
di Aldo Grandi
Chiarelettere editore
«Molti dissero e scrissero, sin da quando fu identificato il cadavere e nei mesi e anni a venire, che Giangiacomo Feltrinelli era stato assassinato. Accade ancora oggi, a cinquant’anni di distanza. Su quali basi abbiano potuto sostenere questa tesi non è dato saperlo, se non ricorrendo alla solita dietrologia […]. Ovvio che un Feltrinelli ucciso dai neofascisti, o meglio ancora dai servizi segreti, magari dalla Cia, avrebbe reso la storia molto più allettante, per alcuni soprattutto più adatta a essere strumentalizzata. Ma avrebbe tolto al personaggio il diritto di essere riconosciuto per quello che è stato. Chi invece non ebbe alcun dubbio fu proprio il magistrato che aveva condotto l’inchiesta e che il 22 marzo 1975 firmò la requisitoria. […]
«È stato accertato che egli era «vivo e vegeto» quando si recò a Segrate. La sera del 14 marzo Feltrinelli, però, non doveva essere solo: dal suo taccuino si arguisce che aveva un appuntamento intorno alle 20.30 con due personaggi mai identificati e indicati come Merx e Gallo Bruno. È facile presumere che furono queste due persone ad accompagnarlo a Segrate. Quel che avvenne al traliccio 71, allo stato, è possibile solo ipotizzarlo. Resta comunque il fatto che Feltrinelli si recò a Segrate volontariamente. Al momento dello scoppio era sicuramente vivo e in condizioni normali: non era stato né drogato, né addormentato.»
Oggi, a mezzo secolo da quella sera, l’ipotesi può essere ormai considerata una certezza indissolubile e indiscutibile. Se qualcuno, per qualsiasi motivo, non volesse ancora convincersene, la lettura delle conclusioni cui pervenne il collegio peritale medico legale è destinata a fugare ogni residuo dubbio:
«Mancano elementi per poter stabilire il momento della morte di Giangiacomo Feltrinelli anche per la insufficienza dei dati tanatologici acquisiti subito dopo il rinvenimento della salma. La causa della morte è da identificare in una anemia emorragica acuta da sfacelo dell’arto inferiore destro. Le lesioni sfacelative conseguenti alla esplosione sono state prodotte in corpo vivo. Tutte le lesioni riscontrate risultano prodotte in limine vitae e pertanto in coincidenza, o immediata successione cronologica, rispetto al verificarsi dell’esplosione. Le lesioni craniche e meningoencefaliche, come lo sfacelo degli arti e le lesioni tegumentarie toraciche, vanno attribuite all’azione immediata dell’esplosione; la ferita al cuoio capelluto, le lesioni fratturative toraciche, sono da attribuire a un urto su ampia superficie come per proiezione contro strutture del palo a tralicci o caduta al suolo; analogo meccanismo è da ritenere abbia prodotto la frattura dell’avambraccio.»
Non sono state riscontrate lesioni, al di fuori di quelle direttamente cagionate dall’esplosione, idonee a provocare la morte o infermità gravi. E basterebbero queste poche parole a destituire di ogni fondamento le supposizioni degli esperti di terrorismo e dei criminologi che si lanciarono in fantasiose ricostruzioni di stordimenti e aggressioni, o addirittura omicidi precedenti lo scoppio dei candelotti di dinamite. Ma non è tutto. Ci fu anche chi sostenne la tesi secondo cui l’editore sarebbe stato drogato prima di essere condotto o di recarsi a Segrate:
«Le indagini chimicotossicologiche sono risultate negative per la presenza di tracce di sostanze stupefacenti o comunque di sostanze che al momento della morte potessero svolgere azione tossica o comunque azione farmacologica di rilievo.»
Anche i periti balistici, nel supplemento di perizia disposto dal giudice istruttore, propendevano per la tesi dell’errore e affermavano che, se accompagnatori ci fossero stati, questi sarebbero dovuti rimanere feriti. Cosa che in effetti avvenne, solo che furono curati da medici compiacenti. Continuava Viola nella sua arringa:
«Molti hanno sostenuto che era puerile andare a minare personalmente il traliccio (per giunta in maniera tanto poco professionale) portandosi, addirittura, tra le carte del portafogli, una foto di Sibilla Melega e del figlio Carlo, quasi a voler facilitare al massimo l’identificazione. A costoro rispondiamo che, invece, è senz’altro possibile. Dalle varie testimonianze raccolte sul conto del Feltrinelli («se un giorno sotto un ponte troverete il cadavere di un uomo nudo, quel cadavere è il mio» andava dicendo da un po’ di tempo agli amici) emerge una personalità contorta, di un uomo che era sempre più solo, che cambiava spesso idea, infiammandosi per essa per passare, quindi, facilmente allo sconforto. Negli ultimi tempi, poi, era ossessionato, inquieto, irascibile, quasi intrattabile. Diffidente di tutto e di tutti, Feltrinelli era, in ultima analisi, un uomo timido e frustrato e, soprattutto, con una spaventosa carenza affettiva: si spiega in tal modo come il terrorista «Maggioni Vincenzo» si portasse nel portafogli la foto di Sibilla Melega e del figlio Carlo.»
Un ritratto psicologico che avrebbe fatto proseliti anche in seguito, teso a dipingere l’ex editore come una specie di fenomeno da baraccone vittima e preda dei suoi drammi e delle sue contraddizioni esistenziali. In realtà Giangiacomo Feltrinelli, al di là degli scompensi legati a un’infanzia e a un’adolescenza sicuramente inquiete e prive di calore materno e umano, vide concludersi la sua vita né più né meno come se fosse giunto, in quel momento, al termine del proprio viaggio. Come se, qualora questo non si fosse concluso tragicamente quel 14 marzo 1972, lo avrebbe presto atteso un altro appuntamento analogo con il destino, senza possibilità di fuga. Ciò proprio perché paradossalmente Feltrinelli, sin da quando aveva scelto di salire in montagna con i partigiani grossetani, venendo poi riacciuffato e riportato a casa, aveva fatto una ben precisa scelta di campo. E quella decisione, con il passare degli anni e l’evolversi della situazione internazionale e interna, lo condusse a imbracciare più o meno metaforicamente il fucile nel tentativo di rovesciare quel sistema al quale, pur con mille incoerenze, sentiva di non voler appartenere.
La sua morte non fu altro che l’inevitabile […] fine di un uomo che era disposto a pagare qualunque prezzo e a adottare qualunque strumento per abbattere l’avversario, quello stesso nemico che a causa della sua storia personale albergava da sempre dentro di lui. Altro che macchietta, quindi, anche se ricco di contrasti e di ingenuità: un sognatore e rivoluzionario in un’epoca in cui i sogni potevano ancora realizzarsi, anche quelli più estremi, ma dove le rivoluzioni, purtroppo o per fortuna, non avevano più diritto di cittadinanza […].
Come realmente andarono le cose crediamo sia ormai un dato acquisito […]. Non ci furono personaggi misteriosi, agenti segreti e spie infiltrate chissà come e chissà perché. Nessuno le ha incontrate, nessuno le ricorda, nessuno, soprattutto, ne ha mai sentito parlare tra coloro che furono i protagonisti diretti e indiscutibili di questa tragedia tutta italiana […].
La morte non lascia spazio né scampo all’assenza e qualunque verità, persino la più evidente e manifesta, non riuscirà mai a colmare il senso di vuoto e il sospetto, o la speranza, che essa sia stata provocata da qualcuno e non, come invece accadde, scelta di proposito e infilata nella lista dei possibili effetti collaterali. Accettarlo significherebbe dover ammettere che per quell’uomo, per Feltrinelli in questo caso, la sua determinazione, la sua volontà, la sua disponibilità a mettersi in discussione e a rischiare tutto quel che aveva, affetti compresi, erano superiori a qualunque richiamo. Una conclusione devastante e deprimente, forse, ma anche rispettabile: ogni uomo, in fondo, è ciò che fa, e Feltrinelli, nei suoi quarantasei anni di vita, ha fatto molto, ben più dei candelotti di dinamite che posero fine, in quella serata piovosa e uggiosa di tardo inverno, alla sua esistenza senza dubbio intensa ed esasperata.»