“Giro del mondo in una Coppa. Partite dimenticate, momenti indimenticabili dell’avventura Mondiale” di Stefano Bizzotto

Giro del mondo in una Coppa. Partite dimenticate, momenti indimenticabili dell'avventura Mondiale, Stefano BizzottoDott. Stefano Bizzotto, Lei è autore del libro Giro del mondo in una Coppa. Partite dimenticate, momenti indimenticabili dell’avventura Mondiale edito dal Saggiatore: cosa rende unico tra gli eventi sportivi il Mondiale di calcio?
Beh, intanto devo dire che il Mondiale di calcio divide la sua “unicità” nell’ambito sportivo con un altro grande appuntamento: l’Olimpiade. Ho avuto il privilegio di seguire entrambi, e dire quale dei due sia quello più coinvolgente è davvero difficile. Anche perché i contesti sono diversi. Il Mondiale è più dispersivo, giocandosi in località diverse e a volte in più di un Paese, l’Olimpiade è concentrata in pochi chilometri quadrati. Poi, non lo scopro certo io, il calcio è lo sport più popolare, dunque quello che cattura maggior interesse. Un tempo poteva capitare che nelle quattro settimane del torneo esplodesse un giocatore che prima nessuno o quasi conosceva. Oggi, questo è praticamente impossibile. Merito delle televisioni, di internet, dei social. L’appassionato che si siede davanti al televisore ha una base di conoscenze che lo mette al riparo da qualsiasi tipo di “sorpresa”.
Questo in qualche modo aumenta ancor di più l’attesa per l’evento. Nel momento in cui l’arbitro fischia l’inizio di una partita, non importa quale, il telespettatore è curioso di confrontare gli elementi in suo possesso con il verdetto del campo. Parlo in generale, perché se poi andiamo ad analizzare le trentadue finaliste di Russia 2018 troviamo alcune nazionali, penso a Panama e all’Arabia Saudita, prive di giocatori dal curriculum particolarmente nutrito. Si tratta però di eccezioni che alla fine confermano la regola.
Il Mondiale è unico perché porta con sé domande a cui l’appassionato non vede l’ora di dare una risposta. Riuscirà Messi a vincere l’unico titolo che ancora gli manca? Ronaldo sarà in grado di centrare l’accoppiata Europeo-Mondiale che farebbe di lui uno dei più grandi di sempre? E ancora: terminerà l’astinenza del Brasile, che non sale sul tetto del mondo dal 2002? E si potrebbe andare avanti all’infinito. Per questi e tanti altri motivi il Mondiale è qualcosa di unico.

Quale, tra le ventuno edizioni della Coppa del Mondo, si può considerare la più indimenticabile?
A questa domanda dovrei dare due risposte, a seconda che prenda in considerazioni i Mondiali a cui ho assistito oppure tutte le precedenti edizioni del torneo. Il Mondiale che ricordo più volentieri è il primo di quelli che ho seguito dal vivo, vale a dire Italia 90. Ero il più giovane degli inviati della Gazzetta dello Sport, davanti a me si apriva un mondo completamente nuovo. Ero a San Siro per la partita inaugurale, Argentina-Camerun: un’emozione indescrivibile. La cerimonia di apertura, Gianna Nannini ed Edoardo Bennato che cantavano “Notti magiche”, la sorpresa dei campioni del mondo in carica sconfitti da una nazionale sulla carta nettamente inferiore. Quel giorno non avrei mai immaginato che un mese dopo avrei assistito ad un’altra partita, in un altro stadio: Germania-Argentina, la finale. Alla vigilia Candido Cannavò, il mitico direttore della Rosea, mi diede l’incarico di realizzare due pagine con i profili di tutti i giocatori tedeschi. Stesso compito al collega che si occupava dell’Argentina. All’indomani sarebbero state pubblicate le pagine della squadra vincitrice. Alla fine è andata bene a me…
Questo per quel che riguarda i Mondiali a cui ho assistito. Prendendo in considerazione tutte e venti le edizioni del torneo, invece, quella che più mi ha affascinato – leggendo le testimonianze dell’epoca – è la prima. Era un calcio pionieristico, nel quale poteva capitare che il capitano di una nazionale (l’Argentina) tornasse a casa saltando una partita per sostenere un esame universitario, oppure che a dirigere un incontro fosse l’allenatore di un’altra delle nazionali presenti. Se potessi salire sulla macchina del tempo, tornerei a quel 1930 per vivere da vicino un torneo davvero particolare.

Chi sono i protagonisti indiscussi della storia dei Mondiali?
C’è solo l’imbarazzo della scelta. Cronologicamente partirei da Giuseppe Meazza, il primo (assieme a Giovanni Ferrari) ad aver vinto due edizioni del Mondiale: secondo molti è stato il più forte giocatore italiano di tutti i tempi, e io – pur nella scarsità di documentazione filmata – tutto sommato sono d’accordo. Passando al dopoguerra, il primo nome che mi viene in mente è quello di Pelè: lui di Mondiali ne ha vinti addirittura tre, anche se il secondo lo ha vissuto prevalentemente dalla tribuna causa infortunio. Dagli anni Cinquanta-Sessanta agli anni Ottanta, eccoci all’epoca di Maradona. Il “suo” Mondiale, quello del 1986, lo ha vinto praticamente da solo, caricandosi sulle spalle una nazionale discreta ma nulla più. Quattro anni dopo è andato vicino al bis, fermato solo in finale da un rigore che con un eufemismo si potrebbe definire “dubbio”. Uscito di scena (piuttosto male…) Maradona, faccio fatica ad individuare un giocatore che più degli altri abbia caratterizzato una o più edizioni del torneo. Da Zidane a Ronaldo, ci sono stati tanti campioni che hanno brillato, ma nessuno ha raggiunto i picchi di rendimento del Pibe in quel 1986. Poi ci sono i grandi giocatori che il Mondiale non l’hanno vinto: in testa a tutti, secondo me, Johann Cruijff. Ma l’elenco anche in questo caso potrebbe essere lungo. Mi vengono in mente Puskas, Zico, Platini, i nostri Rivera e Baggio. Per citare di quelli che il torneo più importante non l’hanno nemmeno giocato. Di Stefano, Nordahl, Valentino Mazzola: a loro ho dedicato l’ultimo capitolo del libro mettendo in campo la formazione ideale dei “senza Mondiale”.

Quali momenti, a Suo avviso, hanno maggiormente segnato la storia della Coppa del Mondo?
Ce ne sono stati tanti, di momenti significativi. Alcuni escono dal recinto del calcio giocato. Penso all’edizione del 1978, andata in scena in un Paese nel quale una dittatura sanguinaria eliminava fisicamente decine di migliaia di oppositori. In Argentina si giocava a poche centinaia di metri da dove il regime torturava i suoi prigionieri. Poi, ovvio, ci sono stati i momenti più strettamente “calcistici”. Mi viene in mente la sfida Brasile-Uruguay del 1950 (per molti la finale, ma era invece l’ultima partita di un girone a quattro): dopo il gol brasiliano, il capitano dell’Uruguay, Obdulio Varela, inscenò un’interminabile sceneggiata con l’arbitro chiedendo l’annullamento della rete che invece era regolarissima. Tutto per “calmare” i duecentomila tifosi sugli spalti che altrimenti avrebbero ulteriormente caricato i beniamini di casa. Fu una tattica vincente: l’Uruguay pareggiò, passò in vantaggio e vinse la coppa. Un altro momento che appare difficile dimenticare coincide con l’autorete del colombiano Escobar nella partita del 1994 contro gli Stati Uniti: un’autorete che costò la vita al giocatore, assassinato al ritorno in patria da emissari dei narcotrafficanti. Per noi italiani i momenti più significativi sono quelli legati alla conquista dei quattro titoli. Ne scelgo uno che però non riguarda una finale: la parata di Zoff sul colpo di testa di Oscar al penultimo minuto di Italia-Brasile, nel 1982. Se il nostro portierone non avesse allungato la mano sul pallone che stava entrando in porta, l’Italia sarebbe stata eliminata e i tre gol di Paolo Rossi sarebbero diventati nient’altro che materia per gli statistici.

Nel Suo libro Lei racconta anche dettagli poco noti della storia del calcio: fu ad esempio un semaforo londinese a suggerire all’arbitro Aston l’idea dei cartellini.
Una storia che ha dell’incredibile e che ha il suo epilogo nel 1966 ma prende forma quattro anni prima. Nel 1962 Aston era uno degli arbitri: gli toccò Cile-Italia, partita nella quale gli azzurri chiusero in nove per le espulsioni di Ferrini e David. Fu una battaglia (“la battaglia di Santiago”), con gli azzurri penalizzati da un arbitraggio troppo permissivo nei confronti dei padroni di casa. Al momento dell’espulsione, Ferrini impiegò dieci minuti prima di lasciare il campo: lui non parlava la lingua del direttore di gara, e viceversa. Quattro anni dopo, Aston era il capo degli arbitri: fu testimone di una scena simile in Germania-Argentina, con il capitano dei sudamericani, Rattin, che si rifiutò di abbandonare il terreno di gioco dopo essere stato espulso. Per Aston era stato come rivivere l’incubo di Santiago. Dopo quella partita, salì in macchina per percorrere i 27 chilometri che separavano Wembley da casa sua. Continuava a ripensare al caos di Germania-Argentina e prima ancora ai veleni di Cile-Italia. Arrivava ad un incrocio, poi ad un altro. Ogni volta doveva rallentare e fermarsi. Giallo, rosso, verde: i colori dei semafori gli diedero l’idea. Arrivato a casa, ritagliò due cartoncini, li infilò nel taschino della giacca per poi estrarli davanti ad uno specchio. Il cartellino giallo avrebbe indicato l’ammonizione, quello rosso l’espulsione. Una trovata tanto semplice quanto geniale, senza la quale chissà quante partite, oggi, sarebbero la riedizione di Cile-Italia. Altro che attesa per le decisioni del Var…

Russia 2018 rappresenta la prima edizione, dopo 60 anni, senza l’Italia alla fase finale: cosa significherà per il Mondiale l’assenza della nazionale azzurra?
È un qualcosa a cui ancora dobbiamo abituarci. L’ultima volta era accaduto sessant’anni fa: molti di noi non erano nati, o comunque erano troppo piccoli per conservare dei ricordi. Restare a casa fa male perché questo è un Mondiale a 32 squadre: il doppio di quelle che presero parte a Svezia 58. Sulla carta, qualificarsi non era difficile. Cosa significhi per il torneo l’assenza dell’Italia, è difficile dirlo. Sicuramente ne risentirà l’indotto, visto che migliaia di persone avrebbero intrapreso il viaggio in Russia per assistere ad una o più partite degli azzurri. All’appello mancheranno tutti quei tifosi-turisti che avrebbero fatto la fortuna di alberghi, ristoranti, eccetera. Da un punto di vista squisitamente tecnico, viene a mancare una squadra che pur nella sua attuale modestia avrebbe rappresentato un’attrazione per il torneo. Ricordiamoci che le ultime due volte in cui ha vinto il titolo, l’Italia è arrivata al Mondiale a fari spenti o quasi, accompagnata più da scetticismo che da squilli di tromba. La nostra è una nazionale che nelle difficoltà è solita esaltarsi, quindi…
Una domanda che molti si sono fatti o si faranno adesso che stanno per aprirsi le danze: per chi tiferanno gli italiani? Dovessi individuare la squadra-simpatia, andrei dritti dritto all’Islanda. L’ho vista giocare agli Europei di Francia e soprattutto ho visto la sua colorita tifoseria: spettacolo puro, uno spot fenomenale per un calcio depurato dai veleni che spesso sfociano nella violenza più becera. Lunga vita all’Islanda, dunque, anche se credo che alla fine gli italiani si sparpaglieranno a seconda del loro tifo di club: gli juventini avrenno un occhio di riguardo per gli argentini (Higuain, Dybala), gli interisti per la Croazia (Perisic, Brozovic), i napoletani per il Belgio (Mertens). Non basterà a compensare l’assenza della nostra nazionale, ma è già qualcosa…

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