
Carlo I nel Duecento e suo nipote Roberto nel Trecento assunsero il controllo politico di molte città e ottennero il titolo di vicari imperiali dal papa, il primo sulla Toscana e il secondo su tutta l’Italia appartenente all’impero (semplificando: la Toscana e l’Italia del Nord). La loro fu dunque una presenza fondamentale, seppure intermittente, nello spazio politico italiano, con un impatto rilevante a livello locale. Basti pensare al fatto che furono senatori di Roma per circa 38 anni su 72 (oltre metà degli anni 1263-1335) e podestà o signori di Firenze per circa 23 anni su 61 (oltre un terzo del periodo 1364-1328), senza contare casi particolari come quello di Prato (42 anni su 83, fra il 1267 e il 1350). Ebbene, di fronte a questa semplice evidenza e alle sue inevitabili conseguenze, la storiografia ha per lungo tempo considerato quella angioina come una parentesi nello sviluppo storico di quelli che, dal Settecento e con maggiore intensità dal Risorgimento, erano considerati i simboli della libertà italiana di fronte alla minaccia straniera: i comuni.
Nello stesso periodo che vide gli Angiò protagonisti, sempre più città comunali finirono sotto il controllo di signori. Si trattava di individui che ottennero pieni poteri dai loro concittadini, attraverso l’attribuzione di cariche esistenti o create ad hoc, ma anche di personaggi provenienti da altre città o territori che conquistarono militarmente diversi centri. L’instaurazione di regimi signorili, che durante il Trecento si stabilizzarono nello spazio politico già comunale, è stata a lungo considerata come una degenerazione, come la crisi delle istituzioni comunali a favore di regimi che alcuni autori dell’epoca ritenevano tirannici. Ma in tempi più recenti si è rilevato come, prima che il fenomeno diventasse irreversibile in molte città – con la dinastizzazione, lo svuotamento dei consigli deliberativi e il riconoscimento del potere dall’alto attraverso l’istituto del vicariato imperiale o apostolico –, quella signorile fosse un’opzione normalmente praticabile dalle città. Non si trattava del sopravvento di tendenze “antidemocratiche” ma della sperimentazione di soluzioni che aiutassero a stabilizzare il quadro politico interno e a far fronte alle minacce militari esterne.
Ecco, gli Angiò furono una delle risorse alle quali diverse città fecero ricorso. Ma a differenza dei tipici signori cittadini, essi erano di sangue reale e pertanto, come erano tenuti a garantire pace, giustizia e prosperità ai propri sudditi, così ci si aspettava che facessero nei confronti di coloro che si sottomettevano spontaneamente al loro dominio al di fuori del regno di Sicilia. Tali sottomissioni era regolate da un accordo ed erano sempre revocabili. Dunque le città che scelsero di sottomettersi, nelle quali prevaleva in genere il fronte guelfo, optarono per una “variante signorile” che desse maggiore stabilità alla situazione politica interna attraverso un rector superiore e garante per tutti (tranne che per i nemici, beninteso!) e che allontanasse la minaccia di un rivolgimento politico a favore della parte esclusa (in genere i ghibellini) e anche di un regime signorile tipico. Un esempio su tutti: minacciata dall’espansionismo di Castruccio Castracani, nel 1325 Firenze nominò signore Carlo di Calabria, figlio di Roberto d’Angiò, peraltro con poteri quasi pieni. Lo stesso vale per i casi in cui era una città più grande a costituire una minaccia all’indipendenza di una città più piccola, come nel caso di Prato, che era nelle mire di Firenze, che alla fine l’acquistò da Giovanna I nel 1350.
In che modo gli Angiò si radicarono in Toscana e nelle terre della Chiesa e ne diventarono attori politici stabili?
Le modalità di acquisizione del potere variarono a seconda dei casi e dei periodi. Lasciando ai lettori del volume la scoperta di questa interessante varietà, approfondisco soltanto alcuni aspetti. Il “modello romano”, che prevedeva la nomina di Carlo I alla massima magistratura cittadina, fu adottato nel 1266 da Lucca, città guelfa circondata dai nemici che controllavano buona parte della Toscana. Carlo fu nominato podestà per sei anni, come fece Firenze nel 1267. In quest’ultima città, però, la nomina ebbe luogo solo dopo la fuga dei ghibellini che la governavano, di fronte all’avanzata delle truppe angioine con il beneplacito papale. L’acquisizione del potere da parte di Carlo, insomma, si fondò sulla combinazione o l’alternanza fra attribuzione del regimen attraverso il senatorato o la podesteria e iniziative militari, tramite le quali l’Angiò, più tardi, ridusse a obbedienza o costrinse all’accordo anche le ultime comunità toscane che gli si opponevano: Pisa, Siena e San Miniato. Qui Carlo non assunse la podesteria ma la facoltà di nominare i podestà o sceglierli fra quelli proposti dalle comunità, come accadde nella maggior parte delle città che gli si sottomisero spontaneamente.
Alcuni di questi aspetti ricorrono nelle dominazioni trecentesche, che tuttavia ebbero altre fondamenta. Nel 1314 Roberto ottenne il senatorato romano su nomina papale, come delega dell’ufficio che i romani riconoscevano ormai usualmente al pontefice. Invece in Toscana e nelle zone meridionali delle terre della Chiesa il re dal 1313 e suo figlio Carlo duca di Calabria dal 1326 furono nominati signori a tempo da alcune città. L’incarico fu conferito con un vero e proprio contratto: i due dovevano attenersi a clausole molto dettagliate, che regolavano l’ufficio del loro vicario, limitavano le possibilità di scelta degli interpreti di questo ruolo e preservavano la struttura istituzionale cittadina. Erano insomma signori per contratto, individui con il massimo potere ma posti al servizio della comunità e sottoposti a regole stringenti. Mentre in altre zone d’Italia le signorie cittadine cominciavano a diventare irreversibili, in Toscana venivano contrattualizzate, anche se in alcuni casi (Prato e Colle Valdelsa) la signoria di Carlo di Calabria fu conferita a vita e fu resa ereditaria. In nessun caso, però, tranne Pistoia per alcuni mesi, Roberto e Carlo si imposero militarmente.
Fra la fine delle dominazioni di Carlo I (1279) e l’inizio di quelle di Roberto (1313) passarono dunque più di trenta anni, in tutto questo periodo intermedio gli Angiò continuarono a essere presenti in Italia centrale, attraverso le proprie truppe, pagate dai comuni toscani o poste al servizio del papa, e la propria influenza politica. Carlo II non esercitò poteri diretti, ma a lui si rivolsero alcune città e il papa per la nomina degli ufficiali, mentre le stesse comunità fornivano truppe per combattere gli Aragonesi in Sicilia, della quale si erano impadroniti dopo la rivolta del Vespro del 1282. Indipendentemente dall’esercizio di un potere diretto, quindi, con Carlo I gli Angiò erano diventati il punto di riferimento delle città guelfe e del papato, mantenendo questo ruolo con Carlo II e conferendogli una nuova forma, quella signorile o di coordinamento, durante il Trecento.
In cosa consisteva il loro potere e come lo esercitavano?
Per maggiore chiarezza è opportuno distinguere fra il potere sovralocale, esercitato come vicari imperiali e coordinatori delle città guelfe, e quello locale, come signori delle città in varie forme. Quando Carlo I fu nominato vicario imperiale di Toscana nel 1268 (dopo un anno da “paciere”), acquisì il potere legittimo per combattere e giudicare coloro che non si sottomettevano, cioè i nemici politici. Applicando questo potere, l’Angiò assediò alcuni centri e ottenne la resa di Pisa, Siena e altre comunità e signori filosvevi. Ma l’obiettivo fu colto grazie alla partecipazione militare delle città guelfe, le cui truppe furono organizzate in una “taglia”, cioè un sistema di fornitura di milizie secondo quantità definite. Una volta stabilizzatosi il quadro politico, con soltanto alcuni focolai di resistenza, Carlo poté concentrarsi sulla regolazione dei rapporti fra le comunità, promuovendo paci e accordi, nonché come supremo garante della giustizia sovralocale e della difesa dei “sudditi” da qualsiasi ingiustizia. Pacificazione, difesa e garanzia caratterizzarono anche l’azione di Roberto come vicario imperiale dell’intera Italia, ma il terzo sovrano angioino adottò uno stile molto più morbido rispetto al fondatore della dinastia. Roberto agì infatti per via diplomatica, senza neanche nominare un vicario stabile che ne facesse le veci nell’Italia imperiale, ma limitandosi a dialogare con città e signori. A questa “politica del disimpegno” fecero da controcanto, da un lato, gli sforzi per ottenere il vicariato di Toscana per Carlo di Calabria da parte di Enrico VII, trasformatosi presto in acerrimo nemico, e dall’altro la chiamata alle armi di tutto il fronte guelfo contro lo stesso Enrico e ancor più contro Ludovico il Bavaro.
Scendendo a livello locale, bisogna considerare la duttilità dell’impostazione di governo angioina, che si adattava alle diverse situazioni. Nella maggior parte delle città interessate dalla dominazione o dall’influenza angioina i sovrani godevano solo della facoltà di nominare o confermare i podestà. Non era un potere da poco: questi ufficiali amministravano la giustizia, guidavano l’esercito cittadino e convocavano e presiedevano i consigli cittadini. Questi ultimi non furono esautorati dagli Angiò, che rispettarono il sistema istituzionale vigente. La nomina dei podestà, però, permetteva loro di avere uomini fidati al vertice delle città, che a loro volta si vedevano garantita l’appartenenza politica guelfa di questi ufficiali. Sia i podestà sia i vicari che rappresentavano gli Angiò furono in gran parte tratti dai circuiti podestarili ordinari, provenivano cioè da famiglie che già da tempo fornivano ufficiali a diverse città, alle quali se ne aggiunsero altre che emersero proprio grazie al successo guelfo-angioino. Soltanto in una prima fase, di un paio di anni circa, in cui era necessario stabilizzare il potere, nelle città di cui Carlo era podestà e Roberto signore furono nominati come vicari dei fedelissimi, personaggi provenienti dalla Provenza o dal regno di Sicilia che non avevano avuto esperienza di governo podestarile ma che potevano rappresentare al meglio il potere angioino.
Indipendentemente dalla forma della dominazione, diretta o indiretta, gli Angiò non intervennero quasi mai nei processi decisionali durante il loro svolgimento. Il potere del sovrano-signore si espresse piuttosto a posteriori, soprattutto attraverso l’annullamento o la modifica di sentenze giudiziarie o imposizioni fiscali. Soltanto in rari casi gli Angiò intervennero in maniera più pesante, esercitando in modo più autoritario il loro ruolo. Nel complesso, essi esercitarono una sorta di soft power, che diventava hard quando era necessario. Soltanto a Roma Carlo I si spinse più in là, riorganizzando l’amministrazione cittadina secondo uno schema che stava applicando anche nel regno e in alcuni centri piemontesi.
Quali gruppi li sostennero od osteggiarono nelle città?
La risposta più semplice, ma non per questo meno vera, è: i guelfi. Gli Angiò entrarono in Italia in un momento segnato dalla inarrestabile contrapposizione fra fronti politici, dentro le città, fra le città e fra città e signori. I gruppi dirigenti e coloro che volevano diventarlo erano schierati con gli Svevi o con la sede apostolica, legando a questa contrapposizione fra i poteri universali la lotta politica per il controllo delle città e dei territori. Quando nel Duecento gli Angiò comparvero come attori politici impegnati contro gli Svevi, i guelfi delle città li individuarono come protettori e interlocutori, dando avvio alla serie di sottomissioni. Nella maggior parte dei casi, esse avvennero dopo il ribaltamento del governo filosvevo. Ma chi erano questi guelfi urbani dell’Italia centrale? La configurazione del gruppo variava da centro a centro, ma si può senz’altro affermare che alla loro testa c’erano esponenti dell’aristocrazia locale, alla quale si affiancavano talora membri di famiglie benestanti ma non nobili, dedite in genere al commercio e al credito.
Questi ultimi gruppi furono essenziali per la conquista angioina del regno di Sicilia, com’è noto, ma anche per le dominazioni in Italia centrale. Gli Angiò ottennero ingenti prestiti da compagnie romane e poi toscane, che trassero beneficio da questo rapporto arricchendosi e innalzando lo status sociale dei propri membri. Un rapporto che, instauratosi con Carlo I, si rivelò di lunga durata, per le costanti esigenze finanziarie della Corona, che nel Trecento sviluppò con alcune compagnie fiorentine, come i Peruzzi, un rapporto privilegiato.
Orientamento guelfo, forza e attitudine militare e nobiliare, capacità finanziaria: questi furono gli elementi principali del rapporto fra gli Angiò e i loro sostenitori al di fuori del regno, dove però non mancò il supporto o perlomeno l’accettazione da parte di altri gruppi. Il popolo, un’aggregazione politica eterogenea composta da mercanti-banchieri, artigiani, notai, dottori di legge etc., in alcuni casi duecenteschi fu escluso dalla gestione del potere, ma non per volontà degli Angiò. Furono i nobili guelfi a volerlo, anche se Carlo I non fece molto per includerli. Nelle dominazioni trecentesche, invece, si osserva una maggiore convergenza fra Angiò e popolo, che in diverse città avevano ormai acquisito stabilmente il potere istituzionale. L’accento posto da alcuni storici sull’avversione degli Angiò nei confronti del popolo va dunque accantonato. Se non operarono sistematicamente in loro favore, è anche vero che furono aperti al dialogo con le componenti non nobiliari delle città.
La vera opposizione interna provenne da alcuni settori della nobiltà e del popolo grasso che intendevano superare l’assetto signorile per tornare a quello precedente. Non era un’opposizione agli Angiò, insomma, ma alla stessa soluzione signorile. O almeno fu così quando gli Angiò seppero mantenere il consenso che era alle spalle del loro coinvolgimento. Quando questo si esaurì, furono gli stessi gruppi che ne avevano promosso l’arrivo a determinare la fine della loro esperienza, che in alcuni casi – come a Roma nel 1284 – terminò con una rivolta popolare. Naturalmente ne furono ben contenti i più strenui oppositori degli Angiò, quei ghibellini che in molte città erano stati costretti all’esilio, opponendosi dall’esterno.
Come potevano convivere culture politiche all’apparenza tanto diverse come quella monarchica, quella papale e quella comunale?
Il punto è che queste tre culture politiche non si escludevano a vicenda. Il fatto che le città comunali abbiano fatto ricorso a sovrani o principi come signori e che diverse comunità delle terre della Chiesa abbiano nominato i pontefici come loro podestà, o lasciato che dalla sede apostolica venissero scelti o confermati, lo testimonia. Le riflessioni sugli ordinamenti politici svolte a partire dal Rinascimento e consolidatesi durante il Risorgimento hanno fatto sì che si proiettasse indietro nel tempo un’inconciliabilità che non esisteva nel Due-Trecento. Un sovrano poteva tranquillamente assumere il regimen di una città comunale senza snaturarne la cultura politica, perché tale opzione era insita in quella stessa cultura. Non dobbiamo dimenticare che le città toscane appartenevano formalmente all’impero e che, benché si fossero appropriate di diritti e poteri appartenenti all’imperatore, lo mantenevano come orizzonte di riferimento, sia quando appoggiavano la restaurazione del potere imperiale (come Pisa), sia quando la osteggiavano. Le città delle terre della Chiesa, invece, avevano un sovrano a tutti gli effetti, benché cercassero di limitare il più possibile che le strutture di governo pontificie si consolidassero a danno della loro autonomia.
D’altro canto – ed è la cosa più importante – essere un comune non implicava di per sé negazione o opposizione alla monarchia come forma di governo o alle pratiche che la caratterizzavano, come quella delle relazioni di carattere feudale. Si pensi agli autori come Dante, che proprio nel periodo di nostro interesse ritenevano che proprio un sovrano potesse portare pace, giustizia e prosperità. Ma naturalmente, questo era auspicabile nella misura in cui il potere delle città stesse non venisse assorbito in tutto o in gran parte dall’autorità superiore. A ben vedere, è proprio ciò che fecero gli Angiò, rispettando in buona sostanza gli assetti e gli equilibri locali pur senza rinunciare a intervenire. Per i cittadini dell’Italia comunale il ricorso alla monarchia era principalmente una risorsa, politica ma anche sociale. Un nutrito gruppo di persone si avvantaggiarono della presenza angioina, potendo diventare cavalieri – e la nomina reale era un elemento non irrilevante – nonché feudatari nel regno di Sicilia, senza contare l’arricchimento prodotto dalle relazioni finanziarie e, più in generale, il prestigio derivante dal rapporto con una casa regnante. Non a caso, diverse importanti famiglie aggiunsero elementi araldici angioini (il giglio o il lambello) ai loro stemmi: era un modo di comunicare il loro legame e, al tempo stesso, la loro importanza.
Pierluigi Terenzi insegna Storia medievale nelle università di Firenze, Padova e L’Aquila, è assegnista di ricerca dell’ateneo fiorentino e coordina un progetto digitale di storia dell’università in quello padovano. È stato allievo dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli e, dopo aver conseguito il Dottorato di ricerca a Milano e Paris IV-Sorbonne, ha collaborato con le università di Napoli Federico II e Padova e con l’École française de Rome. È autore di L’Aquila nel Regno. I rapporti politici fra città e monarchia nel Mezzogiorno tardomedievale (2015) e di numerosi studi sulla storia politica e sociale urbana, sul lavoro edile e sulle digital humanities.