
Sette personaggi che non avevano avuto ruoli di protagonisti assoluti ma che avevano rivestito cariche importanti sia a corte che nell’esercito, nella diplomazia, nell’amministrazione. Sette personaggi che, per la maggior parte avevano lasciato numerose testimonianze scritte. In effetti se siamo così bene informati su di loro, ciò dipende dal fatto che avevano parlato di sé nelle forme letterarie più diverse: memorie, lettere, poesie. E di loro parlano ugualmente le cronache, le memorie e le lettere dei contemporanei.
In aggiunta questi sette personaggi avevano all’incirca la stessa età, erano amici tra di loro o si conoscevano da lunga data, frequentavano gli stessi ambienti, condividevano gli stessi interessi, perseguivano le stesse ambizioni e corteggiavano le stesse donne. Appartenevano tutti all’antica nobiltà di spada e possedevano le prerogative di cui essa più menava vanto: la fierezza, il coraggio, l’eleganza dei modi, la cultura, lo spirito, l’arte di piacere. Consapevoli dei loro atout, e decisi a strappare l’applauso, rispondevano perfettamente alle esigenze di una società profondamente teatrale in cui era d’obbligo sapere tenere la scena.
Furono anche maestri nell’arte della seduzione e i molti successi galanti riscossi con le dame del bel mondo non impedirono loro di praticare il libertinaggio nella sua accezione più ampia. Ma se li ho chiamati gli ultimi libertini è per l’ambivalenza di significato. Furono in effetti “libertini” nell’accezione che la parola ebbe nel Seicento, vale a dire dei liberi pensatori, ma anche libertini nell’accezione settecentesca, vale a dire di seduttori seriali, come il Dom Juan di Molière e il Don Giovanni di Mozart. Ma per tutti loro la volontà di sedurre non era finalizzata solo alla conquista amorosa ; piacere, divertire, rendersi gradevole in società era innanzitutto un obbligo sociale che investiva in egual modo uomini e donne che prendevano parte alla vita mondana. Messa a punto di generazione in generazione fin dai primi decenni del XVII secolo, questa “massimizzazione” del piacere -come l’ha definita Jean Starobinski- avrebbe in effetti raggiunto il suo apice nel decennio precedente alla Rivoluzione.
Ricordo solo brevemente chi erano i sette personaggi rispondenti ai connotati che vi ho enumerato e su cui è caduta la mia scelta.
Il duca di Lauzun, l’ultimo dandy dell’Antico Regime, bello, seducente, ambizioso, celebre per il suo coraggio sui campi di battaglia, e profondamente patriota. Il conte di Ségur, non meno ambizioso di Lauzun ma più duttile e propenso alle metamorfosi, ambasciatore di Luigi XVI presso Caterina di Russia (che avrebbe accompagnato nel celebre viaggio di presa di possesso della Crimea)- poi maestro delle cerimonie di Napoleone, e, infine, senatore sotto la Restaurazione, ma anche memorialista e storiografo di vaglio.
Il visconte di Ségur, fratello minore del conte, poeta, romanziere, memorialista, autore di teatro che aveva invece appuntato la sua ambizione nella vita di società assicurandosi il ruolo di arbitro di eleganza e di bon ton e distinguendosi ugualmente per i suoi molteplici amori. Il duca di Brissac, gran signore celebre per la sua generosità e il suo fasto, amico personale di Luigi XV, governatore di Parigi, cavalleresco amante della contessa di Barry, morto al servizio di Luigi XVI. Il conte di Narbonne, figlio naturale di Luigi XV, educato a corte come un principe , bello, colto, ambizioso, che maturerà la passione della politica nel salotto di Madame de Stael di cui sarà il primo grande amore. L’irresistibile conte di Vaudreuil, che in anticipo di una quarantina d’anni su Chateubriand si sarebbe assicurato il soprannome di Enchanteur in virtù non già del suo talento letterario bensì delle sue feste splendide e della sua estrema capacità di piacere. Amante della bella duchessa di Polignac, amica del cuore di Maria Antonietta, ne avrebbe approfittato per fare incetta per sé e per la famiglia di Polignac di onori, cariche e appannaggi di ogni genere. Ma cortigiano intrigante e rapace a Versailles, Vaudreuil si rivelava un mecenate illuminato a Parigi, puntando sul talento di David e della pittura neoclassica e ospitando a casa sua, a dispetto delle sue convinzioni rivoluzionarie, l’amico Chamfort, vale a dire l’ultimo dei grandi moralisti classici che avrebbe lanciato contro la società aristocratica d’Antico regime una condanna senza appello. Infine, ultimo dei miei sette eroi, il cavaliere di Boufflers , discendente di una grande famiglia della nobiltà di spada, ma, come figlio cadetto, destinato alla chiesa. Dopo un anno di seminario, avrebbe gettato la tonaca alle ortiche e, diventato cavaliere dell’ordine di Malta, si sarebbe dedicato felicemente alla poesia, all’amore, ai viaggi, fin quando innamoratosi di una giovane vedova, la contessa di Sabran, avrebbe accettato, per poterla poi sposare, di diventare governatore del Senegal. Dall’inferno della colonia africana che serviva alla Francia come luogo di incetta e di smistamento per la tratta degli schiavi, Boufflers avrebbe scritto ogni giorno a Madame de Sabran trovando parole sempre nuove per dirle quanto la amava e quanto avesse bisogno del suo amore e per farle sentire, a migliaia di chilometri di distanza il desiderio che provava per lei, dando vita alla più bella corrispondenza amorosa del Settecento.
Quale clima culturale e politico caratterizzava la salita al trono di Luigi XVI?
Come si può capire dal sommario identikit che ho tracciato dei miei libertini, ciascuno di loro aveva perseguito il piacere del vivere in perfetta sintonia con la morale settecentesca che vedeva nella felicità su questa terra la vocazione primaria dell’uomo. La Costituzione americana non ne aveva fatto uno dei diritti dell’individuo? Ma effettivamente la giovinezza dei miei sette eroi aveva coinciso con un momento storico particolarmente favorevole all’ottimismo. “È sempre bello avere vent’anni, ha scritto di loro Sainte-Beuve; ma niente era più bello che averli proprio nel 1774, quando l’avvento al trono di Luigi XVI sembrava annunciare l’inizio di una nuova epoca che avrebbe consentito a quei “principi della giovinezza” di avanzare “al passo con il loro tempo e in perfetta armonia con il mondo circostante”. E a spiegarci le ragione di tanta euforia sarà, quarant’anni dopo, il conte di Ségur che ricordava nelle sue Memorie:
“Ci prendevamo gioco delle antiche usanze, dell’orgoglio feudale dei nostri padri e della solennità della loro etichetta pur, pur continuando a godere di tutti i nostri privilegi. Libertà, regalità, democrazia, pregiudizi, ragione, novità, filosofia, tutto concorreva a rendere i nostri giorni felici, e mai risveglio più terribile fu preceduto da sogni più seducenti”.Ma quando Ségur pubblicava i suoi ricordi in piena Restaurazione sentiva la necessità di giustificare le convinzioni liberali e riformiste della sua giovinezza, giudicate allora responsabili di avere favorito l’avvio della Rivoluzione e il bagno di sangue che ne era seguito. Ma le cose non erano andate esattamente così.
Il conte di Ségur, come il visconte suo fratello, come Lauzun, Brissac, Boufflers, Narbonne, erano figli della cultura dei Lumi, e dunque perfettamente consapevoli della necessità di riforme capaci di mettere il sistema ormai obsoleto della monarchia assoluta al passo con i tempi. Avevano tutti come modello la monarchia costituzionale inglese e, in aggiunta, la guerra d’indipendenza americana a cui la Francia aveva dato il suo sostegno e per la quale Ségur e Lauzun si erano battuti, aveva dimostrato loro che un paese in cui tutti i cittadini erano uguali e decidevano delle leggi e delle persone da cui volevano essere governati non era una utopia libresca ma una realtà che riempiva i cuori di speranza. E come figli dei Lumi, i miei libertini non erano solo (per usare le parole di Chamfort) dei “prodotti perfezionati” della civiltà aristocratica, erano anche degli irriducibili individualisti che volevano essere i grado di forgiare il loro destino.
Dotati di una sorprendente energia e della capacità di spaziare dalla politica all’economia, dalla letteratura all’arte, rimanendo in primo luogo dei soldati, i miei sette volevano vedere riconosciuti i loro meriti, ma nella monarchia assoluta il merito personale era un fattore irrilevante per fare carriera. Ma non furono solo delle ragioni personali a fare prendere loro le distanze dalla politica di Versailles. L’esperienza acquisita nell’esercito, nell’amministrazione, nella diplomazia e il paragone con gli altri paesi , li persuasero che per rispondere alla crisi politica, economica e sociale che minacciava la Francia, la monarchia doveva cambiare di metodi e dotarsi di nuove istituzioni. Per questo, tutti loro, fatta eccezione di Vaudreuil, non solo salutarono con entusiasmo la convocazione degli Stati Generali ma si adoperarono con tutte le loro energie a renderla possibile.
Per questo gli anni che avevano preceduto il 1789 erano stati i più felici della loro vita. Invece di ripiegarsi sui privilegi di una nobiltà di corte decadente e oziosa che aveva perso il senso della sua missione, i personaggi da me studiati avevano puntato sull’impegno intellettuale e politico e, decisi ad occupare i primi posti, si erano battuti per un mondo nuovo, più libero e più giusto, senza per questo rinunciare alla loro allegria, al loro edonismo, al loro stile di gran signori.
Non era precisamente a questo ottimismo, a questa euforia contagiosa di poter incidere sulla realtà, di prendere parte a un dibattito politico che fino ad allora era stata prerogativa esclusiva del re e dei suoi ministri, non era a questa felice e volatile alchimia che si riferiva Talleyrand parlando del piacere del vivere di quegli anni? “ Mai, avrebbe confermato Jacques de Norvins, mai non dico la società ma la socievolezza risplendette di maggior fulgore e procurò maggior piacere che a quell’epoca…a Parigi una miriade di grandi case aprivano quotidianamente i loro battenti”, e i mondani si lanciavano ora nelle speculazioni politiche più audaci, pronti a trasformare la Francia in un paese d’utopia. Ma con il sopraggiungere del 1789 il monopolio della parola sarebbe passato all’oratoria pubblica finalmente risorta, dopo un lungo silenzio, sui banchi dell’Assemblea Nazionale.
Cosa ne fu di loro nella nuova società figlia della Rivoluzione?
Mentre subito dopo la caduta della Bastiglia, Vaudreuil e la famiglia Polignac lasciavano precipitosamente la Francia, Narbonne, Lauzun, Brissac, Boufflers e i due fratelli Ségur non si limitarono alle discussioni teoriche ma partecipavano attivamente alla vita politica prendendo strade diverse.
Alla caduta della monarchia Lauzun rimase al suo posto di generale per difendere l’indipendenza della Francia ma inviato in Vandea diede le dimissioni e finì sulla ghigliottina; il duca di Brissac morì fatto a pezzi dalla plebe scatenata. In compenso, i due fratelli Ségur, Narbonne, Boufflers e Vaudreuil sopravvissero al Terrore.
Ciascuno portava nel cuore il lutto dei parenti, degli amici, dei conoscenti morti sul patibolo, la consapevolezza di non avere realizzato il proprio destino e il senso di colpa per essere sopravvissuti alla scomparsa di un mondo intensamente amato e di cui avevano contribuito ad accelerare la fine. Tutti, però, quali che ne fossero state le convinzioni, le responsabilità e le debolezze, avevano saputo affrontare il pericolo, la povertà e l’esilio, tenendo alta la tradizione di coraggio e di stoicismo della loro casta. E ora che rincominciavano a vivere in una società nuova, in cui cercavano di trovare un posto, si fecero un punto d’onore di testimoniare, con la loro cortesia squisita, l’eleganza dei modi e l’imperturbabile buonumore, la fedeltà a una civiltà aristocratica di cui sapevano di essere tra gli ultimi interpreti.