“Giù i monumenti? Una questione aperta” di Lisa Parola

Dott.ssa Lisa Parola, Lei è autrice del libro Giù i monumenti? Una questione aperta edito da Einaudi. Assistiamo a una sorta di furia iconoclastica, figlia a sua volta di una cancel culture, che abbatte, cancella o modifica i monumenti: perché essi suscitano così tanto scalpore?
Giù i monumenti? Una questione aperta, Lisa ParolaLa questione delle statue abbattute è una questione antica. Accade sempre, quando la storia cambia direzione cambiano i simboli e i segni che l’hanno accompagnata. Insita nel monumento c’è sempre una questione d’identità. Anche se li dimentichiamo, quei volti e quei corpi portano con sé una parte di noi ma quando altre identità entrano nella storia e prendono voce qualcosa accade perché il monumento non è solo un’opera d’arte ma anche, a volte soprattutto, un dispositivo comunicativo. In molti momenti della storia, da luoghi di commemorazione i monumenti si sono trasformati in occasioni di conflitto, portando alla luce rimozioni profonde legate all’arbitrarietà delle interpretazioni e delle narrazioni del passato e facendo riemergere la distanza tra i vinti e i vincitori. Uno scontro, questo, che avviene il più delle volte nel centro delle città, lì dove la storia è rappresentata ma anche dove la pluralità degli attori sociali si compenetra e si sovrappone.

Napoleone Bonaparte, Francisco Franco, Iosif Stalin, Vladimir Lenin, François Duvalier, Saddam Hussein. La storia ha visto molti uomini rimossi dai loro piedistalli. Di recente in Martinica la posizione di Victor Schœlcher, ricordato per molto tempo come una delle figure chiave della liberazione dalla schiavitù, è stata rivisitata e alcune sue statue abbattute; a Bristol il bronzo di Edward Colston, a lungo ricordato come benefattore, fin quando non emerse il suo coinvolgimento nella tratta degli schiavi, è stato buttato nell’acqua di un canale. Ad Anversa, un monumento in onore di Leopoldo II, il re belga che ha colonizzato il Congo, è stato trasferito in gran fretta nel magazzino di un museo dopo essere stato deturpato da un gruppo di manifestanti. Dobbiamo allora domandarci ora cosa è accaduto e cosa sta nuovamente accadendo alle statue? Di certo quelle forme che storicamente rimandano al potere stanno attraversando un momento d’incertezza, forse la loro autorità viene messa in discussione quando entra in dialogo con le tante comunità che disegnano il paesaggio urbano contemporaneo. Una situazione che rovescia e riposiziona paradigmi storici ma anche esistenziali. Invisibili magari per decenni, solo in quei precisi momenti le statue tornano a occupare lo spazio intorno e a far sentire la loro autorità.

Nel Sud degli Stati Uniti molte statue di soldati confederati e del presidente Jefferson Davis o quelle in onore di Cristoforo Colombo sono state abbattute e poi decapitate.

Ma di quale monumento stiamo parlando? Da molti anni raccolgo storie di statue. Ne ho trovate in Italia e all’estero, quando il mio lavoro di critica e curatrice d’arte contemporanea mi ha portato, sia pure per brevi periodi di tempo, negli Stati Uniti, in Ucraina, in Colombia. Altre ne ho rintracciate nell’immenso deposito di informazioni disponibili online. Storie, fatti, immagini e documenti che raccontano la difficile relazione che intreccia e confonde arte, storia e cronaca. Ho escluso dalle mie analisi l’architettura e tutto l’esteso campo di ricerca che riguarda gli edifici monumentali, che aprirebbe a molte altre riflessioni, e mi sono invece concentrata prevalentemente sulle sculture: esse parlano con l’unica voce di un potere dominante che riesce a mantenere e propagare l’autorità attraverso l’utilizzo di un complesso sistema visivo, e che si attiva quando una statua su un basamento viene posata nello spazio pubblico. Qui qualcosa può accadere. Si pensi alla Rivoluzione francese o agli scontri in molte città dell’Est Europa dopo la caduta del muro di Berlino o ancora, in tempi più recenti, agli Stati Uniti e ad alcune città europee con eredità coloniali. Ogni volta che dal monumento traspare il non visibile, il non detto della storia, lo spazio pubblico intorno assume una forza che scavalca, calpesta, danneggia i luoghi della rappresentazione del potere. Se lo spazio pubblico è il luogo nel quale si materializza la storia dominante, in quelle forme qualcosa accade e la città non può più essere vista come un pacifico agglomerato di edifici e monumenti.

Qual è il ruolo dei monumenti?
In parte l’ho già detto, il monumento è un’opera ma anche un dispositivo comunicativo. Che a illustrarle siano le stampe del periodo rivoluzionario in Francia o gli scatti fotografici e le riprese video ben più recenti di piazze in diverse città dell’Est Europa, degli Stati Uniti o di molti altri Paesi attraversati da conflitti, l’ambiguità della comunicazione spesso insita nel monumento, apre anche una riflessione su quando e da chi le statue sono commissionate; su come il monumento è stato ideato e prodotto, mettendo in risalto non solo il suo ruolo rispetto alla memoria, ma anche rispetto alla sua funzione nel presente.

«I monumenti non nascono per magia, per una sorta di consenso democratico. I monumenti sono sempre costruiti da comunità limitate che hanno accesso al potere per portare avanti i loro programmi nel presente. La maggior parte dei monumenti hanno a che vedere più con i loro creatori che con i soggetti storici che rappresentano». In un convegno promosso nel 2020 dalla rivista di studi storici «Lapham’s Quarterly», lo storico dell’arte Kirk Savage ragiona sull’ambiguità della comunicazione spesso insita nel monumento aprendo anche una riflessione su quando e da chi le statue sono commissionate; su come il monumento è ideato e prodotto, mettendo in risalto non solo il suo ruolo rispetto alla memoria, ma anche rispetto alla sua funzione comunicativa nel presente. Le statue sono issate su un piedistallo per essere osservate dal basso. È chi le commissiona e produce che stabilisce cosa e come ricordare. E non senza ambiguità spesso questo ricordo si intreccia con il presente e diviene scontro quando i monumenti vengono distrutti. Ricordiamolo ancora, è chi commissiona le statue e produce che stabilisce cosa e come ricordare. E non senza ambiguità spesso questo ricordo si intreccia con il presente.

È giusto, talvolta, abbatterli?
Mi sembra davvero chiaro che non è possibile pensare a un’unica soluzione in grado di risolvere la questione del monumento. Ogni caso andrà studiato e non tutti troveranno una soluzione. Giù o su, comunque si decida di procedere, qualsiasi cosa si decida di fare, è pressoché impossibile risolvere ciò che di profondo e irrisolto agita e accompagna le statue sul basamento e la complessità storica che stiamo vivendo. Ma è invece possibile almeno provare percorsi inediti o alternativi che mettano il monumento in una nuova posizione, che aprano un nuovo equilibrio tra il monumento e le differenti comunità che attraversano la scena urbana contemporanea.

In questa fase di ridisegno della storia credo infatti, sia importante non tanto rappresentare la storia, piuttosto farcene carico; interrogarla, riposizionarla. È questa responsabilità che dobbiamo tenere presente in questi decenni. Se è impossibile abbattere o rimuovere tutti i monumenti è altrettanto vero che oggi quelle figure non ci rappresentano più, soprattutto non rappresentano la società che mi auguro stiamo diventando.

E vorrei chiudere con un esempio a mio avviso importante e significativo. Una strada che mi pare percorribile è provare ad aggiungere segni ad altri segni, confonderli, intrecciarli, farli scontrare gli uni con gli altri. E qui il lavoro degli artisti può giocare un ruolo davvero importante.

A Bolzano, lungo tutta la facciata del Tribunale, è visibile un bassorilievo con il Duce a cavallo e sotto la scritta ‘Credere, obbedire, combattere’. Un’opera monumentale ben visibile e difficile da rimuovere, per altro realizzata negli anni Quaranta da Hans Piffrader, scultore altoatesino riconosciuto da storici e critici. Che fare di questa traccia così scomoda? A seguito di un concorso pubblico una risposta l’hanno data nel 2017 Arnold Holzknecht e Michele Bernardi. Un gesto

semplice, niente è stato abbattuto, nessuno ha censurato nulla. Molto piú semplicemente i due artisti hanno aperto un dialogo con la storia e oggi posata sul bassorilievo compare una scritta, tradotta in italiano, tedesco e ladino, che riporta una citazione di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire», che si scontra in modo diretto con il dovere di credere e di obbedire della storia fascista.

La nuova opera ha sollevato non poche polemiche ma intanto è ancora lì e continua a far discutere. Mi sembra allora chiaro che la soluzione non stia dunque nel costruire altre statue. Non si compensano la schiavitù, il sopruso o la violenza aggiungendo altri piedistalli. Ma se è vero che per mantenere viva una società è importante che le sue istituzioni e i suoi simboli possano nel tempo essere messi in discussione, riletti e rivisitati in tanti e differenti ambiti – nella scuola, nei musei, nel dibattito culturale – è necessario provare a eliminare la distanza tra quell’“io” monumentalizzato e il “noi” sociale. Ciò che credo urgente e necessario è provare a mettere il monumento al centro di una nuova riflessione collettiva. Si provi a ripartire dal basamento, da ciò che sostiene il monumento e che ne definisce soprattutto la posizione d’autorità.

Forse è proprio qui la questione. Il progetto, il lavoro e la ricerca artistica, potrebbero concentrarsi sull’abbassamento, sulla rimozione o riduzione di quella distanza, ideando pratiche partecipative capaci di aprire un dibattito pubblico e critico sulla storia, sulla memoria e sulla relazione che queste hanno con il nostro tempo.

Solo abbassando il basamento – metaforicamente, ma forse anche proprio letteralmente – la discussione sui monumenti può aprire nuovi percorsi. Togliere autorità ai monumenti consente il loro utilizzo quali oggetti, dispositivi per ripensare collettivamente la storia, lo spazio pubblico e l’agire collettivo.

I luoghi delle città nei quali incrociamo basamenti e statue non sono quasi mai spazi unidimensionali e semplici. Gli spazi pubblici sono, sempre di più, un caleidoscopio composto da comunità differenti che lo attraversano rimodellandolo di volta in volta con la loro esperienza. Sempre più spesso lo spazio pubblico è luogo di sperimentazioni e situazioni in continuo divenire.

Leggere e interpretare i monumenti oggi significa soprattutto attivare pratiche di risignificazione. Osservarli provando a rovesciare lo sguardo e a far riemergere le zone d’ombra che appartengono a molti di loro. Concentrarsi su quanto la loro presenza sia da sempre legata alla costruzione di identità e forme del potere. Si tratta quindi di intrecciare diversi ambiti di ricerca: la storia e la storia dell’arte, la filosofia, la politica.

Non è tanto interessante la scelta – il mantenimento, la rimozione o il riposizionamento – quanto il processo che porta alla capacità di interrogare quei simboli per tornare a ragionare collettivamente, che si parli delle narrazioni egemoniche occidentali o del ruolo della memoria e del patrimonio pubblico.

Lisa Parola, storica dell’arte, ha curato progetti di arte pubblica, mostre, campagne fotografiche, workshop e conferenze promuovendo la relazione tra arte, territorio e cittadinanza. È socia fondatrice di a.titolo, organizzazione non profit con lo scopo di indagare e sperimentare le potenzialità dell’arte contemporanea nell’ambito della sfera pubblica e sociale. È stata tra i consulenti culturali per la candidatura di Matera Capitale della Cultura 2019. Ha collaborato con istituzioni quali la Fondazione Sardi per l’Arte, la Fondazione Merz e l’Università di Torino.

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