
La sapienza giuridica romana è stata in buona parte edificata dal lavoro del giureconsulto, definito da Cicerone (De oratore, I, 48, 217) come «l’esperto delle leggi, e di quelle norme consuetudinarie che i cittadini osservano in quanto privati; e di questa sua competenza si serve sia per dare pareri, sia per allestire schemi negoziali o processuali».
L’opera dei giuristi ha contribuito a far germogliare le Università. I giuristi si sono radicati nella tradizione occidentale grazie al loro prestigio culturale e al loro successo pratico tanto da costituire il minimo comune denominatore tra le esperienze di civil law e di common law.
Esistono varie figure di giuristi: innanzitutto gli esercenti le classiche professioni legali, ovvero avvocati, magistrati e notai. Ma si pensi anche al giurista d’impresa o al consulente del lavoro.
Quali sono e come si acquisiscono le specifiche abilità delle professioni legali?
Alla luce della normativa vigente (nata a seguito del cosiddetto “Processo di Bologna” e della Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente) i processi formativi devono valorizzare sempre più i risultati dell’apprendimento, al fine di facilitare la verifica dell’equiparabilità dei titoli, e di rendere più intellegibili i possibili sbocchi professionali.
I risultati dell’apprendimento sono definiti in termini di: conoscenze (sapere), abilità (saper fare), competenze (saper essere).
I giuristi, pertanto, devono padroneggiare: saperi, abilità, competenze.
La distinzione tra sapere e abilità è di fondamentale importanza. Ad esempio, conoscere i principi e le regole che governano il diritto dei contratti [sapere] è cosa diversa dall’essere in grado di scrivere il testo di un contratto che tuteli in concreto gli interessi di un determinato soggetto che deve contrarre un mutuo con una banca [saper fare]. Il sapere giuridico corrisponde al patrimonio sapienziale accumulato dai giuristi. Detto sapere è la base su cui il giurista innesta il proprio «saper fare».
Tante sono le abilità che il giurista deve possedere: saper interpretare, saper scrivere (leggi, sentenze, contratti), saper risolvere problemi, saper negoziare, saper trovare soluzioni innovative ai problemi, saper rapportarsi al cliente e così via.
Mentre il sapere si apprende attraverso il linguaggio (leggendo libri e ascoltando i docenti) le abilità si apprendono attraverso l’osservazione, l’imitazione e l’esperienza.
Qual è l’importanza della comprensione dei testi giuridici e quali difficoltà presenta?
Se si guarda all’esperienza occidentale, si rileva immediatamente come il diritto sia caratterizzato dal primato del testo (leggi, sentenze, articoli di dottrina). Un testo che si compone di segni linguistici, che utilizza un linguaggio, che produce regole, ragionamenti e discorsi. Il linguaggio e le parole pongono e al tempo stesso esprimono l’insieme di proposizioni nelle quali, secondo un sentire comune, il diritto si manifesta. Linguaggio e parole vengono utilizzati per interpretare quell’insieme di proposizioni e, più in generale, per produrre ragionamenti e discorsi. Il processo, proprio dell’attività interpretativa, di costruzione (attribuzione o scoperta) del significato è un meccanismo complicato che storicamente ha conosciuto una pluralità di approcci in funzione dei diversi modi di intendere e produrre cultura giuridica.
La comprensione del testo richiede il possesso di alcune abilità: saper elaborare gli aspetti sintattici di un testo; saper riconoscere contesto e protagonisti di una descrizione/storia; saper stabilire collegamenti fra parti anche distanti di un testo; saper ricavare delle implicazioni non esposte esplicitamente; saper generare una rappresentazione del significato; saper capire che non si sta capendo; e così via.
Come si leggono atti normativi, sentenze e contratti?
Nel lavoro del giurista la comprensione del testo acquista rilievo particolare nell’attività di interpretazione ovvero nell’attività di accertamento del significato delle norme giuridiche. Con il termine «interpretazione» si intende tanto l’attività attraverso cui si giunge alla costruzione del significato degli enunciati linguistici quanto il risultato di detta attività. Sono state elaborate molte teorie sull’interpretazione che spaziano dal formalismo più stretto allo scetticismo più radicale. I giuristi hanno sviluppato delle tecniche interpretative ovvero degli argomenti interpretativi che possono essere portati a sostegno di una soluzione interpretativa.
L’attività interpretativa riguarda anche il testo delle sentenze, ovvero di quei provvedimenti con i quali i giudici applicano le norme giuridiche al caso concreto. Capire una sentenza significa comprendere il problema affrontato dal giudice e il principio di diritto che è stato applicato per risolverlo.
Per quel che riguarda i contratti, occorre definire quale sia il regolamento contrattuale concordato dalle parti, ovvero l’insieme dei mutamenti che le posizioni giuridiche dei contraenti subiscono per effetto del contratto: nascita, estinzione, trasferimento, modificazione di diritti e di obblighi.
Come si redigono invece contratti, atti del processo e provvedimenti amministrativi?
I corsi di laurea in giurisprudenza spesso si sviluppano soltanto «oralmente». Raramente studenti e studentesse vengono chiamati a redigere un testo scritto: anche gli esami si svolgono nella forma del colloquio (interrogatorio) orale. Cosicché di regola i ragazzi giungono a cimentarsi con la stesura della tesi di laurea avendo come ultima esperienza di scrittura il compito di italiano all’esame di maturità. Eppure il giurista, di volta in volta, deve scrivere leggi ben congegnate, sentenze e atti di parte correttamente motivati, negozi giuridici finemente strutturati, e così via.
L’attività di scrittura richiede almeno una parziale consapevolezza di ciò che si sta scrivendo. È infatti necessaria: a) la conoscenza del processo (strategica o procedurale): riguarda la definizione di obiettivi, il monitoraggio e la valutazione di come ci si sta avvicinando ad essi, la realizzazione dei cambiamenti che si rendono via via necessari; b) la conoscenza del prodotto: attiene alla consapevolezza dei vari tipi, strutture e organizzazioni del testo, data dalla conoscenza di come si sviluppano frasi e paragrafi, delle funzioni di un testo in generale e in un determinato contesto sociale contraddistinto da un obiettivo specifico e da un particolare uditorio.
Come si applica il problem solving nel mondo del diritto?
Il giurista è per definizione chiamato a risolvere problemi. Questo avviene perché la società guarda al diritto come a uno strumento utile a dare risposta alle esigenze che dalla stessa provengono. Al legislatore si chiede di emanare norme utili a risolvere i più disparati problemi, e dietro l’atto normativo c’è (o dovrebbe esserci) il sapiente lavoro del giurista che traduce le scelte dei decisori e dei regolatori in articolati di legge. Al magistrato si chiede di risolvere il problema alla base della controversia tra gli utenti della giustizia. Al notaio si chiede di trovare gli strumenti più utili a soddisfare il problema che assilla i propri clienti (ad esempio: trovare mezzi di trasmissione della ricchezza alternativi al testamento). Quest’ultimo scenario interessa anche gli avvocati i quali devono anche trovare la strategia più utile a rappresentare in giudizio i propri clienti, strategia che a volte passa proprio dall’enucleazione di innovazioni giuridiche da prospettare al giudice in vista della soluzione del problema oggetto di causa. Anche il giurista d’impresa quotidianamente affronta e risolve problemi nel quadro della gestione del rischio giuridico d’impresa.
Schematizzando, si può dire che sono quattro le principali tipologie di problemi affrontati dai giuristi.
1) Creare regole per risolvere problemi (la legislazione come risposta ai problemi).
2) Applicare regole a problemi (questioni e problemi nel processo).
3) Scrivere contratti per risolvere problemi (l’autonomia privata come risposta ai problemi dei contraenti).
4) L’interpretazione come problema.
Quali abilità riflessive deve possedere un giurista?
Uno dei limiti più significativi dell’Università è che non insegna a capire in cosa si è bravi. Spesso si arriva alla laurea con un libretto pieno di trenta senza aver ancora capito se si è portati più per le materie civilistiche che per quelle penalistiche. Se si rende meglio nelle prove orali o in quelle scritte. Se si preferisce un certo tipo di attività (ad esempio giudicare in una posizione di equidistanza e terzietà) ovvero un’altra (difendere un determinato interesse in giudizio).
Il successo nello studio e nella professione è favorito da un’abilità molto importante: la capacità di riflettere su ciò che si sta facendo e sul modo in cui lo si fa. Quando si legge un libro o quando si persegue una strategia processuale è importante interrogarsi sulle attività poste in essere dalla nostra mente e monitorare continuamente le azioni eseguite in vista del raggiungimento dell’obiettivo sì da poterle ricalibrare in continuazione per una resa finale efficace.
La conoscenza di se stessi e la riflessione sulle proprie attività aiuta a far maturare un’altra abilità molto importante: la capacità di autovalutazione. Per affrontare i compiti sempre più complessi che la società affida ai professionisti occorre essere bravi giudici di se stessi per capire innanzitutto se un determinato compito è alla nostra portata oppure no.
Il giurista deve anche saper trovare soluzioni nuove a problemi vecchi e nuovi. Per sfatare l’idea diffusa secondo la quale il lavoro del giurista è ripetitivo e noioso è sufficiente ricordare che la storia è piena di esempi di innovazioni giuridiche dovute all’opera del legislatore, della giurisprudenza, della prassi, della dottrina. Dietro queste innovazioni c’è l’opera sapiente del giurista che si serve di una serie di tecniche per fornire nuove risposte a vecchi e nuovi problemi. I giuristi devono imparare le tecniche della creatività e dell’innovazione giuridica.
Quanto contano le abilità relazionali nelle professioni giuridiche?
Tantissimo. Si pensi:
- A) al saper parlare in pubblico. Parlare in pubblico è una tecnica, cioè un’arte nel senso classico della parola: arte della persuasione, insieme di regole, di ricette, la cui messa in opera permette di convincere l’ascoltatore del discorso. L’arte di parlare non è un dono di natura e non è qualcosa che si possa improvvisare, ma qualcosa a cui tutti, se vogliono, possono avvicinarsi così come a una lingua straniera. Nessuno nasce oratore; lo si diventa al prezzo di molti esercizi, di tanta assiduità, di molte applicazioni;
- B) al saper negoziare. Il giurista spesso è chiamato a condurre trattative in vista della conclusione di un accordo. Conviene innanzitutto ricordare alcune scelte legislative recenti che tendono a potenziare strumenti utili a prevenire il ricorso al contenzioso come la negoziazione assistita. Ma al di là di dette ipotesi, si pensi al caso dell’avvocato che deve sondare con parte avversa le possibilità di giungere a una transazione su una controversia in corso o scongiurare l’insorgere di una lite in futuro. O, ancora, alla fase delle trattative che precede contratti importanti (fusione tra grandi banche, accordi di collaborazione commerciale, appalti internazionali, contrattazione collettiva di lavoro) ove è importante valutare gli elementi del contesto che, insieme alle regole giuridiche, possono influenzare il possibile assetto degli interessi. Esistono precise tecniche per diventare un bravo negoziatore;
- C) al saper lavorare in gruppo e al saper essere leader. Quasi mai il giurista opera in solitudine. Condividere con altri responsabilità e impegno, spazi e tempo, entusiasmo e fatiche se può essere un’esperienza arricchente a livello professionale e umano e che aiuta ad analizzare i problemi da punti di vista diversi e a trovare soluzioni innovative, presuppone però che le persone coinvolte siano in possesso delle abilità relazionali necessarie per lavorare in gruppo e, all’occorrenza, per coordinare e guidare il team.
Il libro, in edizione rinnovata, contiene alcuni esempi di abilità professionali specifiche, come il rapporto con il cliente o l’esame e controesame dei testimoni: quali particolari suggerimenti offre agli interessati?
Il rapporto con il cliente caratterizza la professione dell’avvocato e quella del notaio. Gestire tale relazione presuppone il possesso di una serie di abilità ivi comprese quelle comunicative volte a favorire l’instaurazione di un rapporto il più possibile empatico. Un modo per affrontare il rapporto tra avvocato e cliente è descritto da Antonio nel De Oratore di Cicerone (II, 102): “La mia pratica abituale è far sì che il cliente mi illustri il suo caso, da solo a solo, perché possa esprimersi più liberamente, e poi di prendere le parti del suo avversario, per costringerlo a difendere la sua causa e a esporre interamente il suo punto di vista sulla questione. Poi, una volta che il cliente se ne è andato, da solo interpreto con la massima imparzialità tre ruoli: il mio, quello della parte avversa e quello di giudice”.
La testimonianza è un mezzo di prova molto importante nel processo, specie in quello penale. Il modello accusatorio che da qualche lustro contraddistingue il nostro sistema (sulla falsariga dell’esperienza statunitense) richiede che le parti, in competizione tra loro, formino in udienza le prove, ovvero le fonti di conoscenza del fatto sulle quali il giudice terzo maturerà il proprio convincimento. In questo modello un ruolo cruciale assumono l’esame e il controesame dei testimoni chiamati dall’accusa ovvero dalla difesa. Già Calamandrei scriveva: «bisognerebbe che nella preparazione professionale dei magistrati si desse largo posto agli studi sperimentali di psicologia delle testimonianze: e che nelle promozioni, prima della sapienza con cui il giudice sa leggere nei codici stampati, si considerasse titolo di merito la paziente penetrazione con cui sa decifrare le crittografie nascoste nel cuore dei testimoni».