
Autore prolifico, Garbini ci ha lasciato 30 monografie e quasi 500 articoli, nei quali ha affrontato temi vastissimi che, partendo dal Semitico nordoccidentale, lo hanno condotto a indagare l’Amorreo, l’Ugaritico, l’Aramaico, tutte le lingue cananaiche – con una grande predilezione per il Fenicio, specialmente nella sua fase punica – senza infine tralasciare la documentazione epigrafica della Penisola Arabica.
Nel corso della sua lunga carriera accademica, l’eminente studioso iniziò a occuparsi sempre più approfonditamente di storia e ideologia dell’Israele antico, di mito e storia nella Bibbia, di temi della storiografia biblica, di politica e letteratura d’Israele e anche di Gesù nella vita e nel mito, affrontando perfino soggetti di straordinaria complessità come l’interpretazione del Cantico dei Cantici.
Tra i più significativi esiti della sua ricerca, alla luce di una «netta distinzione fra una tradizione essenzialmente mitologica e una storiografia propriamente così definibile», rientra certamente l’acquisizione di nuovi dati storici in base ai quali «lo yahwismo aveva inizialmente fatto parte di un sistema politeistico; il ciclo patriarcale di Abramo – patriarca che la tradizione vuole originario della Mesopotamia – fu concepito in epoca postesilica per legittimare e porre su un piano più elevato gli Ebrei che tornavano da Babilonia; le notizie del libro dell’Esodo affondano le radici in tradizioni più antiche di quelle di Abramo e ponevano le origini del popolo ebraico in Egitto; il documento pseudepigrafico della Lettera di Aristea costituì una legittimazione della nuova Scrittura con il ciclo di Abramo, prima inesistente; i profeti furono oggetto di una damnatio che li incolpava dell’esilio in Babilonia; Esdra non sarebbe mai esistito.
Si capisce come siffatte conclusioni portassero a una nuova impostazione degli studi biblici, vuoi sotto il profilo storiografico, vuoi sotto quello letterario: in entrambi, il punto di vista si spostava in una prospettiva squisitamente ideologica che aveva come interesse di base la reimpostazione di una storia e una letteratura che venissero incontro alle esigenze determinate dal ritorno degli esiliati nella loro terra di Giuda. […]
Veniva così a delinearsi un grande affresco del quale si possono elencare alcuni tratti. Le prime presenze ebraiche sono testimoniate nel XVIII sec., con le fonti di Mari che menzionano i Banu Yamina (“una delle componenti del futuro Israele aveva le sue origini remote nel variegato e fluttuante ambiente del seminomadismo semitico amorreo, protagonista nelle vicende storiche dei secoli a cavallo del 2000 a.C.”) e l’istituto del dawidum, un capo militare dal destino rituale, che venne posto nei testi biblici come sostitutivo di ”governatore’ e che poi avrebbe dato il nome a David.» David e Salomone sono dunque figure mitiche, «non interpretabili storicamente.»
«L’esilio dei Giudaiti in Babilonia non fu così negativo come si vuol far credere nelle lamentazioni bibliche: gli Ebrei si inserirono bene nella società babilonese prima e sotto il dominio persiano poi, tant’è che inizialmente, a seguito dell’editto di Ciro, ben pochi – anzi nessuno – volle ritornare in Giuda […]. I Giudei a Babilonia appresero le ricchezze culturali di un nuovo mondo e con i Persiani vennero a contatto con il concetto di universalismo. […] Sarà durante il periodo persiano che la storia dell’Israele antico verrà sostanzialmente riscritta: Abramo era una figura già conosciuta a Israele prima dell’esilio, ma la sua storia verrà reinterpretata secondo la tradizione che lo vuole proveniente dalla Mesopotamia: in questo modo veniva creato un modello che legittimava il ritorno a Gerusalemme degli esiliati (in buona sostanza, essi ripercorrevano un viaggio che era stato tracciato, per volere divino, dal primo dei tre grandi patriarchi).
All’interno di siffatto contesto, si sarebbe creata […] una polemica tra i gruppi del Calebiti e dei Qeniti: questi ultimi […] per distinguersi si affidarono alla figura di Mosè e di conseguenza sarebbe stata concepita la tradizione dell’Esodo, nella forma testimoniata dagli autori classici, per contrapporre una diversa origine e provenienza degli Ebrei. Col subentrare del dominio dei Greci, si avrà una forte influenza di questa cultura, contro la quale l’ortodossia si oppose per mezzo della tradizione della Legge e dei Profeti.»
Garbini dedicò varie riflessioni alla religione d’Israele, che trovarono una sintesi finale nel volume Dio della terra, dio del cielo: «La religione avrebbe preso le mosse dalla venerazione di divinità ctonie: così, agli inizi del I millennio anche Yahweh era un dio ctonio, proprio delle tribù seminomadi, importato dalle tribù ebree che lo veneravano a Gerusalemme. Lo stesso nome Yahweh significherebbe ”dio degli inferi’, con provenienza dal termine hawwah, ”distruzione’. Solo a contatto con gli dèi mesopotamici durante l’esilio di Babilonia, e poi con la religione persiana, Yahweh diviene per gradi un dio celeste. […]. Il perfezionamento finale della forma monoteistica sarebbe avvenuto attraverso l’influenza aristotelica del ”primo motore immobile’.»
«La raffinatezza interpretativa di Garbini consentirà peraltro di cogliere aspetti rimasti precedentemente nascosti. […] L’elaborazione della letteratura biblica quale oggi ci è nota ruota fondamentalmente attorno all’evento dell’esilio in Babilonia. Alla fine di questo, nuove tendenze ideologiche si sarebbero sviluppate: da una certa tendenza universalistica che aveva riconosciuto addirittura il Messia in un re straniero – Ciro –, alla cristallizzazione del monoteismo religioso, al primato del potere sacerdotale e quindi a una riscrittura della storia del proprio passato.»
Garbini ha costruito un impianto metodologico che ha rivoluzionato gli studi biblici: «Il punto cruciale attorno al quale tutto ruota è costituito dall’esperienza dell’esilio in Babilonia con gli eventi che seguirono fino in epoca ellenistica e in questo panorama storico le fazioni che hanno animato il giudaismo al ritorno degli Ebrei nella loro terra provvidero a rivedere e addirittura reinventare la storia del proprio passato per mezzo della espressione letteraria finale del testo biblico.»
Insomma, come chiosa Alessandro Catastini in relazione agli studi biblici di Giovanni Garbini, «si potrà essere in disaccordo con i [suoi] procedimenti […] e le sue conclusioni, ma sicuramente non si potrà ignorare l’importanza del suo lavoro.»