“Gli ordini mendicanti. Il secolo delle origini” di Maria Teresa Dolso

Prof.ssa Maria Teresa Dolso, Lei è autrice del libro Gli ordini mendicanti. Il secolo delle origini edito da Carocci: in quale contesto storico e religioso nascono gli ordini mendicanti?
Gli ordini mendicanti. Il secolo delle origini, Maria Teresa DolsoGli ordini mendicanti, se pure con qualche scarto temporale gli uni dagli altri, nascono all’inizio del Duecento in un contesto religioso, politico e sociale complesso e articolato. Sotto il profilo religioso, il problema più grave che la Chiesa stava affrontando è senza dubbio costituito dell’emergenza ereticale. Nel corso del XII secolo quelle istanze e quelle esigenze alle quali la chiusura del vivace periodo della riforma della Chiesa nell’XI secolo aveva impedito di dare risposte adeguate, insieme al nodo irrisolto di un’efficace cura pastorale, avevano prodotto un’attenzione e una sensibilità ad un annuncio cristiano che intendesse realizzarsi attraverso la rinuncia agli strumenti del potere e del possesso. Si trattava di una linea di presenza e di azione estranea alle istituzioni ecclesiastiche, che fondava la propria forza sul messaggio evangelico, su quello che Chenu, alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, definiva ‘risveglio evangelico’. Scelta pauperistica, rinuncia, predicazione itinerante, radicalità dell’esperienza evangelica configurano linguaggi e atteggiamenti fortemente comuni a esperienze che ebbero esiti diversissimi, alcuni dei quali fermamente condannati dalla Chiesa di Roma in quanto riconosciuti come eterodossi. In particolare la povertà, lontano dal riproporre la povertà monastica, implicante una scelta di povertà personale, ma in un contesto ricco, anche estremamente ricco, di beni (sin dai secoli alto medievali i monasteri erano isole di ricchezza, potenza e cultura), si salda invece ad una diversa considerazione verso i pauperes, quel concreto mondo di indigenti, deboli, malati che la società cittadina in piena espansione nel Duecento rendeva più visibili nelle dinamiche di esclusione e rispetto ai quali faticava a trovare soluzioni. Tali istanze si qualificavano come un fatto del tutto inconsueto e nuovo nella secolare tradizione religiosa cristiana occidentale. Il fascino e il successo eclatante degli ordini mendicanti fu determinato dalla loro capacità, da un lato, di incarnare tali istanze, pur in un contesto di piena e indiscussa ortodossia; dall’altro di offrire alla Chiesa di Roma, alle prese con problema ereticale, ma anche con le carenze della cura d’anime e il rischio che si approfondisse la spaccatura tra gerarchia e laicato fedele, in un contesto più generale di contrasti politici con i comuni italiani e l’imperatore Federico II, uno straordinario strumento pastorale e, insieme, di lotta all’eresia.

Quali elementi accomunano i quattro ordini?
In realtà, per quanto singolare possa sembrare, i quattro ordini nascono in contesti e con finalità che sono sostanzialmente estranei gli uni dagli altri. La predicazione di Domenico, al seguito del vescovo Diego di Osma, prende avvio nel Midi della Francia per rispondere all’emergenza ereticale. Dopo l’insuccesso dei monaci cistercensi, secondo la testimonianza di Giordano di Sassonia, maestro generale dell’Ordine dei Predicatori, subentrato allo stesso Domenico nel 1222, e autore del Libellus de principiis ordinis Praedicatorum (composto negli anni trenta del Duecento), sarebbe stato Diego di Osma a organizzare, di concerto col papato, nuove missioni di predicatori in funzione antiereticale, scegliendo per esse «uomini adatti a predicare», in grado di opporsi agli errori degli eretici e difendere le verità della fede. Ma ben presto la ‘missione’ del gruppo di canonici raccoltosi intorno a Domenico acquisisce una valenza ben più generale che riguarda la cura pastorale intesa nel senso più ampio, con una particolare attenzione alla predicazione, considerata strumento privilegiato di insegnamento e formazione dei laici fedeli.

L’esperienza di Francesco e dei primi compagni si colloca ad Assisi e non ha, almeno agli inizi, alcuna pretesa o progettualità che vada al di là di “vivere secundum formam sancti evangelii” (come lo stesso Francesco scrive nel suo Testamento). Le origini dei Carmelitani si collocano addirittura in Oriente, dove nascono come gruppo eremitico, che, all’inizio, non ha alcuna propensione all’apostolato. Ancora diverse le origini degli Eremiti di Sant’Agostino, un ordine creato ‘dall’alto’, per così dire, con la collaborazione fondamentale del cardinale Riccardo Annibaldi, che portò all’unione, nel 1256, di quattro diversi gruppi di eremiti, alcuni dei quali già operanti da decenni, caratterizzati da diverse origini (clericale così come laica) e diversa provenienza geografica, ma accomunati da vocazione, modalità di vita ed ispirazione religiosa sostanzialmente affini.

La Chiesa di Roma, avallando e incoraggiando spinte talora interne agli stessi ordini, procede, negli anni, verso una loro omologazione, intendendo porre in primo piano lo scopo e le finalità pastorali: la vocazione all’apostolato si pone, infatti, come elemento dirimente, assimilando esperienze che, nonostante il nome faccia riferimento alla mendicità, con rimando implicito alla povertà, non sono in realtà accomunate nemmeno da un’attenzione particolare alla povertà che, come caratteristica identitaria e fondante, è tipica solo dell’esperienza di Francesco.

Quale importanza riveste la figura di Domenico di Caleruega e l’ordine da lui fondato?
Se la predicazione iniziale di Domenico e del gruppo, presto trasformatosi in ordine religioso approvato da Innocenzo III, è tradizionalmente messa in relazione al problema ereticale, emerge, sin dai primi anni, quella vocazione alla cura pastorale più globalmente intesa, quel carattere ‘universalistico’ che rappresenta, in effetti, un punto di forte analogia con gli altri ordini Mendicanti. L’importanza di Domenico e dei suoi frati Predicatori mi pare possa senza dubbio essere individuata nella loro capacità di incarnare i viri idonei «potentes in opere et sermone» di cui parla il IV concilio lateranense che, secondo i dettami del decimo canone conciliare, i vescovi avrebbero dovuto coinvolgere nell’opera di predicazione per edificare verbo et exemplo le popolazioni loro affidate.

Tale consapevolezza del ruolo a loro assegnato risulta profondamente introiettata tra i Predicatori, come si evince sin dal prologo delle Costituzioni, in cui i frati descrivono in modo chiarissimo il loro propositum: «è riconosciuto che il nostro ordine è stato istituito dall’inizio specialmente per la predicazione e la salvezza delle anime». Il raggiungimento di tale obiettivo comporta necessariamente lo studio, che rappresenta – mi pare – il vero perno dell’impegno cui i frati sono chiamati, come si legge ancora chiaramente nel prologo delle Costituzioni: «il nostro studio deve essere principalmente e ardentemente diretto, con il più grande impegno, a questo fine: affinché possiamo essere utili alle anime del nostro prossimo». Nel suo commento alle Costituzioni, Umberto di Romans, maestro generale dell’ordine (1254-63), a questo proposito scrive: «Va notato che lo studio non è il fine dell’Ordine, ma è soprattutto necessario alle finalità predette, cioè per la predicazione, e la salvezza delle anime, poiché senza lo studio non potremmo fare nessuna delle due cose». Studio, predicazione, salvezza delle anime: sono qui delineati i fondamenti del propositum dei frati Predicatori, con la cura, tuttavia, di specificare che lo studio, pur non essendo una finalità, rimane conditio sine qua non rispetto ai compiti pastorali assunti dai frati e ad essi strettamente funzionale.

Quali caratteristiche presenta l’ordine fondato da Francesco d’Assisi?
Risulta più complesso parlare delle caratteristiche dell’ordine fondato da Francesco per l’innegabile iato che si apre tra l’esperienza sua e della sua prima fraternitas, così ben evocata dallo stesso fondatore nel suo scritto forse più emblematico, il Testamento, e vicende e situazioni di poco successive, che si connotano per una profonda ‘alterità’ rispetto al francescanesimo assisano e umbro di Francesco. Egli, nel suo ultimo scritto, ricorda, come elementi distintivi della prassi di vita sua e dei suoi compagni l’adesione al vangelo, la povertà assoluta, la cessione ai poveri di tutti i propri averi come atto che segna l’inizio della vita religiosa, la presenza di chierici e laici, l’assenza di cultura e la sottomissione («et eramus ydiote et subditi omnibus»), il lavoro come mezzo di sostentamento, il ricorso all’elemosina solo come scelta di sussistenza eccezionale («E quando non ci sarà data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta»), la predicazione di pace (Francesco parla di un «saluto di pace»), il divieto assoluto di accettare chiese e abitazioni che non fossero «come conviene alla santa povertà» e l’altrettanto fermo divieto di accettare privilegi dalla curia romana. Ma accanto a questo francescanesimo cresciuto intorno al fondatore, vi è un francescanesimo che si sviluppa lontano dal centro Italia, ben rappresentato dalla figura del canonico regolare portoghese che assume l’abito dei Minori nel 1220 a Coimbra diventando, poco più di dieci anni dopo, sant’Antonio di Padova. Prestissimo si manifesta un francescanesimo ‘poligenetico’, che richiama maestri dell’università, uomini dotti, colti, raffinati intellettuali che individuano nell’ordine dei Minori, come in quello dei Predicatori, una nuova e fascinosa possibilità di realizzazione cristiana, senza rinunciare al proprio bagaglio culturale, ma, anzi – come accade per Antonio – mettendolo a frutto nella predicazione e nella cura pastorale. Rispetto all’esperienza di Francesco, priva di qualsiasi progettualità, il minoritismo ‘internazionale’, delle province, incarnato da figure quali Antonio, ma anche Aimone di Faversham e i tanti maestri universitari che entrano nell’ordine, rappresenta il volto ‘vincente’ dell’ordine, destinato ad affermarsi con straordinaria rapidità, non senza aprire un lacerante confronto con la memoria di Francesco.

Come nasce e si sviluppa l’ordine carmelitano?
L’origine dei Carmelitani si situa negli stessi anni cruciali di inizio Duecento – tra il 1206 e il 1214 – che vedono l’origine dei Predicatori e dei Minori. Un piccolo gruppo di laici che conducevano vita comune e vivevano senza alcuna normativa scritta, ottiene il riconoscimento per opera del patriarca latino di Gerusalemme, Alberto da Vercelli e la conseguente assunzione di una forma vitae di tipo eremitico-penitenziale. Tale esperienza, però, non ha origine in Occidente, bensì nel territorio crociato della Palestina, ed è proprio tale primitiva collocazione a spiegare perché essa riceve una prima approvazione dal patriarca latino di Gerusalemme. Giacomo da Vitry, attento osservatore delle religiones novae, nella sua Historia orientalis, descrive le esperienze eremitiche presenti in Terrasanta, soffermandosi su di un gruppo che vive «ad exemplum et imitationem» del profeta Elia, sul monte Carmelo, composto da uomini che conducono una vita solitaria in un «alveare» di piccole celle, «come api che mellificano la dolcezza spirituale del Signore» («tanquam apes Domini dulcedinem spiritualem mellificantes»). Il gruppo destinato a dare avvio all’Ordine dei Carmelitani è inserito in una più ampia, articolata, per certi aspetti indistinta, compagine di esperienze eremitiche, che si sviluppano in uno stesso arco cronologico e mostrano strette correlazioni e caratteristiche similari.

I Carmelitani ottengono una prima approvazione papale da Onorio III nel 1226, che mette così a riparo il loro gruppo, sulla cui precisa identità e sulla cui stessa esistenza poteva esserci qualche margine di dubbio e perplessità, dalle decisioni del IV concilio lateranense, che regolamentava drasticamente il proliferare di nuovi ordini religiosi e soprattutto di nuove regole, attribuendo alla sua approvazione un valore di conferma – come era accaduto con i Minori – di un precedente riconoscimento. Ma è solo con il rientro in Occidente, a seguito del deteriorarsi della situazione in Terrasanta, a partire dagli anni trenta del Duecento, che inizia, per i Carmelitani, un processo di graduale avvicinamento a Predicatori e Minori, voluto da Gregorio IX, e poi da Innocenzo IV: entrambi i papi moltiplicano i provvedimenti destinati a favorire una loro progressiva ‘assimilazione’ ai due ordini Mendicanti. Nello spazio del suo pontificato Innocenzo IV completa l’operazione di pieno inserimento dei Carmelitani (analogo, anche se più complesso, sarà il destino degli Agostiniani) nell’alveo mendicante, modificando in modo eclatante il codice genetico dei Carmelitani, nati come esperienza eremitica in Oriente, ma avviati poi dal papato all’assunzione della cura pastorale.

Quali vicende segnano la storia degli ordini tra gli anni Trenta e Sessanta del Duecento?
Sono molte le vicende che segnano la storia degli ordini tra gli anni Trenta e Sessanta del Duecento, ad alcune delle quali, almeno, pare opportuno fare riferimento. Innanzi tutto si consolida il ruolo di Predicatori e Minori nell’apostolato e su quella stessa scia si collocano anche i Carmelitani. Tale impegno, nella misura in cui implica una preparazione adeguata e un elevato livello culturale, provoca dei cambiamenti importanti tra i Minori. Nel 1239 si colloca, infatti, una svolta di importanza capitale per il significato e le conseguenze che ebbe: si tratta della decisione di escludere i laici dall’ingresso nell’ordine. Tale decisione segna un vero e proprio tornante nella storia di un ordine, come quello dei Minori, fondato da un laico e che, fino a quel momento, aveva accolto indistintamente chierici e laici.

Un altro nodo di quel torno di tempo è rappresentato dai due momenti di scontro tra maestri secolari e mendicanti dell’università di Parigi, che attesta il ruolo e la presenza tutt’altro che episodica dei membri dei due ordini come magistri dell’università di Parigi. Già nel 1229 Rolando da Cremona, che, all’epoca dell’ingresso nell’Ordine dei Predicatori, nel 1219, era docente di arti e medicina presso lo studium bolognese, approda alla cattedra di teologia all’università di Parigi: si tratta del primo frate Predicatore a conseguire la licentia docendi in teologia. Seguono altri magistri domenicani: Giovanni di Saint-Gilles, Ugo di Saint-Cher, fino ad Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino. Nel 1236 entra nell’Ordine dei Minori Alessandro di Hales, maestro di teologia, che diventa così il primo magister francescano, al quale rapidamente se ne aggiungono altri: Giovanni de la Rochelle, Odo Rigaldi, Guglielmo di Melitona. I maestri secolari si sentono minacciati dal successo dei Mendicanti, dalla loro visione universalistica, così come dalla loro posizione egemone rivendicata sul piano ecclesiologico. Ne nasce «uno scontro durissimo tra intellettuali: con una posta in gioco molto elevata», per usare per parole di Grado Merlo: la pretesa di incarnare il privilegio della più elevata perfezione di cristianesimo.

Insieme si consolida il ruolo di Predicatori e Minori in ambito inquisitoriale e la canonizzazione dell’inquisitore Pietro martire negli anni cinquanta del Duecento va letta anche come manifesto ‘antiereticale’ in un momento di pericolo eterodosso, ritenuto particolarmente problematico, di volontà di opposizione all’eresia e alla sua penetrazione nel tessuto sociale delle città. Infine il generalato di Bonaventura (1257-1273) rappresenta un periodo di grande riorganizzazione dell’ordine e della memoria del fondatore attraverso la composizione di una nuova Vita su Francesco.

Quale interpretazione storica è possibile fornire del fenomeno mendicante?
È molto difficile interpretare il fenomeno mendicante nel suo complesso, tenuto conto delle origini molto diverse dei quattro ordini mendicanti, tuttavia mi pare che – considerati nella loro globalità – essi rispondano pienamente alle esigenze e ai piani della Chiesa di Roma, che individua in Predicatori, Minori, Carmelitani ed Eremiti di sant’Agostino un validissimo strumento da utilizzare in chiave pastorale, nella lotta antiereticale, ma anche in ambito ‘diplomatico’, come legati e nell’organizzazione ecclesiastica come uomini di fiducia per ricoprire alte cariche, a cominciare dall’episcopato. Gli ordini mendicanti rappresentano la soluzione individuata dal papato al problema dell’emergenza ereticale, che metteva a nudo le carenze della cura animarum e dell’ancora irrealizzato progetto di formazione e inquadramento del laicato fedele; costituiscono la risposta migliore al successo dell’eresia, da ricondursi, almeno in parte, alla mancanza di esempi di fedeltà evangelica all’interno dell’ortodossia. Il vescovo Diego di Osma, con il quale Domenico aveva iniziato l’opera di predicazione, di fronte del fallimento delle precedenti ‘missioni’ condotte dai cistercensi, aveva dato loro un «salubre consilium»: per chiudere la bocca ai maligni, andassero a piedi, senza né oro né argento, imitando in tutto la forma degli apostoli. Gli ordini mendicanti rispondono a questa logica: offrire un esempio di fedeltà a quel messaggio evangelico di cui la Chiesa era da sempre depositaria, ma che faticava ad incarnare, mentre riuscì molto bene a regolare, appoggiare, orientare, programmare, accelerare il processo di rendere i Mendicanti funzionali alla sua politica, facendo di loro «gli operai dell’undicesima ora» al servizio dell’evangelizzazione, in grado di attuare le direttive da essa elaborate, sostenendo la politica del papato e riuscendo a dare corso a una profonda riforma della vita religiosa.

Maria Teresa Dolso insegna storia medievale presso l’Università di Padova. Fa parte del collegio di dottorato in Scienze Archeologiche, Storico-artistiche e Storiche dell’Università di Verona ed è membro del Consiglio della Società Internazionale di Studi francescani. Ha dedicato particolare attenzione all’Ordine dei frati Minori, alla sua controversa evoluzione e alle fonti francescane. Tra le sue pubblicazioni: La “Chronica XXIV generalium”. Il difficile percorso dell’unità nella storia francescana (Padova 2003) e Fonti agiografiche dell’Ordine francescano (Padova 2014).

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