“Gli Stati Uniti e il Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento. Relazioni commerciali, culturali e diplomatiche” di Sebastiano Marco Cicciò

Prof. Sebastiano Marco Cicciò, Lei è autore del libro Gli Stati Uniti e il Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento. Relazioni commerciali, culturali e diplomatiche edito da Rubbettino: quali sentimenti caratterizzarono le relazioni tra Stati Uniti e Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento?
Gli Stati Uniti e il Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento. Relazioni commerciali, culturali e diplomatiche, Sebastiano Marco CicciòSoprattutto dopo aver risolto la questione dei risarcimenti per i sequestri delle navi mercantili americane avvenuti durante il regno di Gioacchino Murat, da un punto di vista formale i rapporti tra i due paesi furono sempre molto cordiali. Ciò fu in gran parte per merito della preparazione e della levatura intellettuale di coloro che ressero sia la legazione americana a Napoli che il dicastero degli Esteri napoletano. La corte ripetutamente espresse la volontà di mantenere le migliori relazioni con quella che considerava una potenza di prima classe al pari di Russia, Austria, Inghilterra e Francia. Anche se fino al 1845, nonostante i ripetuti tentativi, non si giunse alla firma di alcun trattato, le relazioni commerciali si svilupparono subito e in modo molto vivace. Nell’Ottocento, gli USA erano al primo posto tra gli acquirenti di agrumi siciliani, al secondo posto, dopo l’Inghilterra, per il vino e al terzo posto, dopo Inghilterra e Francia, per lo zolfo. Due prodotti del regno particolarmente richiesti oltreoceano erano il Marsala, prodotto e commercializzato dagli imprenditori britannici e molto apprezzato dal presidente Jefferson, e le sete da cucire napoletane che, grazie alla migliore qualità, venivano vendute a un prezzo superiore di quelle francesi e cinesi. Altrettanto rapida fu la crescita della rete consolare e diplomatica: tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, nel regno di Napoli furono aperti tre consolati americani (più che negli altri Stati italiani) che, affiancati dalle agenzie consolari nei centri di maggior interesse commerciale, rimasero sempre in attività, anche nei turbolenti anni delle guerre napoleoniche. Nel 1825, fu nominato il primo console napoletano negli USA, con sede a Washington. I rappresentanti diplomatici americani inviarono però frequenti lamentele al Dipartimento di Stato contro la politica protezionista dei Borbone, gli intralci posti al commercio, il regolamento di quarantena, gli abusi compiuti dalla polizia nei confronti dei connazionali e, soprattutto, contro la totale chiusura della corte alle richieste del movimento liberale che accresceva il malcontento della popolazione e metteva il regno, e in special modo la Sicilia, costantemente a rischio di una rivoluzione che avrebbe pesantemente danneggiato gli interessi mercantili americani.

Quale interesse suscitavano gli Stati Uniti nel regno borbonico?
Sin dall’epoca della rivoluzione, gli intellettuali napoletani manifestarono un vivo interesse per le vicende americane ed espressero un’ammirazione per la lotta delle tredici colonie in cui non era estraneo lo spirito massonico diffusissimo nel regno. Francesco Maria Pagano, nella relazione per il progetto di costituzione della Repubblica partenopea, scrisse che gli Stati Uniti erano la nazione che più aveva fatto «gran passi verso la libertà» e Gaetano Filangieri, che intrattenne una lunga amicizia con Benjamin Franklin, ricca di stimoli e influssi reciproci, li considerò «il solo paese ove io possa esser felice». Anche in Sicilia, la storia e le istituzioni americane furono studiate con attenzione da intellettuali di grande livello e protagonisti del movimento rivoluzionario del Quarantotto, come Vito D’Ondes Reggio, Francesco Ferrara e Michele Amari, quest’ultimo autore della prefazione a una ristampa della Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America di Carlo Botta. Essi guardarono con entusiasmo al di là dell’Atlantico, offrendo ai lettori l’esempio dei progressi politici, economici e sociali della giovane repubblica, ma non nascondendone i difetti, prima fra tutti la schiavitù che, come scrisse profeticamente D’Ondes Reggio, rischiava con «ingente conflagrazione» di causare con la fine stessa dell’Unione. L’adesione della maggior parte dei siciliani al programma federale, come unica forma di governo che potesse stabilirsi tra gli Stati italiani, rese gli Stati Uniti un costante modello di riferimento, pur se più su di un piano ideale che su quello della concreta esperienza costituzionale.

In che modo i rapporti tra gli Stati Uniti e il Regno delle Due Sicilie si inseriscono nella rete di relazioni commerciali e diplomatiche che la giovane repubblica iniziò a tessere nei decenni successivi all’indipendenza?
Quella americana, sin dalle origini, appare essere una nazione essenzialmente mercantile le cui sorti erano legate alla possibilità di estendere e ampliare i traffici commerciali. Isolazionisti per quanto riguardava le relazioni politiche con le altre nazioni, gli uomini dell’età della rivoluzione erano invece convinti espansionisti nei rapporti commerciali ritenendoli il mezzo più sicuro di progresso, libertà e pace tra tutte le nazioni. La rivendicazione della neutralità e la tutela e la promozione del commercio rappresentarono da subito gli obiettivi fondamentali della politica estera americana, in un intreccio che rese spesso inestricabile il nesso tra commercio e diplomazia, tra funzioni consolari e funzioni più propriamente diplomatiche dei suoi rappresentanti all’estero. Da un punto di vista strettamente economico, il Mediterraneo, pur se conosciuto e praticato dai mercanti sin dall’epoca coloniale, restò sempre per gli Stati Uniti un’area di non primaria importanza, tuttavia essi insistettero in una politica di presenza in quelle acque che fosse strumentale a ottenere nei confronti dello strapotere mercantile francese e soprattutto inglese, il riconoscimento del nuovo status di attore indipendente. Da qui, i tentativi di allacciare rapporti di stretta collaborazione con le “potenze minori”, come il regno delle Due Sicilie, più interessate alla difesa dei diritti dei neutrali. Tuttavia, quando nel 1784 a Parigi i commissari americani proposero un trattato di amicizia e commercio ai rappresentanti napoletani, mostrando questi una diffidenza “tutta europea” nei confronti del nuovo Stato e non intuendo, come del resto la maggior parte delle altre corti, le grandi potenzialità dei traffici oceanici, nessun accordo potè essere raggiunto.

Quale ruolo ebbero i porti dell’Italia meridionale e della Sicilia nella guerra combattuta dagli Stati Uniti per la libertà dei mari contro gli Stati barbareschi?
La vittoriosa guerra contro la pirateria praticata dagli Stati barbareschi dell’Africa settentrionale e il periodo del blocco continentale durante il quale quella americana fu l’unica grande marina mercantile neutrale tra gli schieramenti contrapposti modificarono, rafforzandolo notevolmente, il ruolo e la presenza degli Stati Uniti nel mar Mediterraneo. All’inizio delle ostilità con la reggenza di Tripoli nel 1805, re Ferdinando, alla luce dei buoni rapporti che si erano consolidati nel ventennio precedente e incidendo la guerra di corsa in maniera devastante sul commercio del regno, concesse agli americani la facoltà di utilizzare come basi navali i porti di Messina, Palermo e Siracusa e in quest’ultima città essi stabilirono il loro quartier generale. Per l’economicità e la rapidità con cui venivano eseguiti i lavori di riparazione delle navi, durante le operazioni la marina americana trovò inoltre di grande utilità servirsi spesso dell’arsenale di Messina. Su richiesta del commodoro Preble, Napoli prestò un centinaio di marinai e alcune bombarde e cannoniere che, equipaggiate gratuitamente con armi e munizioni, diedero un contributo importante nel decisivo assedio del porto di Tripoli. Dalla fine delle guerre barbaresche fino allo scoppio della guerra civile, una squadra di navi da guerra americane fu sempre mantenuta nel Mediterraneo con il compito di tenere sotto controllo gli Stati barbareschi, proteggere il commercio e “mostrare la bandiera”. Proprio nel bacino gli americani presero, infatti, consapevolezza che la politica di neutralità disarmata immaginata dai Padri fondatori – prima della guerra con Tripoli, gli USA non possedevano una flotta militare – non avrebbe potuto legittimare e sostenere la loro propensione all’espansionismo commerciale su scala mondiale e riconobbero l’importanza di una forte marina nazionale come un vero e proprio strumento di politica estera, cioè quella dottrina del sea-power poi definitivamente fatta propria alla fine del XIX secolo.

Quale posizione mantennero gli Stati Uniti dinanzi alle vicende risorgimentali?
Gli americani, sia che rivestissero un ruolo ufficiale sia che fossero semplici osservatori, considerarono la battaglia per l’unità nazionale in Italia come parte di quella lotta globale contro tutte le forme di dispotismo e per l’affermazione dell’indipendenza e dell’autogoverno di cui essi si sentivano iniziatori e fonte di ispirazione. Si era convinti che parteggiare o persino prendere le armi e combattere per la libertà di un popolo significasse promuovere la causa della libertà in assoluto. Soprattutto a partire dalle rivoluzioni del Quarantotto, le corrispondenze dei giornali, i diari dei viaggiatori e la propaganda degli esuli mantennero sempre viva negli Stati Uniti l’attenzione per le vicende del Risorgimento italiano; furono organizzate adunanze, sottoscrizioni e raccolte di fondi per inviare un aiuto concreto a chi stava combattendo. Mentre la crisi interna dell’Unione diventava sempre più grave, per alcuni, come la giornalista Margaret Fuller Ossoli, le vicende italiane rappresentarono uno spostamento di quella ricerca della libertà che sembrava sul punto di naufragare in patria. Tuttavia, non mancò neanche un certo scetticismo sul fatto che gli insorti italiani, e specialmente i meridionali, possedessero sia un’adeguata organizzazione militare che la disciplina politica e le virtù civiche necessarie a fondare e a mantenere le istituzioni democratiche, specie quelle di una repubblica. Da parte sua, il governo di Washington, pur non nascondendo la personale simpatia per gli oppressi di tutte le nazioni, continuava a raccomandare ai propri rappresentati diplomatici e ai capitani delle navi in servizio nel Mediterraneo di mantenersi in uno stretto neutralismo, fedele ai dettami della dottrina Monroe ma informato e capace di difendere il libero commercio. Per questo motivo, i ministri americani a Napoli più volte lamentarono le indebite ingerenze dei colleghi inglese e francese negli affari interni del regno, ma riconobbero che, per riportare la calma in una popolazione sempre più scontenta e irrequieta, sarebbero stati necessari un cambiamento radicale nella politica del governo e l’inizio delle riforme, ma di questo al momento non si vedeva alcuna traccia. Un ampio consenso oltreoceano ricevette la spedizione nel Regno delle Due Sicilie di Giuseppe Garibaldi, un personaggio che godette sempre la più grande popolarità al punto da essere conosciuto come il “Washington d’Italia”. Dagli USA furono inviati in Italia armi, vettovaglie e contanti per un totale di circa 100.000 dollari e numerosi americani, militari di carriera o volontari, si unirono alle camicie rosse, come altrettanto numerosi furono i picciotti di Garibaldi che, delusi per la dissoluzione dell’esercito meridionale dopo il 1860, si arruolarono nelle truppe dell’Unione durante la guerra civile. In occasione del plebiscito che, con un’ampissima maggioranza, approvò l’annessione delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, un grande ricevimento si tenne a New York per celebrare la resurrezione della Penisola. La nomina a re d’Italia di Vittorio Emanuele II da parte del Parlamento il 17 marzo 1861 fu unanimemente applaudita perché «nessun sovrano contemporaneo ha dimostrato qualità d’animo più nobili e una migliore disposizione ad ascoltare la voce e il volere del popolo».

Sebastiano Marco Cicciò è professore a contratto di Storia Contemporanea presso l’Università LUMSA di Roma. È dottore di ricerca di Storia dell’Europa mediterranea, è stato Visting Researcher alla Georgetown University di Washington, assegnista e professore a contratto all’Università di Messina. Fra le sue pubblicazioni: Al centro del Mediterraneo. Le relazioni commerciali e diplomatiche tra Messina e gli Stati Uniti 1784-1815 (RiMe, 2014); Il porto di imbarco di Messina. L’ispettorato e i servizi di emigrazione (1904-1929) (Franco Angeli, 2016); Stati Uniti e la Sicilia: idee e uomini in viaggio sull’Atlantico in «Quaderni di Storia dell’Europa mediterranea» (Rubbettino, 2019).

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