
La popolare giornalista e conduttrice televisiva scandisce il trascorrere piatto dei giorni a partire dal 12 marzo 2020, primo giorno di lockdown: «In men che non si dica siamo stati catapultati in una realtà fino a qualche giorno fa insospettabile: il nostro frenetico via vai contemporaneo è stato interrotto senza troppi preamboli e di botto ci siamo trovati tutti tumulati vivi tra le quattro mura di casa», trasformatasi in un inatteso «utero di cemento».
Ci troviamo a confrontarci con «la finzione della vita normale che va avanti»: la sveglia comunque puntata per non cedere all’indolenza, «l’ora d’aria» per prendere i giornali e fare la spesa. E poi le nuove categorie antropologiche generate dall’emergenza sanitaria: i «guardinghi» e i «finti disinvolti»: «I primi li riconosci subito: portano la mascherina calzata con zelo fin sopra il naso, camminano lenti e si guardano intorno con fare circospetto». Gli altri «fanno i vaghi, portano la mascherina abbassata o la maggior parte delle volte non la portano affatto, ostentano serenità parlando al telefono o guardando le vetrine dei negozi, chiusi […], come a voler prendere le distanze da questa nostra nuova, banale, conformista convenzione piccolo-borghese del metro di distanza».
Nell’emergenza della pandemia, anche condurre «una trasmissione televisiva è un’impresa. Distanze di sicurezza, personale ridotto all’osso, ospiti che non possono più venire in studio, collegamenti Skype di fortuna, che se ne funziona decentemente uno su tre è già un miracolo, disinfettante gel sotto il tavolo con cui lavarsi compulsivamente le mani a ogni interruzione pubblicitaria, tecnici costretti a trasformarsi in prestigiatori per microfonarti a un metro di distanza…»
Così nel racconto trovano posto tutte le abitudini generate da questa «quarantena preventiva»: le giornate passate in pigiama, il «rituale collettivo delle 18.00, la lettura del bollettino dei contagiati, dei morti e dei guariti», le conferenze stampa di Conte.
Veronica Gentili si racconta e rivela le sue idiosincrasie, come la «lieve vocazione alla misantropia» che la segregazione forzata e il distanziamento sociale imposto non possono che alimentare: «la misantropia è un po’ come l’appetito che vien mangiando: viene stando soli.»
E all’ultima categoria umana, gli immutabili, scopriamo di appartenere tutti, «un unico gruppo, che ci conteneva prima che arrivasse Covid e che ci conterrà ancora dopo che se ne sarà andato»: realizzeremo così di aver «perso la nostra occasione per cambiare» riscoprendoci «gli stessi di prima. Come eravamo, così siamo rimasti.»
Metafore lampanti, sentenze di un’icasticità degna di Oscar Wilde, lessico rarefatto, caratterizzano lo stile della Gentili: la prova da scrittrice è brillantemente superata, attendiamo di sintonizzarci sul prossimo canale.