“Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia” di Daniele Menozzi

Prof. Daniele Menozzi, Lei è autore del libro “Giudaica perfidia”. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia edito dal Mulino: come e perché nasce la preghiera per i giudei nella liturgia del venerdì santo?
Giudaica perfidia Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia Daniele MenozziLa caratterizzazione degli ebrei come “perfidi” nella liturgia ha una origine antica. Le attestazioni del sintagma si trovano fin dal secondo secolo, nelle omelie di Melitone di Sardi. È probabile che da questo testo l’espressione sia passata nel rito latino. Abbiamo comunque traccia del suo uso liturgico già nel settimo secolo. Ovviamente non ne possiamo sapere la diffusione, data la libertà delle chiese locali nell’organizzare il culto. Questa situazione muta radicalmente dopo il Concilio di Trento, quando nel 1570 viene redatto il Missale romanum. Si trattava di un testo che tutta la chiesa cattolica di rito latino doveva adottare. Vi si prevedeva per il Venerdì santo, al posto della messa, la recitazione di una serie di preghiere solenni. Una di queste era dedicata agli ebrei. Il celebrante invitava dapprima i fedeli a pregare “per i perfidi giudei”. Poi continuava invocando la misericordia divina, affinché, non respingendo nemmeno “la giudaica perfidia”, li strappasse dal loro accecamento e li riconducesse a Cristo. In seguito alla persuasione che nella liturgia si esprimeva la pienezza dell’ortodossia, questa formulazione assumeva un valore assoluto: la definizione degli ebrei come “perfidi” appariva connessa alla verità stessa della fede cristiana.

Perchè gli ebrei sono definiti “perfidi”?
Nell’iniziale tradizione liturgica la parola “perfidia” – coerentemente con il contenuto semantico del termine nella lingua latina – si riferisce ad una mancanza di fede, ad una deviazione dalla fede: gli ebrei sono “perfidi” perché non credono che Gesù sia il Messia. Con il passare del tempo, ed in particolare nelle lingue volgari, si assiste ad uno slittamento semantico. Il termine perde il suo significato dottrinale ed assume una portata morale: “perfidi” diventano coloro che hanno comportamenti di slealtà, doppiezza, falsità, inganno, avarizia, sfruttamento, ecc. Connotare in tal modo gli ebrei non implica più caratterizzarli come “diversi” sul piano religioso, ma comporta definirli eticamente “perversi”. É la critica storico-filologica tra Ottocento e Novecento, anche in risposta alla nascita e allo sviluppo dell’antisemitismo politico, a cogliere questo percorso. Essa pone così, su basi scientifiche, la questione della incongruenza tra il significato originario della preghiera e il messaggio che, nell’età contemporanea, essa trasmette ai fedeli.

A quando risalgono i primi tentativi di riforma?
Il primo accenno ad una esigenza di riforma del testo della preghiera affonda le sue radici nell’età dei “lumi”: la troviamo negli ambienti dell’Aufklärung cattolica francese del tardo Settecento. Essi vi colgono un ostacolo alla piena integrazione sociale degli ebrei. E una prima concreta, se pur effimera, realizzazione, di questa istanza si avrà in alcune aree dell’Italia giacobina e nella Toscana napoleonica. Ma la vera e propria organizzazione di una richiesta di riforma, sulla base di una piena consapevolezza del percorso storico della vicenda, avviene nella seconda metà degli anni Venti del Novecento. La formula l’associazione sacerdotale “Gli amici di Israele”, promossa da settori del movimento liturgico nord-europeo. Questo gruppo di ecclesiastici, che diventa ben presto assai numeroso, con il coinvolgimento di vescovi e cardinali, inoltra alla Congregazione dei riti la domanda di una cancellazione del richiamo alla “perfidia giudaica” dal rito latino. Lo scopo dichiarato era di favorire un avvicinamento tra cattolici ed ebrei. Il fatto interessante è l’approvazione della richiesta da parte del dicastero romano, che accetta le acquisizioni della ricerca storico-critica. Tuttavia questa decisione viene rovesciata dal Sant’Uffizio, per il quale un cambiamento liturgico, fondato sul riconoscimento delle ragioni della storia, comporterebbe il crollo di tutto l’edificio della dottrina cattolica. Agli occhi della “Suprema” la verità si fonda sull’immutabilità.

Cosa accade al Missale dopo la Shoah?
Dopo la Shoah comincia una pur lenta presa di coscienza che l’”insegnamento del disprezzo” verso gli ebrei – secondo il sintagma coniato da Jules Isaac, un ebreo francese che aveva perso nella persecuzione nazista buona parte della famiglia – presente nella tradizione cristiana, ed in particolare nella liturgia cattolica, aveva contribuito a creare quel clima di ostilità verso gli ebrei in cui aveva alla fine potuto crescere, anche contro alle intenzioni originarie, l’antisemitismo nazista. Nonostante che alcuni cattolici – come Jacques Maritain – chiedano riforme incisive in materia, la curia romana si muove con grande prudenza e lentezza. É comunque un segno della considerazione del problema il fatto che nel 1948 la Congregazione dei riti introduca un cambiamento. Consente infatti che, nelle traduzioni nelle varie lingue volgari della liturgia latina, la parola “perfidia” venga resa con parole che significano “infedeltà”, “mancanza di fede”. É il primo, per quanto ancora parziale, riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica del problema posto dallo scivolamento semantico intervenuto nel corso dello svolgimento storico.

Quali riforme introduce Giovanni XXIII?
L’intervento riformistico di papa Roncalli è netto: fa togliere dal testo della preghiera del Venerdì santo la presenza dell’aggettivo “perfidi” e del sostantivo “perfidia” con i quali veniva connotato il popolo ebraico. Significativo è a questo proposito un episodio narrato da diversi testimoni: durante una celebrazione nella basilica di san Pietro il papa impose l’interruzione del rito da parte del cerimoniere che ripeteva meccanicamente la precedente formula e volle che la cerimonia venisse ripresa con il nuovo testo. Ma la volontà di mutamento di Giovanni XXIII va oltre il pur rilevante aggiornamento della liturgia tridentina. Egli infatti, nell’ambito delle iniziative per l’organizzazione dei lavori del Concilio Vaticano II, affida al cardinal Bea la creazione di una commissione cui è affidato il compito di studiare una complessiva ridefinizione dei rapporti tra cattolici ed ebrei. A questa commissione si deve la preparazione della dichiarazione Nostrae aetate, che l’assise ecumenica, pur con qualche arretramento rispetto alla bozza inizialmente proposta, voterà nel 1965. Questo documento costituisce il punto di riferimento per sostituire alla precedente inimicizia, un cammino di dialogo e di fratellanza tra i membri delle due religioni. I testi della liturgia post-conciliare non potranno che riflettere questa nuova situazione.

Perchè nel Suo testo Lei scrive di ‘ambiguità nella linea di Giovanni Paolo II’?
La riforma liturgica introdotta da Paolo VI con il Novus Ordo Missae adeguava i testi della preghiera del Venerdì santo alla ridefinizione dei rapporti tra cattolici ed ebrei scaturita dal Concilio Vaticano II. Non c’è alcun dubbio che Giovanni Paolo II, nei suoi interventi pubblici, si è attenuto a questa linea di rinnovamento, adoperandosi attivamente per combattere il ripresentarsi, sotto ogni forma, dell’antisemitismo nella chiesa e nella società. Tuttavia ha anche aperto la strada ad una rilegittimazione della liturgia pre-conciliare all’interno della comunità ecclesiale. Ha infatti permesso a quei circoli tradizionalisti che lamentavano l’abbandono della lingua latina nella liturgia di far ricorso al Messale tridentino. É vero che si trattava del Messale rivisto da Giovanni XXIII e dunque privato dei riferimenti alla “giudaica perfidia”; ma era pur sempre un testo intriso dell’”insegnamento del disprezzo”. Di qui l’ambiguità della sua posizione.

Che visione degli ebrei presenta la liturgia contemporanea?
La linea di Giovanni Paolo II ha aperto la strada ad un ulteriore intervento correttivo di Benedetto XVI, che non solo ha completamente liberalizzato il ricorso al Messale tridentino, ma è intervenuto sulla preghiera per gli ebrei del Venerdì santo in esso presente, proponendo un suo testo. Questa nuova formulazione della preghiera è stata assai criticata dagli ambienti più impegnati nel dialogo ebraico-cristiano. Si è così assistito alla singolare situazione per cui nella chiesa di papa Ratzinger vi era un “rito ordinario” con una impostazione teologica di origine conciliare in ordine ai rapporti tra cattolici ed ebrei ed un “rito straordinario” con una impostazione ben diversa. L’attuale pontefice non ha formalmente modificato questa situazione, anche se il suo evidente favore per una liturgia incarnata nelle culture dei vari popoli del pianeta ha contributo a rendere marginale quel “rito straordinario” che appare sempre più legato all’espressione dell’opposizione anti-conciliare sviluppata da circoscritti settori della comunità ecclesiale.

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