
E mano a mano che proseguivo nella mia ricerca, che alle immagini affiancava, ovviamente, le fonti letterarie (soprattutto Dione Cassio ed Erodiano, autori particolarmente importanti perché vissuti al tempo dei Severi) e le innumerevoli iscrizioni che bene illustrano il suo insostituibile ruolo ai vertice dell’Impero, pensavo che la sua figura avrebbe meritato la penna di un Corneille o di un Racine, che avrebbero saputo coglierne la grandezza e la miseria, fissando per sempre il suo ritratto nell’immaginario moderno e consegnandolo magari alla genialità di un Pasolini che l’avrebbe resa eterna. Erano gli anni in cui veniva per la prima volta proiettata nelle sale cinematografiche la sua Medea, e io non potevo esimermi dal sovrapporre al volto dell’Augusta venuta dalla Siria quello tragico, dagli occhi senza lacrime, di Maria Callas. Ci sono infatti nella vita di Giulia Domna alcuni episodi che hanno la forza drammatica di una scenografia teatrale: uno in particolare merita di essere ricordato, ed è quello dell’assassinio del figlio Geta ad opera del fratello Caracalla.
Il delitto avvenne alla fine del 211; Settimio Severo era morto da pochi mesi e aveva lasciato l’Impero ai due figli, Caracalla e Geta, sperando in una pacifica successione. Ma essi si odiavano e il vizioso e crudele Caracalla non sopportava di dividere con il fratello quel grande potere che riteneva spettasse di diritto a lui solo. Tutto si compì nelle stanze della madre, dove con l’apparente volontà di una pacificazione Caracalla aveva convocato Geta. Appena il giovane ebbe varcato la soglia, su di lui si gettarono i sicari (secondo taluni alla testa del gruppo c’era addirittura Caracalla), e invano Geta si rifugiò fra le braccia della madre, invocando protezione: “Madre, madre, mi uccidono!” queste sono le parole riportate da Cassio Dione. Ma tutto fu inutile, la furia omicida non si placò ed egli spirò fra le braccia di Giulia Domna. E io me la sono immaginata come una mater dolorosa, che con le vesti macchiate di sangue stringe fra le braccia il corpo esanime di colui che ella aveva generato, mandato a morte dal suo stesso fratello.
Cosa avvenne poi? Ci si aspetterebbe una reazione di condanna da parte della madre che aveva assistito impotente all’assassinio; invece nulla. È questo uno di quei casi in cui ben si misurano le umane contraddizioni: Giulia Domna si negò il pianto e il lutto e coprì l’orrendo delitto forse per non gettare Roma nel caos, forse per non rinunciare a quel potere a cui aveva dedicato tutta la vita. Ne fu ripagata con un ruolo a corte che mai nessuna donna ebbe né prima né dopo di lei: le fu infatti affidato il compito di responsabile della corrispondenza in lingua greca e latina con diritto di firma, ruolo che ricoprì fino alla sua morte.
Quali erano le origini di Giulia Domna?
Giulia Domna nacque ad Emesa, una piccola, fiorente città sulle rive del fiume Oronte (l’odierna Homs in Siria), di fondazione abbastanza recente (non se ne ha notizia prima del II secolo a.C.), sorta intorno a un culto solare, che si era sviluppato a causa della presenza di un meteorite (la pietra nera di Emesa), che era divenuto l’idolo aniconico del santuario più importante del ricco centro urbano.
Non sappiamo precisamente la data della sua nascita, probabilmente poco dopo il 170 d.C., ma abbiamo alcune notizie sulla sua famiglia: il padre, Giulio Bassiano, erede forse della dinastia che aveva fondato la città, ricopriva il ruolo di gran Sacerdote del dio Sole, ed era di conseguenza il personaggio più ragguardevole di Emesa. Giulia Domna aveva una sorella maggiore, Giulia Mesa, che fu al suo fianco tutta la vita e che dopo la sua morte prese saldamente in mano lo scettro del potere. Nulla sappiamo della sua infanzia, che dovette essere contraddistinta dalle fastose cerimonie officiate dal padre in onore del dio, cerimonie che ci sono descritte con grande dettaglio da Erodiano, che ricorda “le tuniche purpuree trapunte d’oro, fornite di larghe maniche e lunghe fino ai piedi… le calze adorne anch’esse d’oro e di porpora… e la mitria tempestata di ogni sorta di pietre preziose”, indossate dal sacerdote. Gli astanti non erano da meno, tutti abbigliati in vesti sfarzose e coloratissime, in estatica contemplazione del loro idolo, pienamente partecipi di quell’atmosfera di esaltazione mistica che caratterizza molti dei culti orientali, indotta dalla profusione di luci, dai profumi inebrianti, a cui si aggiungeva una musica assordante in cui i suoni striduli degli strumenti a fiato si mescolavano a quelli ossessivi dei tamburi.
Ma come, e quando avvenne l’incontro con quell’uomo tanto più vecchio di lei e diverso per origini ed esperienze, che sarebbe divenuto suo marito? Non lo sappiamo, anzi è plausibile credere che il primo incontro abbia coinciso con il giorno stesso delle nozze. Come mai? Negli anni 180/ 181, Settimio Severo era in Siria in qualità di comandante della IV legione Scitica di stanza presso Antiochia, ed è quasi certo che in quel periodo, spinto dalla sua devozione per i culti astrali e dal dovere di conoscere il territorio, egli si sia recato ad Emesa per visitare il santuario del Sole. Possiamo immaginare che egli sia stato accolto con tutto il riguardo che meritava la sua posizione apicale proprio da Giulio Bassiano che in qualità di sacerdote del Sole era certamente il personaggio più eminente della società emesena. Ma è difficile credere che Giulia Domna abbia incontrato in quell’occasione il suo futuro marito: era appena una fanciulla e difficilmente poteva essere ammessa al ricevimento dell’illustre personaggio; ma mi piace pensare che assieme alla sorella Mesa, di poco più grande di lei, abbia occhieggiato da dietro un velario per vedere i Romani che arrivavano con le armature luccicanti, gli ampi mantelli purpurei e le orgogliose insegne del potere. Chissà, se le due adolescenti furono colpite dal piglio energico del comandante, da quel volto dalla pelle olivastra illuminato da neri occhi lampeggianti, con barba e capelli precocemente segnati da fili bianchi… Certo non potevano immaginare che egli avrebbe avuto una parte importante nella vita di entrambe. E nemmeno Settimio Severo poteva presagire che una fanciulla di Emesa avrebbe contato molto per lui e per il futuro di Roma: in quel tempo infatti era sposato, felicemente sembra, con Paccia Marciana.
Passarono alcuni anni; Paccia Marciana morì e non era costume a Roma di prolungare le vedovanze. Fu forse allora che Severo, che era diventato governatore della Gallia Lugdunense, si ricordò che alla più giovane delle figlie del sacerdote del dio Sole era stato pronosticato un matrimonio regale e pensò che quell’oroscopo beneaugurante avrebbe potuto aiutarlo nella sua carriera. Decise quindi di mandare messi ad Emesa per chiedere la mano della fanciulla. Non sappiamo come avvenne la trattativa, ma possiamo immaginare che Bassiano abbia accettato con gioia, felice di dare in moglie la sua secondogenita a un personaggio così illustre. Nessuno certo chiese l’opinione dell’interessata che dall’oggi al domani si trovò proiettata verso un paese ignoto, per incontrare un marito sconosciuto e affrontare una società tanto diversa da quella in cui era vissuta.
Giulia Domna, poco più che adolescente, affrontò il faticoso viaggio, che avvenne probabilmente per mare, perché il tragitto terrestre fra la Siria e la Gallia (quasi quattromila chilometri) prevedeva l’attraversamento di terre inospitali ed era troppo pericoloso per una giovane donna. Dopo aver toccato Alessandria, tappa ineludibile nel percorso verso occidente, la nave che portava Giulia Domna verso la sua nuova vita costeggiò l’Italia, giunse alle bocche del Rodano, risalì il fiume e finalmente si fermò a Lugdunum (odierna Lione), dove il governatore attendeva la sua sposa. Il matrimonio si celebrò quasi subito e fu certamente un evento per la città: la giovane indossò l’ampia tunica bianca senz’orli, cinta alla vita dal nodo d’Ercole, coprì il capo con il velo flammeum su cui posò la corona da lei stessa intrecciata, con maggiorana, verbena, mirto e fiori d’arancio, e andò incontro al suo destino.
Quella notte Giulia Domna entrò nella storia.
Quali vicende segnarono maggiormente la sua vita?
Credo che il primo grande trauma fu l’abbandono della patria e dei parenti: mi sarebbe piaciuto riuscire ad entrare nella mente di una adolescente qual era Domna quando il padre le comunicò che aveva concesso la sua mano a uno sconosciuto che viveva all’altro capo dell’Impero e ed era di quasi trenta anni più anziano di lei: eccitazione? ansia? paura? una comprensibile curiosità? Ma troppo grande è la distanza culturale che ci separa da quella ragazzina, che affrontò, forse da sola, o, al massimo, con la compagnia della nutrice e di qualche dama, il lungo viaggio, che la portava verso il matrimonio con uno sconosciuto.
Giorni difficili la giovane sposa dovette affrontare anche durante gli anni drammatici della presa del potere da parte dell’ambizioso marito: infuriavano sanguinose guerre fratricide, e Domna, con i due figli, Caracalla, nato subito dopo il matrimonio, e Geta di poco più giovane, dovette seguire il neoeletto imperatore nelle lunghe campagne contro nemici interni ed esterni. Troppo rischioso restare a Roma in balìa dei nemici del marito. Fu in quel tempo che si meritò l’ambito titolo di mater castrorum, madre degli eserciti, portato prima di lei solo da Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, e, forse, da Crispina, moglie di Commodo. E fu in quel tempo che le venne attribuito anche l’appellativo di madre degli eredi (prima mater Caesaris, subito dopo mater Augusti et Caesaris). Grazie al suo coraggio e al suo spirito di sacrificio Domna era divenuta il volto dell’Impero: presenza costante e imprescindibile al fianco del marito, garanzia di pace e di concordia e di una auspicata pacifica successione (la storia smentì crudelmente questa speranza).
E poi ci fu lo scontro con Plauziano, l’uomo più potente dell’Impero dopo Settimio Severo; l’uomo che l’imperatore aveva voluto accanto a sé fin dai primi anni della sua ascesa al potere e aveva poi nominato prefetto del pretorio, carica che gli dava il controllo della guardia personale dell’imperatore. Fulvio Plauziano, africano di Leptis Magna e forse parente di Severo per parte di madre, era ambizioso e crudele e odiava Domna, al punto da accusarla delle peggiori nefandezze, arrivando persino a torturare le sue dame di corte perché rivelassero congiure e tradimenti. Ma l’astuta Siriaca sapeva che il suo ruolo pubblico non poteva essere insidiato neanche dal potente prefetto: Domna infatti in quanto madre dell’esercito e degli eredi, era garante del futuro di Roma. Severo non poteva fare a meno di lei. Tuttavia furono anni difficili quelli fra la fine del II sec. d.C. e il 205: il momento peggiore fu certamente il 202 quando Plauziano con un’astuta manovra convinse Severo a far sposare a Caracalla la figlia Plautilla. Il matrimonio fu sfarzoso e la bella e capricciosa fanciulla assunse il titolo di Augusta come la suocera. Ma Caracalla non accettò mai la giovane sposa: la odiava (i pettegoli di corte sostenevano che i due non avevano mai “dormito assieme”) e odiava ancor più suo padre per il legame stretto che lo univa all’imperatore. Con grande astuzia e, forse, con l’aiuto della madre, riuscì a togliere di mezzo il suo nemico.
Mentre Plauziano veniva giustiziato di fronte a Severo, Domna era con la giovane nuora in una delle stanze di palazzo quando, improvvisamente, la porta si spalancò e entrò un soldato che, brandendo un ciuffo di peli della barba di Plauziano, gridò “Ecco, il vostro Plauziano”, recando, dice Cassio Dione, gioia all’una e grande dolore all’altra. Plautilla sapeva infatti che per lei era finita, mentre Giulia Domna era consapevole che da quel momento in avanti il suo ruolo a corte era ancora più sicuro.
Giulia Domna fu la capostipite di una dinastia che, fra alterne vicende, resse il potere per più di cinquant’anni: quale rapporto la legò al marito Settimio Severo e ai figli Geta e Caracalla?
Con Settimio Severo Giulia Domna instaurò un sodalizio che resse alla prova della storia: gli fu accanto fin dai primi tempi dell’ascesa al potere e incarnò da maestra il ruolo di capostipite della nuova dinastia. Come tutte le coppie ebbero anni difficili, a causa soprattutto del malvolere di Plauziano, ma l’Augusta seppe trovare un suo spazio e il rispetto di tutti. È lecito pensare che sia stata madre amorosa e sollecita, ma le informazioni veicolate dalle fonti sono scarse e contraddittorie: alcuni ipotizzano una sua possibile preferenza per il secondogenito Geta, che rende ancor più tragico il momento della sua morte, avvenuta, come abbiamo visto, per volontà o forse addirittura per mano del fratello. Da quel momento in avanti il sodalizio con il primogenito divenne indissolubile e alimentò l’orrendo pettegolezzo di un rapporto incestuoso tra i due. È l’Historia Augusta che si sofferma con compiacimento su un episodio che sarebbe avvenuto subito dopo la nomina imperiale di Caracalla: la scena si sarebbe svolta nelle stanze di palazzo, dove Domna si intratteneva con il primogenito che, guardandola con ammirazione, avrebbe pronunciato queste parole: “Vorrei, se potessi”, ottenendone in risposta un incredibile: “Puoi, se vuoi, sei l’imperatore”. Echi di questo sospetto, per cui gli Alessandrini chiamavano Domna Giocasta perché come lei si sarebbe unita al figlio, si colgono qua e là anche nelle parole degli storici contemporanei, ma si tratta di pettegolezzi di palazzo, di cui furono vittime tutte le donne di casa imperiale fin dall’età di Augusto.
Ciò che è certo è che dopo la morte di Severo e l’assassinio di Geta, il potere di Domna crebbe ulteriormente; seguì il figlio in Oriente e si stabilì nel palazzo di Antiochia sull’Oronte, da dove svolse con competenza il ruolo di responsabile della corrispondenza imperiale.
Giulia Domna fu anche fine intellettuale: quale circolo intellettuale seppe radunare attorno a sé?
È questo uno dei tratti più originali e, passatemi l’espressione, “intriganti” della sua personalità: un’intellettuale a corte! Cosa avrebbe detto un poeta come Giovenale, che sosteneva che una delle disgrazie peggiori che poteva capitare a un uomo era quella di pranzare vicino a una donna colta? In un mondo misogino quale era quello romano, in cui l’ideale femminile era quello della donna che stava a casa a filare la lana (lanam fecit, domi mansit, casta vixit è una frequente formula laudativa delle iscrizioni funerarie), e la cultura non era certo considerata una qualità, l’Augusta venuta dalla Siria seppe ritagliarsi un ruolo inedito.
Per capire come Giulia Domna arrivò a maturare questa passione per gli studi che le meritò quell’appellativo di philosophos, di cui nessuna donna prima di lei o dopo di lei era stata gratificata, e che non significa “la filosofa”, ma “l’amante della sapienza”, è necessario ricostruire il suo percorso formativo. Nata, come abbiamo detto in una ricca e importante famiglia di Emesa, fu educata assieme alla sorella Mesa da pedagoghi privati che insegnarono loro il greco e il latino (la lingua madre era probabilmente l’arabo) e le avviarono alle arti liberali; la sua formazione terminò dopo il matrimonio, sotto la guida del marito, Settimio Severo, che non era solo un soldato coraggioso e intraprendente e un ambizioso uomo politico ma anche un fine intellettuale, che aveva perfezionato la sua cultura presso le migliori scuole di retorica di Atene. D’altronde, non era un fatto insolito che il marito diventasse mentore della moglie, visto che le fanciulle spesso si sposavano prima di aver terminato gli studi. Severo trovò terreno fertile in quella giovinetta dai grandi occhi neri: c’era in lei una inesausta curiositas e una grande capacità di assimilare gli insegnamenti. Ne abbiamo conferma dal fatto che, nonostante il latino non fosse la sua lingua madre, lo parlava correttamente, tanto che nessuno ebbe mai a criticarla per una scarsa proprietà di linguaggio o un accento straniero.
Durante i lunghi anni in cui fu ai vertici dell’Impero ebbe modo di intrattenere rapporti con molti fra gli spiriti più eletti del tempo. Fra i primi che ebbe modo di conoscere e frequentare possiamo ricordare il sofista Antipatro di Hierapolis, che l’imperatore volle a corte per educare i figli; certamente ebbe contatti con Galeno, uno dei più importanti medici dell’antichità, che fu anche medico di corte, con Papiniano, insigne giurista, con il sofista Filisco di Tessaglia, che tenne per molti anni la cattedra di retorica ad Atene; ma il personaggio che le fu vicino nel corso di tutta la sua vita fu Filostrato di Lemno, retore di chiara fama, a cui Domna affidò la redazione della biografia di Apollonio di Tyana, mago e taumaturgo vissuto alla fine del I sec. d.C., che l’aveva affascinata per il suo misticismo.
E la cultura fu certamente uno dei baluardi che la salvò nei momenti più difficili della sua vita, fra cui dobbiamo certo annoverare lo scontro senza esclusione di colpi che la contrappose al potente Fulvio Plauziano; in quegli anni durissimi infatti l’Augusta seppe ritirarsi in buon ordine dalla vita politica, dedicandosi ai suoi studi assieme alla sorella Mesa e alle nipoti Soemia e Mamea, che aveva chiamato presso di sé.
Questo aspetto della sua personalità colpì gli antichi non meno dei moderni, che proposero per lei azzardati confronti con Caterina de Medici o Cristina di Svezia; in realtà, questa prospettiva va un poco ridimensionata: Domna non tenne un “salotto di intellettuali” (i tempi non erano ancora maturi), ma certamente in tutta la sua lunga vita ai vertici del potere ebbe modo di entrare in contatto con i dotti del tempo, divenendo anche l’ispiratrice di ricerche come quella su Apollonio di Tyana. Una donna così Roma non l’aveva vista mai e le sue imitatrici, la nipote Mamea e la regina Zenobia, non ebbero certamente il suo spessore.
Quale tragico epilogo ebbe la vita della moglie di Settimio Severo?
Giulia Domna lasciò Roma, poco tempo dopo l’assassinio di Geta e raggiunse Caracalla in Oriente, dove passò, è lecito credere, anni sereni, gestendo in nome e per conto del figlio un grande potere, coltivando i suoi amati studi e frequentando il vicino sobborgo di Daphne, famoso per le cascate, il bosco di allori e il grande santuario oracolare dedicato ad Apollo. Ma nubi dense si addensavano sul suo futuro. Caracalla, affetto da una malattia di cui non si conoscono bene i contorni, ma che certamente gli ottenebrava il giudizio, accentuando quei caratteri di violenza e crudeltà che aveva manifestato fin dall’infanzia, si macchiò in quegli anni di imperdonabili colpe, fra cui spiccano i massacri dei giovani alessandrini inermi (una vendetta per le maldicenze che sussurravano contro di lui) e dei Parthi giunti a festeggiare il suo programmato, e mai attuato, matrimonio con la figlia di Artabano. Domna, politica accorta e sensibile, era all’oscuro dei progetti del figlio, e venutane a conoscenza ne restò certamente sconvolta; quale fu il suo atteggiamento nei confronti dello scellerato Caracalla non è dato sapere. Non sappiamo se abbia tentato di rappresentargli i rischi di tali comportamenti e di condurlo alla ragione, o abbia taciuto, come tutti, per paura delle sue inconsulte reazioni; ma non poteva ignorare che la fine era vicina.
E tuttavia, quando tutto crollò, si fece trovare impreparata.
La morte di Caracalla, colpito a tradimento da un soldato mentre, sulla via per Carre, si era fermato per soddisfare un urgente bisogno corporale, è priva di ogni grandezza, come priva di ogni grandezza era stata la sua vita. Il cadavere del giovane imperatore fu subito cremato e il Senato si affrettò di ratificare la nomina a imperatore del prefetto del pretorio Macrino, che aveva forse armato la mano dell’assassino. Domna venne sorpresa dal precipitare degli eventi: era sola, nelle sue stanze quando le venne portata l’urna con le ceneri del figlio. Che fare? Rabbia, sgomento, apprensione e incertezza, sentimenti che forse non aveva provato mai si impadronirono dei suoi pensieri. Le ampie e luminose stanze, scintillanti di marmi del palazzo sull’Oronte da cui per tanti mesi aveva sbrigato gli affari di Stato, intrattenuto gli intellettuali del tempo, ricordato il tempo passato, meditato sul futuro, improvvisamente le divennero ostili. I giorni passavano lentamente, le notti erano popolate di incubi: ora, forse, le appariva il volto minaccioso di Plauziano, ora riviveva i drammatici momenti in cui aveva tenuto fra le braccia il corpo insanguinato del suo secondogenito, ora sfilavano folle di corpi straziati dalla crudeltà del marito e di quel figlio sleale che aveva conseguito tutti i suoi successi con l’inganno e il tradimento. I dotti, che nei mesi passati avevano rallegrato le sue giornate con frequenti e stimolanti conversazioni, raramente le facevano visita, per darle sollievo e interrompere il flusso dei suoi cupi pensieri. È questa una triste realtà: la perdita del potere si accompagna spesso alla scomparsa di tanti falsi amici.
Per la prima nella sua vita la abile e perspicace Siriaca che si era insinuata nel cuore del marito, la fredda calcolatrice che aveva sconfitto con la pazienza Plauziano, la lucida politica che aveva ricacciato nel suo cuore le lacrime per la morte del suo secondogenito, fu travolta dagli eventi e decise che senza quel potere a cui aveva dedicato tutta la sua vita, sacrificando anche la sua dignità di madre, non voleva più vivere.
Scelse per sé una lenta, atroce morte per inedia, in compagnia solo dei ricordi della passata grandezza.
Francesca Ghedini è professore emerito di Archeologia all’Università di Padova. È autrice di qualche centinaio di pubblicazioni, tra le quali, sempre per Carocci, Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo.