
È in questa occasione, tra il 1937 e il ‘38, che entra in campo Massimo Pallottino (1909-95), pupillo dell’etruscologo Giulio Quirino Giglioli (1886-1957), già scopritore dell’Apollo di Veio, deputato per il Partito Nazionale Fascista, consigliere della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Da parte sua, Pallottino, giovanissimo ispettore per la Soprintendenza alle antichità di Roma e direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, dal 1938 sarà incaricato di Etruscologia e archeologia italiche all’Università di Roma, dove resterà per 35 anni senza risentire minimamente del passato “politico” nel passaggio dal regime fascista alla Repubblica. Del resto, l’Italia è gattopardesca di suo: il presidente del “Tribunale della razza”, caduto il fascismo, transitò senza problemi alla Corte Costituzionale!
Quanto alla “scuola di pensiero” – ma l’espressione è davvero eccessiva – dell’etruscologia italiana, essa nasce con una definizione di Erodoto: il “padre della storia” vi è descritto come un rappresentante della “storiografia ionica (che) tentò di inquadrare le origini etrusche nell’ambito delle sue confuse cognizioni etnografiche […] dopo il quale si generalizzò la leggenda della provenienza asianica degli etruschi.” Così imposta la questione il Pallottino già nel suo primissimo intervento: Gli Etruschi, pubblicato nel 1939/XVII E.F. nella collana I popoli del mondo romano a cura della Mostra della Romanità, dando il là, certo senza nemmeno immaginarlo, a una lunga discendenza di eredi, tutti rigorosamente allineati e coperti.
Perché la scelta, tutta ideologica, di Pallottino ha un peso enorme sulla scuola etruscologica italiana, e questo ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, quando ormai ai guasti della politica si sono sommati i guasti del sistema baronale dell’università italiana. Per dire, alla Sapienza di Roma, sulla cattedra che fu di Pallottino, siede un’allieva dell’allievo dell’antico titolare: quattro generazioni di professori, e non un confronto, un apporto, un ricambio. Anzi, come osservò anni fa un genetista italiano: “Chi ha idee diverse non trova occupazione”, sancendo così la distanza tra mondo accademico e società.
In ogni caso la scelta di Pallottino segna una cesura netta con il passato. Se prima l’opinione degli studiosi italiani e stranieri dava piena fiducia alla testimonianza di Erodoto, adesso che il “padre della storia” è diventato un “confuso propalatore di leggende”, in Italia assume un rilievo mai avuto in precedenza l’opinione di Dionigi di Alicarnasso. Mentre gli studiosi stranieri – come Vere G. Childe (1892-1957), John B. Ward-Perkins (1912-81) e tanti altri – continuano tranquillamente a ragionare nel vecchio modo, dando per scontato che gli etruschi siano venuti dall’Oriente.
La cesura si accentua quando, di lì a poco, Pallottino tira fuori l’idea che non bisogna occuparsi delle “origini” della civiltà etrusca, ma della “formazione”. Un’idea contronatura, dal momento che è impensabile studiare la formazione di un organismo vivente senza conoscerne le origini: eliminare le origini, significa tagliare il cordone ombelicale a una cultura, separando irreparabilmente la creatura che sta nascendo da quella che le ha dato la vita, la figlia dalla madre. Come ha già spiegato il Vico (1668-1744): “Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.”
Nella realtà, però, le parole del Vico sono così sensate che quegli stessi etruscologi che dovrebbero occuparsi della “formazione” degli etruschi andranno ben presto a ricercarne le origini, e le troveranno non più nei lidi ma nei cosiddetti “Villanoviani”. Con questi “Villanoviani” che sono solo la denominazione moderna di genti che gli antichi conoscevano bene e che chiamavano con i loro veri nomi – umbri, osci, volsci, piceni, veneti, ecc.
In altre parole, per l’accademia italiana, e solo per lei, gli etruschi non vengono più dalla Lidia come narra Erodoto, ma sono autoctoni della Penisola come vuole il Duce. Autoctoni e discendenti da un popolo di cui si preferisce non indicare il nome antico.
Del resto, se non si possono far risultare autoctoni i romani – Enea e Virgilio sono lì pronti a smentirti – l’unica è far risultare autoctoni gli etruschi. Basta accontentarsi…
Quali argomenti supportano la tesi dell’origine orientale degli etruschi?
Per più di duemila anni, dall’antichità a Pallottino, si è fatta una netta distinzione tra la narrazione di Erodoto (Alicarnasso, 484–425 a.C.) e quella del suo compatriota Dionisio di Alicarnasso (60-7 a.C.). Una distinzione basata sulle loro stesse parole: Erodoto afferma di raccontare cose sentite con le proprie orecchie e narrate a lui dai lidi – “I lidi sostengono […] affermano […] e così raccontano” – mentre Dionisio è molto meno categorico ed esprime chiaramente una propria opinione – “io ritengo […] forse sono più vicini al vero”.
La distinzione è netta, se almeno venti o venticinque autori classici, romani e greci, seguono Erodoto, e nessuno, ma proprio nessuno, segue Dionisio, che è e resta sempre e solo una “voce isolata”.
D’altra parte, in apertura del lavoro al quale ha dedicato più di venti anni di studi, lo stesso Dionisio dichiara espressamente di scrivere per dimostrare come Roma sia una città greca, sorta da cinque successive invasioni di genti greche – tra le quali inserisce anche i troiani! E questo allo scopo, dichiarato anch’esso, di convincere i suoi compatrioti greci a accettare di buon grado la dominazione dei romani che si prolunga ormai da sette generazioni.
Non vi è bisogno di aggiungere che – come è già stato notato – questa impostazione “absurde à nos yeux” (Briquel 2005) avrebbe portato Dionisio a “una visione capovolta, an inverted view, del corso della storia di Roma” (Cary 1937). Del resto, già a metà del ’700, qualcuno aveva messo in guardia: “Per quel che riguarda Dionisio di Alicarnasso, tutto ciò che egli dice ci deve essere sospetto. Dato che aveva deciso di dare un’origine greca ai romani, non perde mai di vista questo obiettivo.” (Louis de Beaufort, 1766)
Ciò nonostante, ancora nel 1992, presentando la grande esposizione internazionale su Les Etrusques et l’Europe, Pallottino se ne esce in questi termini: “L’evocazione del mondo etrusco ha sempre suscitato delle reazioni diverse: vivo interesse, curiosità, ma anche perplessità. Già nell’antichità gli etruschi erano considerati come un popolo a parte: come notava Dionisio di Alicarnasso, nella sua Storia di Roma arcaica […]”
Il vecchio detto “Non c’è peggior sordo…” è vivo come non mai tra gli etruscologi italiani. Quanto agli stranieri, si meravigliano, si astengono dal polemizzare e si allontanano, perplessi.
In che modo la genetica avvalora il racconto di Erodoto?
La genetica è una scienza recente, ma è una scienza e non un’opinione, men che meno un’ideologia. Dal 1997 a oggi, in un quarto di secolo, una decina di ricerche genetiche – sui toscani viventi nelle aree più remote e isolate e sulle razze bovine tipiche della Toscana – sono state concordi nell’indicare la provenienza dal Medio Oriente di uomini e animali.
Per questi ultimi è stato posto in evidenza il fatto che, se fossero giunti in Italia – o meglio in Toscana – via terra, avrebbero disseminato tracce biologiche nel loro passaggio attraverso i Balcani. L’assenza di queste tracce obbliga a ritenere che i bovini siano giunti via mare, dando una conferma alle parole di Erodoto: “Quelli dei lidi che ebbero in sorte di lasciare il paese scesero a Smirne, costruirono delle navi e, dopo avervi caricato tutto quello che gli poteva servire, si misero in mare alla ricerca di cibo e di terra, fino a che, superate molte genti, arrivarono alla terra degli umbri, dove fondarono città e abitano ancora oggi.”
Resta solo da notare che, in questo stesso quarto di secolo, l’etruscologia italiana non ha mai pensato di creare neppure una occasione di confronto – un dibattito, una tavola rotonda, un convegno – sull’argomento: la genetica è una scienza, la scienza dà certe indicazioni, ma loro, gli etruscologi, proseguono per la loro strada, che non è per niente quella indicata dalla genetica, ossia dalla scienza.
Qual era la terra di origine degli etruschi?
La Lidia – terra di origine degli etruschi nella testimonianza di Erodoto – si trova nella regione occidentale della Penisola Anatolica, non proprio sulle coste del mar Egeo ma subito all’interno. Grande all’incirca come la Toscana, e più o meno con lo stesso clima e la stessa natura, la Lidia è una terra ricchissima, principalmente dal punto di vista agricolo. Ma non solo, perché in prossimità della capitale Sardi, è anche dotata di una fonte di oro leggendaria nel monte Tmolo e nel fiume Pactolo, cantati entrambi dai poeti greci e romani. Creso (596-546 a.C.), che ha dato il suo nome a tutti i nababbi della storia, è l’ultimo re lido, sconfitto dai persiani.
Già presso gli antichi greci la Lidia è conosciuta per la cuoieria, per l’arte della tintoria, per la musica, per la cucina, per la mollezza dei costumi e per la libertà delle donne; tutti elementi che costituiranno, poco più tardi, la fama degli etruschi.
La Lidia è attraversata da quella che nel tempo diventerà la Via Reale dei persiani, ma che già dal II Millennio a.C. collega Smirne sull’Egeo a Susa in Persia, passando per l’antico territorio ittita nell’Anatolia centrale, l’Assiria nella Mesopotamia settentrionale, la Media e gran parte della Persia.
È attraverso questa frequentatissima via di commerci e di idee, ultima propaggine occidentale di una “Via della Seta”, che arrivano ai greci della costa – ai cosiddetti filosofi “prepitagorici” – le nozioni astronomiche e geometriche che permettono a Talete (640-548 a.C) il calcolo delle eclissi e a Pitagora (580/570-495 a.C.) la formulazione del Teorema che ne porta abusivamente il nome.
Ed è quasi certamente passando da qui che giungono a Roma, attraverso la mediazione lidio/etrusca, almeno tre elementi fondamentali:
1 – le conoscenze astronomiche babilonesi e i nomi iranici dei mesi del calendario di Numa Pompilio (715-673 a.C.),
2 – le concezioni armoniche della costituzione di Servio Tullio (578-539 a.C.),
3 – il rito babilonese dello shar-puhi, il “re di sostituzione”, che si riflette nella tradizione romana del Regifugium di Tarquinio il Superbo (535-510 a.C).
Come si articolò l’insediamento degli etruschi nella “terra degli umbri”? Quali vicende segnarono l’incontro con i romani?
Dal punto di vista tecnico-scientifico, e più in generale civile e sociale, i lidi che “arrivano alla terra degli umbri” sono almeno mille anni avanti rispetto agli indigeni. Agli inizi del I Millennio a.C. gli umbri sono ancora all’età del bronzo, mentre i lidi – questo è il dato più importante – già posseggono a fondo la tecnologia del ferro, che è nata e si è sviluppata in Anatolia a partire dalla metà del II Millennio. La terra degli umbri – con le Colline Metallifere e con il ferro dell’isola d’Elba – dà loro la possibilità di sfruttare appieno questa nuova conoscenza tecnica associata alle inesauribili riserve minerarie. E spiega la straordinaria profusione di eccellente ceramica greca trovata in Etruria, molte volte superiore a quella presente sul territorio di origine: ciascuno di quei vasi, di quelle coppe, di quelle meraviglie della ceramica create in Grecia ripaga il ferro e/o le armi che con il ferro etrusco vengono forgiate.
Da questo punto di vista, la superiorità dei nuovi arrivati sui vecchi abitanti del luogo fa sì che l’insediamento sia sostanzialmente pacifico, determinando il profondo mutamento che l’archeologia colloca attorno alla metà dell’VIII secolo a.C. negli insediamenti, che da decine di piccoli villaggi sparsi nelle campagne passano a pochi grandi centri – Tarquinia, Veio, Cere e via contando la dodecapoli etrusca.
In questa nuova ottica, e sempre a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C., il fulmineo sviluppo economico vissuto a Nord del Tevere, misurato anch’esso dall’archeologia, può ben spiegare la stessa nascita di Roma come colonia di Alba Longa sulla più diretta via che collega il centro latino sui Colli Albani alla più meridionale delle grandi città etrusche, Veio. E può spiegare come e perché Romolo si senta in dovere di fondare Roma more etrusco, “secondo l’uso etrusco”, con ciò appropriandosi della più interessante innovazione portata dagli stranieri a questo per loro Nuovo Mondo.
Concludendo, vorrei far notare che quanto precede ripete, con poche variazioni e alcune innovazioni – mi riferisco ai nomi dei mesi del calendario numano, alle concezioni armoniche della costituzione serviana e al Regifugium – quello che è già stato detto e sostenuto un secolo fa dalla più autorevole schiera di studiosi di archeologia e di storia antica prodotta dalla scuola tedesca. La Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft, l’Enciclopedia dell’antichità classica, detta più semplicemente Pauly-Wissowa, così riassume la situazione (in una traduzione del 1908): “Ricapitolando tutte le addotte osservazioni e tutti i fatti risultanti da’ materiali archeologici dell’Etruria, non si ha se non la conferma della tradizione creduta dagli stessi Etruschi della loro venuta dall’Oriente, e niente che ad essa contradica. Stando così le cose, l’arrivo dei Lidi/Tirseni alla costa occidentale etrusca deve essere avvenuto nel sec. VIII o in un tempo non essenzialmente più remoto.”
Post Scriptum: per un futuro diverso
La prima operazione da fare è rimuovere l’attuale impostazione degli studi, diventata con gli anni un vero e proprio “ostacolo epistemologico” (Grandazzi 2011) al progresso della ricerca.
L’operazione consiste nel ricollocare le parole di Dionisio di Alicarnasso nel loro esatto contesto e nel rivalutare la testimonianza fondamentale del “padre della storia”; in altre parole, nel non aver paura di accettare la provenienza degli etruschi dall’Oriente.
Una volta compiuta questa importante conversione, tutto diventerà più chiaro, e finalmente si potrà capire l’autentico ruolo svolto dai lidi giunti nella terra degli umbri prima nello sviluppo della civiltà romana e poi, più latamente, in quella europea.