
Su cosa fondano la propria autorità le diverse giurisdizioni internazionali?
La fondano sul consenso delle parti. Nessun procedimento giudiziario internazionale può svolgersi senza il consenso delle parti, il che rende le giurisdizioni internazionali ben diverse da quelle interne, le quali invece possono procedere senza e anche contro la volontà di una o di tutte le parti. In questo senso le giurisdizioni internazionali assomigliano a ciò che nel diritto interno dello Stato è l’arbitrato, che appunto è ammesso (con dei limiti) solo se le parti sono d’accordo. Il requisito del consenso sembra introdurre una grave imperfezione nel sistema giuridico internazionale. Ma ha una ragione: il mondo che conosciamo è un mondo di Stati, cioè mondo di circa 200 autorità politiche ciascuna delle quali governa in esclusiva una porzione di superficie terrestre e tra le quali esistono regole comuni di coordinamento (il diritto internazionale). Gli Stati sono enti “sovrani” nel senso che non riconoscono alcuna autorità superiore, quindi neanche una Corte che possa imporre sue sentenze senza o contro la loro volontà.
Con quali modalità e da chi viene esercitata la giurisdizione sulle controversie interstatali?
La funzione giurisdizionale internazionale viene tradizionalmente esercitata nelle controversie tra Stati. Il principale organo ad esercitarla è la Corte internazionale di giustizia (CIG), che è il principale organo giudiziario dell’ONU. Solo gli Stati possono essere parti dinanzi alla CIG. Per farlo, come ho detto, devono accettarne la giurisdizione, il che può avvenire con vari metodi, ma essenzialmente attraverso una clausola arbitrale oppure una dichiarazione unilaterale. Quando le viene sottoposta una controversia, la CIG verifica alcune questioni circa la ricevibilità del ricorso prima di entrare nel merito: se c’è il consenso delle parti, se vi è (o se vi è ancora) una “controversia” tra le parti, se le parti sono legittimate a stare in giudizio in quanto hanno un “interesse diretto” nel caso, ecc. La CIG poi esamina il merito, valuta gli argomenti delle parti alla luce del diritto internazionale (a meno che le parti non le chiedano di pronunciarsi secondo equità, il che finora non è mai avvenuto) e conclude, a maggioranza dei suoi giudici, a favore o meno del ricorso. Più o meno lo stesso iter è seguito da altri tribunali che giudicano controversie interstatali, come il Tribunale internazionale del diritto del mare, ecc.
Come viene esercitata la giurisdizione sui diritti dell’uomo?
Soprattutto dal secondo dopoguerra sono stati conclusi trattati sui diritti umani con appositi organi internazionali di controllo sul loro rispetto da parte degli Stati parti. Alcuni, come i vari Comitati ONU esistenti, si pronunciano con rapporti non giuridicamente vincolanti; altri sono invece veri e propri tribunali internazionali le cui sentenze sono giuridicamente vincolanti. Tra i secondi ultimi spicca la Corte europea dei diritti umani (nota anche come “Corte di Strasburgo”), ma corti simili si trovano anche in America e in Africa. In questi casi, diversamente da quelli “inter-statali”, la controversia è tra uno Stato e un individuo. Ogni individuo può infatti adire la Corte accusando uno Stato (il più spesso si tratta del proprio Stato) di aver violato uno o più dei diritti attribuitigli dal trattato che la Corte adita è chiamata ad applicare. Ad es. un cittadino italiano può adire la Corte di Strasburgo accusando lo Stato italiano di aver violato il suo diritto ad un equo processo sancito dalla Convenzione europea sui diritti umani del 1950 (CEDU). Il diritto di ricorso a Strasburgo spetta comunque a chiunque, anche cittadino di uno Stato terzo (ad es. tunisino), contro uno dei 47 Stati parti della CEDU. La Corte può accertare o meno che la violazione c’è stata. Se sì, condanna lo Stato, di solito al versamento di una somma a titolo di risarcimento; talvolta può condannare lo Stato, in aggiunta, a prendere misure di carattere generale, che vanno oltre il caso singolo, ad es. legislative, allorché accerta che la violazione nel caso di specie deriva da un problema strutturale nello Stato.
Qual è stata l’evoluzione storica della giurisdizione penale internazionale?
Tutto essenzialmente nasce con il Tribunale di Norimberga che giudicò i “principali criminali” nazisti alla fine della seconda guerra mondiale. Venne allora introdotta l’idea che non solo gli Stati ma anche gli individui hanno obblighi internazionali, concernenti diritti umani fondamentali, della cui violazione (c.d. crimini internazionali), data la loro gravità, devono rispondere penalmente e a prescindere se abbiano agito come privati o come organi di uno Stato. Il Tribunale di Norimberga giudicò in base ad uno Statuto che elencava i crimini per i quali era competente: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace. Sorsero, come è noto, dei problemi con la sentenza di Norimberga, tra l’altro perché i giudici del Tribunale erano tutti degli Alleati (vincitori) e gli imputati erano tutti tedeschi (vinti). Nel 1946 l’Assemblea generale ONU adottò una risoluzione che faceva propri i “princìpi di Norimberga”. Nel 1948 venne conclusa la Convenzione contro il genocidio, con l’idea di creare un tribunale penale internazionale. Nel periodo della guerra fredda, tuttavia, data l’opposizione tra i due blocchi, non se ne fece nulla. Appena cessata la guerra fredda, nel 1993 e nel 1994 i membri permanenti del Consiglio di sicurezza trovarono l’accordo per creare due Tribunali penali internazionali, detti ad hoc perché limitati a giudicare solo i crimini commessi nella ex Jugoslavia all’epoca della sua dissoluzione e in Ruanda nel 1994. Infine, nel 1998 è stata creata (a Roma) la Corte penale internazionale, non dal Consiglio di sicurezza bensì attraverso un accordo, che ha iniziato a funzionare dal 2002. È da notare che mentre le Corti sui diritti umani possono essere attivate da individui e giudicano solo Stati, i tribunali penali internazionali sono attivati dall’iniziativa di un loro organo, il Procuratore, che riceva una notitia crimins, e giudicano (ed eventualmente condannano a pene quali la reclusione ed altro) individui.
Quali crimini giudica la giurisdizione penale internazionale?
Giudica i “crimini internazionali”, ossia violazioni gravissime dei diritti umani, come la tortura o il genocidio, commessi da organi dello Stato o da privati. L’elenco dei crimini internazionali varia a seconda del tribunale penale internazionale considerato, ma ruota in linea di massima attorno a quattro categorie: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro la pace e genocidio. I crimini di guerra sono violazioni gravi del diritto internazionale umanitario (cioè della branca del diritto internazionale che si applica nei conflitti armati) commessi in connessione ad un conflitto, internazionale o interno, come l’uccisione di civili o di prigionieri di guerra. I crimini contro l’umanità sono “attacchi alla popolazione civile estesi e/o sistematici”, come la tortura o lo sterminio. Mentre i crimini di guerra possono consistere in atti singoli o sporadici, i crimini contro l’umanità richiedono un’azione su larga scala e facente parte di un piano. I crimini contro la pace i riducono essenzialmente all’atto di aggressione militare. Il genocidio è definito dalla Convenzione del 1948 e, diversamente da come si è soliti pensare, può consistere anche in atti diversi dall’uccisione su larga scala. Decisivo è l’intento, di solito assai difficile da dimostrare in pratica, di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Quindi non è genocidio ai sensi della Convenzione il “genocidio politico” o il c.d. “genocidio culturale”, a meno che non ricorrano i presupposti dei suddetti quattro gruppi protetti.
Come viene classificata la guerra nell’ambito del diritto internazionale?
In passato la guerra era considerata un mezzo di soluzione delle controversie internazionali ed era sempre lecita; semmai esistevano norme applicabili al conflitto in corso, ad es. a protezione dei soldati malati o feriti. Oggi per fortuna il ricorso alla guerra, e più in generale all’uso della forza militare, in principio è vietato (art. 2, par. 4, Carta ONU) e non è più considerato come il “normale” mezzo di soluzione delle controversie. Come ho detto all’inizio, oggi le controversie vengono quasi sempre affrontate ricorrendo a mezzi diplomatici o a mezzi giurisdizionali, cioè a mezzi pacifici. L’inizio di una “guerra” in senso tecnico dipende dall’apertura di fatto delle ostilità; lo scopo tradizionale di una guerra è l’annientamento del nemico. Per questo non sono “guerra” le operazioni di peace-keeping cui partecipano anche contingenti italiani, dirette di solito a ricostituire le istituzioni in uno Stato o in un territorio dopo un conflitto, interno o internazionale. Si spiega così la mancata applicazione in questi casi delle norme della nostra Cost. relative alla delibera dello stato di guerra. Ci sono poi guerre autorizzate dal Consiglio di sicurezza ONU in territorio estero e per queste la partecipazione italiana in principio è, almeno a mio avviso, legittima sulla base dell’art. 11 Cost. Quest’ultima norma afferma sì il (sacrosanto) principio del ripudio della guerra “come mezzo offensivo” di soluzione delle controversie, ma non esclude né, come è ovvio, una guerra difensiva in legittima difesa, né la partecipazione italiana ad operazioni militari autorizzate dal Consiglio di sicurezza ONU. Resta naturalmente illecito ogni comportamento che vada oltre l’autorizzazione o il mandato ricevuto.
In momenti storici come il nostro, ci si interroga su quali mezzi diplomatici di soluzione delle controversie internazionali esistano e che efficacia essi abbiano
Scontri tra popoli ci sono sempre stati e sempre ci si è chiesti come potessero risolversi senza ricorrere alle armi. La diplomazia è documentata, attraverso emissari di vario tipo, sin dagli inizi della civiltà che conosciamo, cioè già dal II millennio a.C. e il diritto internazionale diplomatico è forse il settore più tradizionale e solido dell’intero diritto internazionale. Il sistema oggi più praticabile e auspicabile è il ricorso alla diplomazia e, se la diplomazia non riesce, ad un terzo imparziale che si pronunci secondo diritto, cioè ai giudici internazionali.