“Giuseppe Dossetti. Un innovatore nella Democrazia Cristiana del dopoguerra” di Fernando Bruno

Dott. Fernando Bruno, Lei è autore del libro Giuseppe Dossetti. Un innovatore nella Democrazia Cristiana del dopoguerra edito da Bollati Boringhieri: quale importanza riveste, per la storia del cattolicesimo politico italiano, la figura di Giuseppe Dossetti?
Giuseppe Dossetti. Un innovatore nella Democrazia Cristiana del dopoguerra, Fernando BrunoGiuseppe Dossetti è certamente un protagonista della storia del cattolicesimo italiano. Pur avendo approfondito sul piano storiografico unicamente la vicenda del Dossetti politico, non ho dubbi che il biblista insigne; il fondatore di comunità religiose; l’originale ed inesausto fautore del dialogo interreligioso; l’uomo autorevolmente al lavoro dietro le quinte del Concilio Vaticano II a cominciare dal suo celebre ultimo atto, la Gaudium e Spes; occupi a buon diritto un posto di rilievo assoluto nella storia del cattolicesimo italiano. Anche nel pontificato di Bergoglio colgo echi evidenti del suo pensiero e della sua eredità.

Più controverso mi sembra oggi il giudizio sulla eredità del dossettismo nella storia politica dei cattolici italiani. L’uomo che ha ispirato una intera generazione di grandi leader della DC, da Fanfani (il primo Fanfani, in verità), a Moro, a Zaccagnini (ma dovremmo ricordare anche Galloni, Bodrato, Granelli e tanti altri) e ispirato per decenni le mosse della cosiddetta sinistra democristiana, rischia oggi di essere, secondo la bella immagine coniata da Bianchi e Trotta, oggetto di una desolante operazione di rimozione[1]. Cosa resti della sua eredità politica non saprei dirlo con certezza, ma mi sembra che dopo la fine dei partiti novecenteschi, nell’epoca delle derive plebiscitarie e della cosiddetta democrazia diretta via internet, ci sia poco spazio per la riflessione profonda e appassionata di Giuseppe Dossetti. Forse la domanda andrebbe rivolta ai nostri parlamentari. Ma ho timore che se li interrogassimo oggi uno per uno, solo una piccola minoranza di loro, finanche tra chi si definisce cattolico, saprebbe anche solo articolare una risposta.

Di quale stagione di rinnovamento politico fu protagonista Dossetti?
La stagione dell’agire politico di Dossetti è una stagione densa di avvenimenti capitali per il futuro dell’Italia. Ne diamo conto rispondendo alla domanda 4. Che sulle macerie morali di un ventennio di dittatura e sulle macerie materiali di una guerra devastante, occorresse ricostruire, promuovendo una stagione di profondo rinnovamento politico, era convinzione di tutti i protagonisti della politica del tempo. Il problema è la differenza profonda che intercorreva tra ciascuna ricetta. Ciò che qui interessa è naturalmente la ricetta di Dossetti, ossia cosa lui intendesse per rinnovamento politico in quel tempo di ricostruzione e rinascita.

In un discorso del 1994 al clero di Pordenone Dossetti ebbe a definire in questo modo le finalità del suo agire politico: “Ho cercato le vie di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica”. Per capire il senso profondo di questa affermazione dobbiamo ricollocare storicamente la testimonianza politica di Dossetti. Il crollo dei fascismi ed il ritorno alla democrazia avrebbero dovuto coincidere, nella lettura del parlamentare reggiano, con una grande opera di riforme. Solo la costruzione su basi nuove di un moderno Stato democratico è garanzia – nel suo pensiero – contro ogni ritorno al passato. Ecco, allora, l’attenzione degli uomini di Cronache Sociali (la rivista di cui Dossetti fu artefice ed animatore) al problema della partecipazione e del consenso delle masse popolari al governo dello Stato; la cura rivolta ai problemi del partito ed alla questione del rapporto partito-governo; la sensibilità verso i temi economici; l’accento posto sui compiti di armonizzazione e di coordinamento che, fuori da ogni logica autoritaria o semplicemente burocratica, fanno capo allo Stato. Questi obiettivi di solido e risoluto riformismo affondano le radici in una complessa analisi storica, culturale e politica, che va ben oltre gli orizzonti del vecchio Stato liberal-borgese cui sono rivolti in quegli anni gli sforzi della leadership moderata liberale e democristiana. È una analisi di cui troviamo ampia traccia riassuntiva nei documenti conclusivi, del 1951, che il Dossetti esponente politico ha inteso lasciarci, in forma di vero e proprio testamento politico. Si tratta in particolare di due relazioni, l’una tenuta alla fine di agosto ’51 ad un convegno organizzato dall’UCIIM[2] e dedicato all’educazione dei giovani e l’altra svolta in apertura del III Convegno nazionale di studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani tenuto a Roma nei giorni 12-14 novembre 1951 sul tema funzioni e ordinamenti dello Stato moderno[3].

In questi ultimi scritti politici di Dossetti troviamo innanzitutto, affermata in modo diretto ed inedito per il cattolicesimo politico italiano, una indicazione di rifondazione degli assetti istituzionali e dei poteri statuali ancorata a un principio finalistico esplicito: uno Stato democratico – dice Dossetti – non può limitarsi a svolgere una funzione di statica mediazione tra le forze sociali, ma deve adempiere ad un compito dinamico, di riforma del corpo sociale. Soprattutto esso deve saper intervenire sul terreno economico, adottando le misure necessarie a rovesciare l’immunità ed il predominio del potere economico costituito. Ai cattolici, segnati dal peso di “duemila anni di tirannide subiti”, duemila anni di “conflitti tra il potere spirituale e il potere temporale”, Dossetti chiede di “non aver paura dello Stato”, di superare il “complesso dell’horror statualis”, e di collaborare alla costruzione dello Stato nuovo che deve nascere ed organizzarsi sulle ceneri della dittatura e della guerra.

L’esito di questa riflessione, il punto su cui si decide il destino di Dossetti come leader politico e come uomo, è determinato dalla crescente disillusione in ordine alle possibilità di successo, nell’Italia del secondo dopoguerra, della prospettiva di rinnovamento che egli indica. Dossetti, in queste sue ultime riflessioni politiche, torna con la mente alle grandi speranze suscitate dalla breve stagione della resistenza e dell’unità antifascista e, alla luce di quelle speranze, riflette sulle vicende degli ultimi anni. Il bilancio che ne trae è di un sostanziale fallimento. La spinta rinnovatrice dei primissimi anni del dopoguerra gli appare ormai compromessa, logorata, annullata dalle sue stesse deficienze, ma anche da un ritorno delle forze conservatrici. Il vento di destra che Cronache Sociali aveva da tempo avvertito, l’involuzione che lo stesso Dossetti aveva più volte denunciato, sono ormai una realtà difficile da ribaltare. Le grandi trasformazioni che sconvolgono antichi equilibri e vecchie certezze, lungi dall’annunciare l’auspicato rinnovamento, altro non sono, agli occhi del giovane leader cattolico, che espressione del riassestamento delle vecchie forze. Di fronte a tali sconvolgimenti, la stessa lotta condotta all’interno della DC, la serrata polemica con De Gasperi, sembra piccola cosa (“le forze sociali più interessate alla conservazione (…) del vecchio Stato hanno ormai saputo adattarsi alla nuova situazione e reinserirsi in essa”, scrive Dossetti). La sua disillusione è globale, e chiama in causa il riassetto dei poteri dello Stato, il governo dell’economia, la direzione di marcia impressa al paese dalle sue classi dirigenti. Le sue conclusioni sono nettissime: “si ha ovunque, e ormai in maniera quasi totale, il ritorno alla ribalta di tutte le vecchie forze, di tutti i vecchi uomini di prima della guerra sì che si può dire che la prassi politica è ancora quella del 1940”. È un giudizio irrevocabile, che prelude al definitivo abbandono della politica e che mette in luce le ragioni più vere della sua scelta dirompente: o il silenzio, o il ripiegamento su De Gasperi e su quel tanto di democrazia formale e sostanziale che il capo della DC è in grado di garantire. Di fronte al fallimento di quella stagione di rinnovamento di cui aveva cercato di essere protagonista, Dossetti sceglie l’abbandono della politica e il silenzio.

Quale distanza lo separava da De Gasperi?
Il modo più efficace per cominciare a risponder a questa domanda è dare la parola direttamente a Dossetti, che ricostruisce alla sua maniera le vicende che lo portarono del tutto inopinatamente, nel luglio del 1945, ad assumere l’incarico di vicesegretario nazionale del partito, subito un passo dietro De Gasperi, segretario acclamato e capo indiscusso: “Mi hanno chiamato a Roma i grandi della Democrazia Cristiana nel luglio del 1945 (…) Io non conoscevo nessuno, non ero conosciuto da nessuno. Sono arrivato a Roma con ritardo perché avevo avuto un incidente d’auto a Grosseto. Appena arrivato Piccioni mi ha detto: “Tu sarai vicesegretario della Democrazia Cristiana”. “Ma chi? Io? Ma mi conoscete? Io non vi conosco, non ho mai visto De Gasperi, e voi non conoscete me”. “Sta’ cheto, sta’ cheto, stasera vedrai De Gasperi”. De Gasperi non si è fatto vedere, si è andati alle votazioni e mi hanno eletto. (…). Ripensandoci adesso e vedendo le cose in una prospettiva lontana, quella notorietà provincialissima che avevo allora è servita semplicemente a prendere un uomo del Nord, come si doveva, che avesse fatto un poco di attività partigiana e che fosse così sconosciuto da non poter dare fastidio per l’eternità. Qui c’è stato l’equivoco. C’erano altri nomi, io li ho fatti: perché non questo, non quello? Questi altri nomi erano già noti, si sapeva di loro, invece io ero il meno conosciuto, non sapevano di me, soprattutto non sospettavano che avrei creato delle grane”[4].

Questa notazione finale (non sospettavano che avrei creato delle grane) è bellissima nella sua efficacia fotografica. Il giovane Dossetti è caparbio, ostinatamente fermo nei suoi convincimenti e niente affatto incline all’ossequio al leader, nonostante lui sia uno sconosciuto trentenne, e De Gasperi un capo indiscusso con 40 anni di esperienza politica alle spalle. Sei mesi dopo questa nomina, nel febbraio del ’46, Dossetti ha già accumulato tali e tanti motivi di risentimento nei riguardi dei metodi di direzione imposti dal leader del partito, da avvertire la necessità di comunicare per iscritto la sua conclusione. L’occasione è fornita dalle decisioni del Consiglio dei ministri, nelle sedute del 27 e 28 febbraio 1946, che oltre che sul futuro assetto dei poteri della Costituente, si era pronunciato definitivamente sul referendum cui demandare la scelta sulla forma istituzionale dello Stato. Dossetti, da repubblicano convinto, si batteva da tempo per una decisione politico-istituzionale che evitasse il temuto ricorso al referendum popolare, dall’esito incerto. La lettera parte dal dissidio sulla scelta monarchia-repubblica, per espandersi tuttavia a tutto il “metodo” degasperiano cui Dossetti contesta di tenere il partito sotto tutela, privo di qualsiasi margine di autonomia rispetto all’azione di governo. Durissima nei toni e nei contenuti, la lettera si conclude con le dimissioni da membro della Segreteria, della Direzione e del Consiglio Nazionale.

Insomma, una distanza chiara, fin dagli esordi della loro relazione. Un conflitto di temperamenti, culture e sensibilità che si dipana negli anni tra due personalità forti ed eminenti. Un dissidio che provo a descrivere sommariamente. Dossetti, nato alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, reca nella sua formazione culturale i segni del disfacimento delle certezze borghesi di fine ‘800, e, nel contempo, il bisogno di una rivoluzione di valori; la consapevolezza che si è giunti ad un punto di svolta, ed il desiderio di immaginare il futuro fuori da ogni tatticismo, come progetto politico di grande respiro, con uno slancio ideale forte, ancorché costantemente a rischio di volontaristiche fughe in avanti. Di fronte a lui, si erge l’empirismo di De Gasperi, il senso della concretezza a volte disarmante, l’insofferenza verso tutto ciò che sfugge ai confini di un quotidiano esercizio di consumata abilità politica e diplomatica. Sono due personalità così profondamente diverse per storia, temperamento e formazione teorica da renderne praticamente impossibile l’alleanza sul piano politico. Due diverse culture politiche sorrette da due differenti formazioni teoriche che non sopportano tentativi postumi di ricomposizione unitaria. Come ha scritto Giovanni Miccoli a proposito della sinistra dossettiana, “la progressiva individuazione in De Gasperi dell’avversario da sconfiggere si articolò in temi, spunti, azioni, riflessioni, ripensamenti che andrebbero raccolti e analizzati puntualmente, per capire il formarsi di una linea di opposizione sempre più decisa, non solo nei suoi aspetti politici, ma anche nelle sue motivazioni morali, culturali e religiose[5].

De Gasperi e Dossetti sono su posizioni lontanissime su tutta una serie di questioni di primissimo piano, dal governo dell’economia, alle scelte di politica internazionale; dal rapporto tra azione di Governo e azione di partito, al ruolo stesso del partito politico all’interno di una democrazia parlamentare; fino al nodo del regime istituzionale ed al dilemma monarchia-repubblica. Il dissidio coinvolge anche l’analisi storica. Un primo tema, dirimente, è il giudizio sul fascismo. Diversa è l’analisi delle ragioni che portano i fascismi a prevalere in gran parte dell’Europa; diversissimo l’atteggiarsi rispetto al tema della battaglia antifascista e della resistenza; lontano il giudizio culturale, prima ancora che politico, sull’esperienza della dittatura.

Tutto questo, peraltro, non vuol dire negare l’esistenza di una relazione di reciproco affetto, stima e considerazione. In una lettera di De Gasperi a Dossetti del 1949 troviamo forse la testimonianza più delicata e genuina di un rapporto profondo, ancorché giocato sempre sul filo di una reciproca ineffabilità e impenetrabilità: “ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro – scrive De Gasperi – sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere. E poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto, rassegnato, sulla soglia della tua coscienza”.

Ecco, questo arrestarsi di De Gasperi sulla soglia della coscienza del suo giovane antagonista, questo rispettoso ritrarsi, è forse l’immagine più efficace della distanza culturale e politica che separa i due uomini, ancorché attenuata dal rispetto e dall’affetto che nasceva dalla condivisione di una vita cristiana intensamente vissuta.

Quali vicende segnarono l’impegno politico di Giuseppe Dossetti?
La stagione politica dossettiana, pur così breve (1944-1951), fu così densa e così fortemente segnata dalla presenza ingombrante e autorevole delle varie personalità del gruppo (Dossetti certamente, ma come non ricordare, tra gli altri, la Pira suscitatore del dibattito sulle attese della povera gente, o Lazzati con le sue profonde riflessioni su impegno politico e religioso, o, nell’ultimo periodo, Fanfani, molto presente sui temi del governo dell’economia), che per rispondere esaurientemente alla domanda occorrerebbero pagine e pagine. Proverò a cavarmela con un elenco, e direi dunque, in ordine cronologico:

  1. la stagione resistenziale, vissuta da Dossetti da appassionato partigiano disarmato;
  2. la vicenda del referendum istituzionale vissuta in prima persona da Dossetti da convinto sostenitore della posizione repubblicana, oggetto peraltro del primo asprissimo conflitto con De Gasperi, fautore (pur repubblicano anch’esso) di una più cauta e tattica posizione agnostica;
  3. la stagione costituente, di cui Dossetti (e il suo gruppo) furono autorevoli ed ascoltati protagonisti in sede di redazione della Carta, nel cui articolo 11, per citarne solo uno (l’Italia ripudia la guerra), risuona inconfondibile il suo linguaggio;
  4. l’attività di ricostruzione e riorganizzazione della DC che Dossetti, ancora una volta in opposizione a De Gasperi, pensava dovesse ispirarsi al principio della primazia dell’azione politica e dell’autonomia ideale e programmatica del partito rispetto all’azione di Governo;
  5. la costante polemica contro i tecnici di scuola liberista che guidano l’economia (prima Corbino e poi Einaudi) e la fiera opposizione alle loro scelte di politica economica, nonché, conseguentemente, la richiesta di un più deciso intervento dello Stato in economia in funzione di salvaguardia dei ceti più fragili e poveri, secondo un approccio di tipo keynesiano;
  6. la costante rivendicazione, pur da una posizione convintamente cattolica, dell’autonomia della sfera politica rispetto alle ingerenze ecclesiastiche;
  7. una visione della politica estera sostanzialmente (ma anche utopisticamente dovremmo aggiungere) insofferente dell’atlantismo più spinto, lontana da ogni logica di potenza, fautrice del dialogo internazionale e di scelte di pace, che si spinge fino all’opposizione al Patto atlantico, forse la battaglia più simbolica, ma anche più minoritaria e meno meditata politicamente, di Dossetti.

Cosa rappresentò, per il dibattito politico dell’epoca, la rivista «Cronache Sociali»?
Cronache Sociali (1947-1951) costituì una vera e propria ventata di novità nel panorama delle riviste di partito di quel tempo (e forse di ogni tempo), tutte strettamente legate a logiche di schieramento e fortemente orientate dal punto di vista ideologico e programmatico. Pur avendo una sua precisa e forte identità ideale, ed una chiarissima impostazione programmatica (si pensi ad esempio alla sua capacità di stare costantemente dentro al dibattito di politica economica di quegli anni, con una propria netta e riconoscibilissima fisionomia) essa seppe qualificarsi, in una stagione politica di fuoco segnata da conflitti e contrasti fortissimi, come un luogo aperto al dialogo, capace di ospitare anche voci discordanti, secondo una linea decisamente laica e liberal, come diremmo oggi. I toni scelti per presentare il primo numero della rivista sono molto indicativi al riguardo: “Troppe volte ci incontriamo con giornali che ostentano il disprezzo per gli uomini che non sono dalla loro parte (…). Nel dare vita a Cronache Sociali noi affermiamo un rispetto senza condizione per tutti gli uomini, e le opinioni che di loro crediamo errate e gli stessi errori della loro vita desideriamo conoscerli, prima che come luoghi di combattimento, come nostri personali dolori. Affronteremo su Cronache Sociali la difficile prova di affermare la verità come metodo di pensiero, di lavoro e anche di lotta. La verità, in un giornale, vuol dire obiettività, informazione, documentazione, serenità (…). Cronache Sociali non vuole essere giornale di partito, o della corrente di un partito (…), ma non vuole con ciò sottrarsi a un impegno di valutazioni sociali e politiche, e anzi nasce proprio per questo impegno: ma non lo intende ristretto ai contrasti della politica minore, bensì esteso e preoccupato soprattutto nella ricerca di quelle connessioni che sono radicate nella sostanza viva dei problemi dell’uomo contemporaneo[6]”.

Mi pare che questa prosa, che peraltro risale al maggio del 1947- quindi, si noti, ai giorni in cui matura la rottura del tripartito DC-PCI-PSI e si chiude la stagione resistenziale e la breve collaborazione di governo tra De Gasperi e la sinistra – non abbia bisogno di ulteriori commenti per dirci cosa fosse Cronache Sociali, e di quanta novità, curiosità intellettuale e coraggio politico fosse portatrice.

Come maturò la scelta di abbandonare la politica?
Le ultime pagine del mio Giuseppe Dossetti rispondono molto precisamente a questa domanda. Nella storiografia e nella memorialistica, possiamo facilmente estrapolare due risposte di segno opposto, al riguardo.

La prima è quella che sostiene che l’abbandono della politica scaturisce dalla prevalenza, sempre più urgente e più forte, dell’istanza religiosa (così, tra gli altri, Augusto Del Noce e Giorgio Campanini). Peraltro, è Dossetti medesimo, moltissimi anni dopo, a sostenere questa tesi definendo la sua breve stagione politica una preparazione provvidenziale alla sua nuova stagione di uomo di Chiesa[7].

La seconda è quella che argomenta che il ritiro dalla politica ha ragioni tutte e solo politiche, quale conseguenza del consumarsi di una stagione appassionata, ma condannata permanentemente alla minorità e alla sconfitta.

Personalmente propendo, come appare chiaro da ciò che ho cercato di dire finora, e come sostengo nel libro con dovizia di argomenti e riferimenti bibliografici, per questa seconda ipotesi. Anch’essa, peraltro, ha trovato nel tempo autorevolissimi sostenitori (Giovanni Miccoli, Achille Ardigò, Giorgio Galli, Romano Prodi).

Per rispondere alla domanda occorre a mio giudizio partire dallo stretto nesso stabilito nell’azione del gruppo dossettiano (si pensi anche a Lazzati e La Pira) tra presenza politica ed impegno religioso. Isolando e privilegiando un elemento rispetto all’altro, non si coglie quella continua interazione dei due elementi che costituisce una delle cause principali della crisi di Dossetti. A me sembra che la scelta sacerdotale sia soprattutto la conclusiva presa d’atto della impossibilità di portare a sintesi armonica impegno politico e testimonianza religiosa, che non piuttosto lo sbocco scontato di una vita consacrata in partenza al sacerdozio ed al silenzio monacale. Dire che Dossetti era comunque destinato a “farsi prete” significa non cogliere la complessità dei problemi posti dal suo ritiro. Certo la sua sensibilità religiosa era molto forte, ma ciò non toglie che essa avrebbe potuto benissimo continuare a dare i suoi frutti sul terreno della politica, se solo l’iniziativa del gruppo dossettiano avesse avuto qualche chance di incontrare un punto di raccordo con la leadership e il programma di De Gasperi. È il perdurante e sempre più aspro conflitto dentro al partito, e l’incombere di un’alternativa bruciante – o il cedimento, o la rottura definitiva con De Gasperi ed il contrasto con le gerarchie ecclesiastiche – a produrre quello spostamento d’orizzonti che convince il leader di Cronache Sociali a ricercare risposte su un terreno nuovo. La scelta della testimonianza individuale, vissuta sino alle estreme conseguenze dell’eremitaggio, e perseguita fino alla fine con coerenza incrollabile, solo di tanto in tanto mitigata da qualche occasionale comparsa in pubblico, nasce sulle ceneri della sconfitta dell’impegno pubblico.

Storico in prestito, ancorché tenace e appassionato, Fernando Bruno si occupa di diritto, economia e sociologia dei media. Ha attraversato indenne, e sostanzialmente inosservato, tutte le istituzioni pubbliche del settore media e ICT, traendone alcune soddisfazioni e molti spunti per i suoi tanti scritti in materia. Coccola come può i suoi interessi extra, dal cinema al jazz, dal teatro ai viaggi. Qualche biografia più dettagliata, per palati esigenti, circola liberamente sul web.

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[1] Giovanni Bianchi-Pino Trotta, La rimozione di Dossetti, Eremo e metropoli edizioni, 2015.

[2] Di questa relazione non esiste il testo originale, ma un semplice sunto, peraltro non rivisto dall’autore, pubblicato per la prima volta sull’organo dell’UCIIM La scuola e l’uomo, ago. 1951, pp. 3-4. Il documento si trova oggi nel volume che raccoglie gli atti del convegno (AA.VV., L’Educazione sociale del giovane, Roma, UCIIM, 1951)

[3] Il testo della relazione in AA.VV., I problemi dello Stato, Roma, Cinque Lune, 1977, pp. 1-58

[4] Giuseppe Dossetti, Scritti politici, Genova, Marietti, 1995, pag. 55.

[5] (Giovanni Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile, in AA.VV, L’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pag. 223).

[6] Redazionale senza firma, in Cronache Sociali, anno I, n.1, 30 maggio 1947

[7] Cfr. il discorso tenuto in occasione del conferimento dell’Archiginnasio d’Oro, Bologna, Palazzo comunale, 22 febbraio 1986, il cui testo integrale è pubblicato ne Il Regno, n. 6, 15 marzo 1986.

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