. Notiamo invece che il peso maggiore durante i processi decisionali viene invece esercitato da grandi lobby o da grandi gruppi industriali, come sappiamo, e quindi la natura stessa dei provvedimenti viene “inquinata” dalla presenza di forti interessi particolari. Insomma si tratta molte volte di quel famoso business as usual che purtroppo a volte fa inceppare i processi di policy making. Se davvero si vuole sviluppare un paradigma della governance che funzioni, credo, anche sulla scorta di letture e discussioni con autori come Thomas Weiss, uno dei maggiori esperti al mondo sul tema della global governance (Thomas Weiss mi ha ospitato per alcuni mesi al Ralph Bunche Institute for International Studies a New York), che bisogna superare determinati gap che descrivo nel libro. Non è semplice, ma dovremmo concentrare molte delle nostre energie in questo senso.
Quali limiti presenta tale paradigma?
Come dicevo prima, la governance promette in teoria ciò che non mantiene in pratica. Tra l’altro ne sono stati messi in evidenza anche i limiti proprio a partire da un punto di vista linguistico. Cito per esempio Jörg Friedrichs, il quale sottolinea come il concetto di governance abbia dei punti oscuri dovuti soprattutto alla sua origine anglosassone. Da qui c’è stato chi l’ha considerata come un nuova illusione, vale a dire un concetto che voleva rappresentare una novità e una maggiore partecipazione, ma che nel fondo nasconde aspetti dubbi che riproporrebbero, se si analizzano a fondo le dinamiche, un riaffermarsi di vecchie forme di egemonia (da parte soprattutto degli Stati Uniti) che si presentano con volti nuovi. Insomma, cambia la superficie ma le trame nel fondo sono le stesse che sono state create a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.
In questo senso credo che la rivendicazione da parte dei BRICS di riformare la governance, in modo da rispecchiare il mondo multipolare che di fatto esiste oggigiorno, sia fondamentale per la governance stessa.
Ritengo inoltre che la governance proprio perché in teoria può essere un concetto validissimo, dovrebbe diventarlo anche in pratica. E quindi è nostro compito richiedere maggiore democrazia, maggiore partecipazione, maggiore risoluzione di problematiche globali che ci riguardano da vicino.
È possibile trovare risposte globali ai problemi globali?
Purtroppo la realtà ci mostra che c’è ancora molta strada da fare. Per esempio, se consideriamo le istituzioni internazionali, e l’ONU in primis, esistono dei limiti strutturali che ne minano il corretto funzionamento e che impediscono quindi a questo organismo di agire davvero come istituzione globale. Per esempio, una delle riforme più urgenti sarebbe quella del Consiglio di Sicurezza, che come sappiamo è composto da cinque paesi che hanno diritto di veto e che possono quindi, potenzialmente, bloccare delle risoluzioni che potrebbero essere vantaggiose per tutti. Anche l’Unione Europea avrebbe bisogno di una bella riforma, come, tra gli altri, ha indicato Philippe C. Schmitter già da un bel po’.
E io credo che il primo passo verso la risoluzione di problematiche globali sia proprio questo: cercare di rendere più democratiche e inclusive le istituzioni internazionali, anche se c’è ancora molta strada da fare in questo senso e di sicuro non è un proposito semplice da attuare.
Tuttavia, se non si provvede a dare un nuovo input a queste questioni, si può cadere in diverse problematiche: per esempio, i BRICS di cui parlavo prima, stanchi per non avere lo stesso peso di altri paesi occidentali all’interno di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, hanno dato origine a una nuova banca, la New Development Bank (NDB) con sede a Shanghai, all’interno della quale hanno stabilito un sistema di quote paritario, esercitando di conseguenza lo stesso peso decisionale, e agiscono a volte anche in maniera più rapida rispetto al FMI (come per esempio durante la pandemia). Per non parlare della cinese AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), che si occupa di investimenti in infrastrutture e che finanzia progetti che in altre sedi avrebbero un iter burocratico lunghissimo prima di essere approvati. Tra l’altro la AIIB ha aperto le sue porte anche a diversi paesi occidentali, tra cui l’Italia, creando non poche rimostranze da parte degli USA.
Per carità, io credo che sia importante anche la presenza di banche e istituzioni regionali, ma per affrontare le problematiche globali abbiamo bisogno di istituzioni globali che facciano, diciamo così, da “supervisori”. Abbiamo bisogno di un vero e proprio “parlamento dell’uomo” per usare l’espressione del libro di Paul Kennedy.
Francesco Petrone (1981) è dottore di ricerca in Filosofia Politica, specializzato in global governance e global politics, presso la UB di Barcellona. Ha tenuto corsi di Geopolitica e Relazioni Internazionali all’università, coordinato il Seminario di Filosofia Politica della UB, e attualmente insegna Filosofia e Storia al Liceo. È stato Visiting Research Fellow alla City University di New York e al BRICS Policy Center di Rio de Janeiro. È laureato in Filosofia e Storia a Napoli e in Scienze Politiche a Bruxelles. Oltre a diversi articoli scientifici in riviste internazionali (alcuni dei quali consultabili sul suo profilo di “academia.edu”: https://ub.academia.edu/FrancescoPetrone), ha pubblicato i seguenti libri: Quando la onlus diventa un guadagno. Tecniche per arricchirsi salvando i bambini (Aracne, 2012) e Confessioni di un venditore di povertà. Solidarietà e aiuti umanitari in epoca di crisi (GoWare Edizioni, 2014). Di recente ha anche pubblicato un romanzo dal titolo Le vene della mia terra (Bookabook, 2020).