“Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo” di Guido Barbujani

Prof. Guido Barbujani, Lei è autore del libro Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo edito da Laterza: innanzitutto, perché questo titolo?
Gli africani siamo noi. Alle origini dell'uomo, Guido BarbujaniPerché è la cosa più onesta che si possa dire sulle nostre origini. I nostri antenati degli ultimi millenni stavano in tanti posti diversi, ma se risaliamo nel passato di centomila anni li ritroviamo tutti in Africa. Ce lo dicono con chiarezza lo studio dei fossili, l’archeologia, e, da qualche anno, la genetica. Siamo africani in più di un senso: erano africane le prime creature che, milioni di anni fa, cominciando a camminare su due gambe (cosa insolita fra i primati: siamo gli unici a farlo, su oltre 200 specie), hanno messo in moto una serie di cambiamenti che ci hanno portato a evolvere un cervello grandissimo, la facoltà del linguaggio e una serie di altre belle caratteristiche cognitive, tipiche ed esclusive della nostra specie. Ed è dall’Africa dell’est, qualcosa meno di 200mila anni fa, che ci vengono i primi resti fossili di persone con scheletro e cranio come i nostri, e che quindi possiamo classificare come Homo sapiens. Le migrazioni attuali sono la prosecuzione di movimenti migratori continui che, attraverso centinaia di migliaia di anni, hanno permesso agli africani, cioè a noi, di colonizzare i cinque continenti.

In che modo il paradigma razziale ha influenzato la biologia?
L’ha influenzata molto. Per più di due secoli si è, semplicemente, dato per scontato che l’umanità fosse divisa in razze: come i cani, come i cavalli. Lo studio biologico dell’uomo, quindi, doveva partire dall’elencazione delle razze umane (e spesso si limitava a quello). In realtà, qualcosa non funziona, proprio alla base di quest’idea. C’è chi non l’ha ancora capito (per esempio, Piergiorgio Odifreddi, nel suo Dizionario della stupidità, Rizzoli), ma le razze dei cani e dei cavalli non sono state prodotte dall’evoluzione naturale; sono state create deliberatamente dall’uomo, attraverso incroci che puntavano a creare varietà ben distinte: cavalli snelli e veloci per la corsa, oppure robusti e resistenti per il lavoro dei campi; cani aggressivi per la difesa e la caccia, oppure bonaccioni per tenerci compagnia. Vale per tutti gli animali domestici e per le piante coltivate. È chiaro che le razze equine e canine, o i diversi tipi di agrumi che compriamo al supermercato, non sono il risultato di fenomeni naturali spontanei.

Detto questo, esistono però specie in cui gli esperti riconoscono gruppi biologicamente distinti. Il concetto di razza è complicato (e si è complicato ancora di più in tempi recenti). Semplificando un po’, possiamo dire che, quando riusciamo a piazzare gli individui sulla carta geografica in base al loro aspetto fisico o al loro DNA, vuol dire che in regioni diverse ci sono gruppi biologici diversi, e questi gruppi possiamo chiamarli razze. È il caso degli scimpanzé: studiando certe regioni del loro DNA, i primatologi riescono a dire con molta precisione da quale regione dell’Africa provengano; negli scimpanzé esistono quattro razze biologiche distinte. Ma non vale per tutti gli animali. Nessuno può dire se un tonno pinna gialla pescato nel mare proviene dall’oceano Atlantico, Pacifico o Indiano, perché nei tre oceani le popolazioni hanno le stesse caratteristiche biologiche. E noi?

Oggi sappiamo che, da questo punto di vista, l’uomo è più vicino al tonno che allo scimpanzé. Possiamo dirlo perché lo studio del DNA dimostra come gran parte delle varianti dei nostri geni siano cosmopolite, cioè presenti, a frequenze diverse, in tutti i continenti. Il gruppo sanguigno 0 è un buon esempio: ci sono persone di gruppo 0 in tutti i continenti, e se di una persona sapessimo solo che è di gruppo 0 non avremmo idea di quale sia il suo continente di origine. Attenzione: esistono anche varianti genetiche specifiche di un solo continente, o anche di una regione. L’anemia mediterranea o talassemia è una malattia tipica del sud Europa e dell’Asia, e studiando l’emoglobina di persone con la talassemia si può capire se provengono dalla Sardegna o da Cipro, dal delta del Po o dall’India. Ma si tratta di caratteristiche rare e spesso (come nel caso della talassemia) patologiche. A differenza che nello scimpanzé, la grande maggioranza delle varianti del DNA umano è presente in tanti posti diversi. Questo rende molto difficile assegnarci a una regione precisa: in media, troviamo in ogni popolazione quasi il 90% delle varianti genetiche di tutta l’umanità.

Il paradigma razziale aveva però mostrato la corda ben prima che si potesse studiare a fondo il DNA. Se le razze dell’uomo fossero una realtà biologica, utilizzando gli strumenti della scienza gli antropologi si sarebbero messi d’accordo su un catalogo, unico e definitivo, delle razze umane (così come gli astronomi sono d’accordo su quali siano i pianeti del sistema solare, e i chimici su quali siano gli elementi della tavola periodica). Bene, questo catalogo non esiste. Anzi: dal Settecento fino al 1962, quando Frank Livingstone ha pubblicato il suo articolo Sull’inesistenza delle razze umane, di cataloghi ne sono stati proposti centinaia, più o meno sensati, contenenti da 2 a 200 razze, ma ognuno in contrasto con tutti gli altri. Con la consueta lucidità se ne era accorto anche Darwin, che in L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, aveva ironizzato su questo esercizio, definendolo privo d’importanza e inconcludente. Oggi possiamo dire che l’incapacità di mettersi d’accordo su quante e quali siano le razze umane dipende da come sono distribuite le varianti del nostro DNA: come sfumature su una tavolozza di colori continui, non come pezze distinte sul vestito di Arlecchino.

Quali responsabilità ha la scienza rispetto a fenomeni esecrabili come lo schiavismo e il colonialismo?
Non so se fosse inevitabile, ma è un fatto che i cataloghi delle razze umane hanno portato con sé, implicita o esplicita, una gerarchizzazione delle popolazioni umane, con i bianchi europei in alto, e gli altri più in basso. Per due secoli, dal Settecento, c’è chi ha creduto di poter affiancare alla descrizione delle caratteristiche fisiche dei popoli una descrizione delle loro caratteristiche sociali e psicologiche: come se tutti gli europei la pensassero e si comportassero allo stesso modo, e così gli asiatici, gli africani, gli indiani d’America. Naturalmente si tratta di semplificazioni arbitrarie e anche, in parte, ridicole: come quelle secondo cui tutti i genovesi sono tirchi e tutti i napoletani cantano sempre. Ma, come altre fake news, sono servite allo scopo: a giustificare in qualche modo lo sfruttamento violento dell’uomo sull’uomo, l’attribuzione di diritti diversi a gruppi diversi, e il permanere di grandi disuguaglianze. Non nel medioevo, ma nella seconda metà del Novecento, in molti stati americani del sud bianchi e neri non potevano sedersi sulle stesse panchine dei parchi e sugli stessi sedili degli autobus, bere agli stessi rubinetti, usare le stesse toilette e (men che meno) sposarsi fra loro. Non è un caso se ancora oggi le voci più insistenti a favore di una visione razziale della diversità umana vengono da paesi e regioni in cui schiavismo e colonialismo hanno profondamente caratterizzato la società.

Quali sono le più recenti evidenze scientifiche relative all’origine della nostra specie?
Tante. Nell’ultimo decennio siamo venuti a conoscenza di diverse forme umani fossili, come l’uomo di Flores in Indonesia, Homo naledi nell’Africa del sud, e l’uomo di Denisova, la prima specie mai descritta su base esclusivamente genetica. Nella grotta di Denisova, in Siberia, sono stati trovati pochissimi ossicini, da cui è impossibile capire che aspetto avesse il loro proprietario. Ma nel freddo della grotta il DNA di quelle ossa si è conservato così bene che si è riusciti, dopo 50mila anni o giù di lì, a estrarlo, a studiarlo, e a rendersi conto così che si era alle prese con una forma umana che non era né come noi né come i Neandertal.

Oggi una linea di ricerca molto frequentata è quella di chi cerca di capire se, e fino a che punto, queste forme umane (forse specie differenti, forse forme diverse di una stessa specie; non è facile capirlo) si sono incontrate e mescolate fra loro, il che equivale a chiedersi se nel nostro DNA ci siano ancora tracce, magari minime, trasmesse fino a noi da antenati che non classifichiamo come Homo sapiens. Non c’è dubbio che qualche incontro ci sia stato, e che abbia avuto conseguenze: a Oase, in Romania, è stato trovato lo scheletro di una persona anatomicamente simile a noi, il cui DNA rivela che ha avuto un antenato Neandertal quattro o cinque generazioni prima, cioè un trisavolo o un quadrisavolo. Personalmente, tendo a credere che questi incroci siano stati sporadici, e non abbiano lasciato tracce nel DNA di molti europei o asiatici; ma altri colleghi la pensano diversamente, e il dibattito è aperto.

Una seconda linea di ricerca importante è quella che punta a ricostruire i fenomeni migratori del passato. Alcuni sono chiari: le Americhe sono state colonizzate, forse 20mila anni fa, da gente che veniva dalla Siberia, e l’Oceania molto più di recente, da gente che veniva dal sudest asiatico. Possiamo anche escludere che il sud America sia stato colonizzato via mare, da gente che veniva dall’Oceania, per il semplice fatto che i siti archeologici del sud America sono molto più antichi di quelli oceanici. Ma altri movimenti migratori sono più difficili da ricostruire, anche perché la gente ha continuato a muoversi attraverso i millenni. Oggi si discute molto se Homo sapiens sia uscito usa sola volta dall’Africa di (intorno a 60mila anni fa), attraverso la Palestina e da lì in Asia ed Europa, oppure due (la prima volta forse 100mila anni fa) direttamente dal Corno d’Africa nella penisola Arabica, e da lì verso l’Asia del sud. Restate sintonizzati, ne sentiremo delle belle.

Quali basi scientifiche possiede il concetto di «razza umana»?
Oggi, nessuna.

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