
Si tratta di un evento ben più che simbolico né di un mero sincronismo sia perché la scuola che era stata di Platone viveva e illuminava la riflessione greca da circa mille anni sia perché questo intervento di politica culturale segna il definitivo superamento del pensiero cristiano rispetto a quello pagano, cui pure aveva intensamente attinto: se è vero che col II secolo nasceva con Giustino e Ireneo una prima forma di filosofia cristiana, ab intrinseco debitrice delle inuentiones concettuali della filosofia pagana, e se è altresì vero che col IV secolo si assiste, sempre a partire dalla base concettuale pagana, alla matura e organica strutturazione di una teologia cristiana in ispecie con i Padri Cappàdoci (Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo) e Giovanni Crisostomo nell’Oriente greco così come con Ambrogio e Agostino nell’Occidente latino, andrà ravvisato che il milieu di Alessandria di Egitto in cui operava il Filopono si segnalava per una maggiore porosità reciproca tra le due facies pagana e cristiana, il che permetterà alla cattedra alessandrina di non patire la medesima sorte del cenacolo ateniese e proseguire la propria attività, almeno per un altro secolo circa.
Tali sono le coordinate entro cui il Filopono esercita la sua attività magistrale, coniugando in sé e componendo in unità armonica i caratteri del suo tempo – dall’una parte filosofo a pieno titolo (in qualità di commentatore degli scritti aristotelici, cui lega il proprio successo) e, dall’altra parte, interprete della Bibbia e teologo capace di intervenire nel dibattito cristologico e trinitario.
Rebus sic stantibus riuscirà agile intendere l’importanza del De opificio mundi del Nostro, opera pienamente ascrivibile al genere degli esameroni, cioè dei commenti alla pericope del Genesi circa la creazione divina del cosmo. In quanto attende a un commento, il Filopono adatta al proprio argomento il metodo del commento per pericopi che aveva seguíto in contesto filosofico quando era intento a vergare i commenti ad Aristotele mentre, in quanto attende eo ipso a un testo scritturistico, si muove anche nell’orizzonte della Rivelazione cristiana. Emerge di qui con trasparenza la delicatezza del tema agito nei sette libri dello scritto filoponiano, giacché nella creazione del mondo (cosmoktisi) si incontrano e scontrano due paradigmi non componibili, cioè quello pagano e quello cristiano: quello pagano proveniva dal Timeo platonico e vedeva nel demiurgo l’equivalente mitico-filosofico del Dio biblico intento alla creazione (già Filone Alessandrino durante il I secolo aveva coniugato col Genesi questa struttura di pensiero), col detrimento reciso tuttavia di declinare una concettualizzazione dell’atto creazionistico incapace di rendere ragione dei fenomeni quali si restituivano ai sensi e, per questo tramite, alla scienza; a fronte, il modello aristotelico poteva provvedere le categorie di pensiero adatte a rendere ragione dei fenomeni e a procurare un’esplicazione scientificamente adeguata ai medesimi, con l’esiziale obiezione però che l’impostazione dello Stagirita suffraga la visione eternalistica del mondo, non già la sua fabbrica a ex nihilo; la Rivelazione mosaica, in ultimo, crede nella creazione di Dio con la forza performativa della Sua Parola (dabar), che nomina e per ciò stesso crea dal nulla il cielo e la terra e tutto quanto tra questi sia compreso, non vivente e vivente.
Sarà proprio nel delicato equilibrio di queste divergenti coordinate che il Filopono darà dimostrazione del suo magistero esegetico e speculativo, cercando una sintesi nuova e audacissima, nella direzione di un precocissimo Aristoteles Christianus, sulla scorta della propria pregressa esperienza sui due versanti richiamati, quello filosofico-aristotelico e quello biblico-esegetico.
In che modo il trattato rappresenta il ponte – sia formale sia concettuale – tra l’amplissima produzione commentaristica di Filopono ad Aristotele e la fine competenza biblico-patristica dell’Alessandrino?
Qui interviene il passo decisivo compiuto dal Filopono: stendere sulla pagina genesiaca un commento ampiamente esemplato sulle cose aristoteliche, sia formali sia concettuali. L’originalità del Filopono in merito e i conseguenti vantaggi di ordine storico-concettuale sono altrettanto evidenti che riconducibili alla sua traiettoria di vita di singolare aristotelico cristiano.
Il Filopono è stato essenzialmente – o tale almeno è noto – un commentatore degli scritti di Aristotele, tanto che l’Aristotele che perverrà alla tradizione araba sarà in prevalenza proprio quello inteso mediante il tesoro ipomnematico del Filopono, con la mediazione siriaca. I commenti in esame procedono secondo il cosiddetto metodo lemmatico, consistente nel presentare la porzione del testo aristotelico in esame e su di questo impiantare un rigoglioso commento, affrontando le difficoltà e la ricchezza contenute nella pericope considerata. Questo approccio aveva conosciuto ormai da secoli un vigoroso adattamento in àmbito cristiano, giacché in modo analogo venivano affrontati i libri biblici, con una curvatura che spesso mirasse a contemperare il lato esplicativo con quello anche morale e parenetico.
Il Filopono fa qui intervenire uno dei suoi frequenti scatti di originalità, giacché i commenti ai singoli libri biblici non mancavano ma la singola pericope della creazione, se considerata di per sé e non nell’intiero libro del Genesi, era stata per solito valutata entro un genere letterario diverso, cioè i cicli omiletici. Si comprenderà, per conseguenza, l’originalità del De opificio mundi del Filopono rispetto agli altri scritti esameronali che lo precedevano, come nel caso di Basilio Magno (IV secolo): questi – che pure è uno dei riferimenti privilegiati del Nostro – aveva vergato un esamerone nella forma di prediche ai catecumeni coinvolti nel cammino mistagogico; la qual cosa non poteva che riverberarsi in modo pesante sul carattere dei contenuti dell’esamerone in oggetto: un esamerone catechetico doveva essere rivolto in particolare alle istanze spirituali, formative, potendo concedere meno attenzione al dato squisitamente linguistico, senza poi dire della modalità performativa orale. Il Filopono invece cala l’esamerone entro un genere diverso, quello del trattato ipomnematico, facendo convergere la specificità della precisione tipica dei commenti filosofici a una materia, quella relativa alla creazione del mondo, che gli proviene dall’oggetto.
In questo il De opificio mundi rappresenta il fastigio dell’incrocio delle due linee di interesse del Filopono: i commenti filosofici dànno la forma, l’interesse biblico-teologico procura invece la materia.
Quale struttura adotta l’esegesi speculativa del De opificio mundi?
Uno dei punti qualificanti della finezza interpretativa del Filopono consiste nell’impostazione che conferisce alla sua esegesi: da sottile grammatikós qual è, ha piena contezza dell’importanza di verificare la lezione su cui è destinato a poggiare l’intervento interpretativo; sia l’esegesi allegorica sia a fortiori l’esegesi letteralistica, infatti, muovono dalla lettera, il che comporta di cerziorarsi della lezione che di volta in volta verrà sottoposta a commento. Se tutto questo ha un portato di validità generale, tanto più vero sarà nel caso di un testo come quello biblico, che nel milieu alessandrino il Nostro accostava non nell’originale ebraico bensì nella versione greca detta dei Settanta (redatta, almeno per il Pentateuco, per impulso della corte dei Tolemei in III secolo a.C.).
Era, questa, senz’altro una traduzione autorevole e veneranda, nella quale forte era esercitato il tentativo di modulare in altra lingua non solo il senso ma anche l’ispirazione divina sottesa alle parole della Rivelazione. Come attesta la lettera di Aristea a Filocrate, la traduzione fu commissionata a settanta (o settantadue) dotti ebrei provenienti dall’ambiente gerosolimitano, in modo che la biblioteca di Alessandria disponesse anche del testo sacro dell’ethnos ebraico: proprio per significare che la traduzione non fu opera solo d’uomo ma guidata dallo Spirito, i settanta savî – pur lavorando indipendentemente – pervennero in modo mirabile a un unico esito, volgendo con le stesse parole l’originale semitico. La traduzione dei Settanta, pertanto, configura il singolare caso non già di un testo rivelato, bensì di una traduzione rivelata. Resta il fatto che, a un’indagine acribica, molte erano le difficoltà che la transizione dall’ebraico al greco non poteva non comportare, a partire dal differente genio delle due lingue.
Qui si inserisce la perizia esegetica di Filopono, il quale non fa quello che pressoché tutti i commentatori antichi di lingua greca tendevano a fare, cioè attingere dal testo della Settanta, bensì imita quello che prima di lui in modo sistematico aveva operato il solo Origene, ovvero attinge anche ad altre traduzioni, complementari. Ecco allora che ogni sezione di commento nel De opificio mundi si apre con la sinossi di quattro traduzioni greche del passo in oggetto: alla Settanta seguono le versioni di Aquila, Simmaco e Teodozione, ove i tre ultimi sono i traduttori in greco della metà (Aquila) e seconda metà (Simmaco e Teodozione) del II secolo e che erano stati regestati da Origine medesimo nella sua poderosa opera nota come Hexapla (uno scritto ciclopico consistente di più colonne da sei a otto – in cui tra le altre cose veniva presentato il testo ebraico della Scrittura, la sua traslitterazione in greco e proprio le citate traduzioni greche della Settanta e degli autori ora nominati).
Il confronto tra le varie traduzioni greche consente al Filopono di ricuperare – soprattutto là dove le rispettive rese divergano – alcune inflessioni tipiche dell’ipotesto semitico, così denso da non poter essere vòlto in greco in maniera univoca. Saranno sufficienti due esempî per rendersene conto: quando vengono elencati i giorni della creazione, il nostro esegeta ravvisa che i giorni medesimi vengono appellati con il numerale ordinale (giorno secondo, terzo etc.) mentre solo il giorno di inizio della creazione è designato con il numerale cardinale (giorno uno): posto che la lingua ebraica non conosce il numerale ordinale per l’uno (’ḥd) ma solo dal due in poi, la ragione speculativa viene ricondotta al fatto che il primo giorno non può essere uniformato al livello dei restanti, rispetto ai quali è qualitativamente superiore, perché proprio allora avviene il vero passaggio dal nulla alla creazione (furono creati cieli e terra). Similmente, si domanda il Filopono perché la pagina scritturistica parli sempre di cieli al plurale e non al singolare, come sarebbe lecito attendersi con mentalità greca: attesoché l’ebraico usa per il nome dei cieli sempre un plurale (šmym, invero duale) e non un singolare, la risposta con cui il Filopono concettualizza la specificità linguistica è che si dànno più cieli in realtà, uno visibile all’occhio, un altro invece a esso superiore entro il quale il firmamento dispiega il suo corso e l’ultimo (il terzo cielo) è luogo spirituale cui fu rapito ad es. Paolo nella sua estasi mistica, insieme con gli angeli che vi risiedono al cospetto di Dio.
In che modo nel De opificio mundi si manifesta il letteralismo critico del Filopono?
Questo è un aspetto cruciale del magistero esegetico del Filopono, il quale reagisce all’impostazione invalsa, vòlta a leggere il racconto della creazione in termini allegorici. Tale si configurava già il De opificio mundi di Filone Alessandrino, il commentatore ebreo che nel I secolo aveva per primo fatto incontrare la filosofia greca (soprattutto di matrice platonica e stoica) con la Rivelazione biblica; il suo strumento critico era prettamente allegorico, anzi allegoretico, cioè un’allegoria sistematica e strutturale, con cui passare dal dato della lettera a una sovrinterpretazione che insieme spiegasse e arricchisse in direzione morale il messaggio insito nel testo alla prima lettura. Tale impianto era stato applicato da Filone all’esamerone genesiaco, rileggendo il racconto della creazione alla luce del Timeo platonico, là dove il cosmo in quanto creato veniva inteso attraverso il filtro del mito del demiurgo: così facendo, il demiurgo veniva identificato col Dio biblico e il modello delle idee secondo cui il demiurgo platonico operava sono accostate alle concezioni comuni della filosofia stoica, cioè i pensieri intrinseci alla mente di Dio nell’atto creazionistico.
Il limite dell’esegesi allegoretica era però chiaro, consistendo non nella sua debolezza ma nel suo arbitrio e nella sua totipotenza; per dire così, il detrimento dell’allegoresi è nel suo eccesso di forza interpretativa, non già in un suo difetto. L’allegoresi, infatti, rischia di far dire troppo al testo, dimenticando quello che ne era il reale e genuino intendimento. Su queste basi il Filopono si orienta verso lo stile esegetico opposto, quello letteralistico, ma non nella sua versione diffusa. L’aderenza pedissequa alla lettera, come noto, rischia di impoverire il senso della Sacra Pagina, ove anche non ne perda la vera significazione; senza contare poi quei passi che erano così intrisi di senso semitico che, portati entro la mentalità greca, se venivano interpretati juxta litteram finivano col non significare alcunché, come l’albero del bene e del male.
Il Filopono ha qui uno dei suoi balenii di intelligenza, coniando un letteralismo critico: la lettera vale in quanto tale ma senza chiudersi su di sé, bensì implementandosi dell’apporto della filosofia, in ispecie aristotelica; ne verrà un letteralismo capace di intendere la lettera in tutto il suo spettro di significati, senza ascriverle un’arbitraria incamottatura che soffochi il significato originario ma, invece, portando a scintillare il valore profondo delle parole divinamente in-spirate. In questo il ruolo della mediazione filosofica è rilevante, perché permette di “aprire” il verbo divino, scrutarlo nei suoi recessi e trovare la corrispondenza tra il messaggio rivelato e il mondo sensibile. Qui infatti giace il grande apporto del pensiero aristotelico: giacché il racconto della creazione biblica si riferisce al cosmo quale si restituisce ai sensi, la filosofia dello Stagirita con la sua vocazione al mondo sensibile permette di rendere ragione del cosmo sotto il rispetto fenomenico, nella symphonia tra dato osservativo, esplicazione scientifica (le scienze ad Alessandria si dipanarono nell’alveo dell’Aristotelismo) e la Rivelazione mosaica (Mošè era considerato in antico l’autore sacro della Torah).
Ben si comprenderà allora come l’esperienza maturata dal Filopono nel commentare gli scritti aristotelici si stagli imperiosa: le opere fisiche del Filosofo esplicano il mondo nella corrispondenza tra mondo sensibile e dato biblico mentre il corpus delle opere logiche conferisce la possibilità di strutturare un’argomentazione elenctica e sillogistica. Esito ne sarà che la pagina del Genesi – così traguardata – incontra il mondo e ne ragiona nel modo più rigoroso.
Quali ascendenze storico-critiche è possibile rinvenire nell’opera del Filopono?
Il Filopono si muove con originalità possente entro un orizzonte di lunga tradizione. Certamente è dato di riscontrare una presa di posizione recisa e vibrante contro gli eccessi dell’esegesi allegorica, versando inchiostro atrabiliare contro autori pur grandi quali Teodoro di Mopsuestia e Teodoreto di Ciro. Il tono dell’apostrofe è denso di accenti violenti, come quando accusa il primo di inventarsi quanto dice (tanta era stata la libertà della sua allegoria da perdere di vista de facto il riscontro letterario nella Bibbia) o come quando staffila i contendenti di fare del cicaleccio da donnicciole. Parimenti, il Filopono ricusa con forza anche le estravaganze di autori come Cosma l’Indicopleuste, il quale aveva inteso il mondo come configurato secondo la forma di un grande tabernacolo, a causa di un rigido letteralismo applicato alla Lettera agli Ebrei.
Da questi tratti emerge con nettezza che il tono apologetico e controversistico porta l’esegeta alessandrino a fare il nome dei referenti negativi, piuttosto che di quelli positivi, che hanno procurato il modello costruttivo cui si ispira. Le due luci che ne hanno orientato il lavoro possono sicuramente essere individuati in Aristotele da un lato e, dall’altro, in Origene: da Aristotele, come è chiaro, deriva la possibilità di accostare il dato sensibile cercando di spiegare i fenomeni nell’armonia tra esperienza e Bibbia (ché la scienza e il dato biblico convergono), una volta aver depurato Aristotele dalla sua impostazione eternalistica; Origene è invece l’autore che più è vicino al Filopono per la finezza linguistica e il tentativo di superare il solo riscontro della Settanta, una volta essere stato depurato della sua preponderanza allegoretica. Un caueat: se si cercassero le attestazioni esplicite di questi due maestri nell’opera filoponiana, se ne troverebbero poche occorrenze e peraltro negative, ove non apertis uerbis derogatorie; il Filopono non è proclive a riconoscere i meriti dovuti ai suoi luminari ma lo sfruttamento profondo che fa di Aristotele e il suo culto critico della parola biblica di marca origeniana non lasciano dubbî.
Una parola merita infine la presenza di Platone, perché certamente il Timeo era stato il virgilio con cui rileggere la creazione cristiana del mondo. Il Filopono non manca di tributargli onore ma, in realtà, le categorie timaiche nell’interpretazione della fabbrica del mondo sono di fatto limitate: manca del tutto il piano delle idee, non si incontra l’anima del mondo né si dà la presenza della mediazione delle figure geometriche nella creazione esemplare di ciò che è nel mondo.
L’originalità che pervade l’opera del Filopono è tale che solo scavando si possono far rilucere le sue ascendenze: il De opificio mundi è un maturo experimentum di filosofia cristiana a matrice aristotelica in anticipo di secoli nel corso storico della filosofia.
Tiziano Ottobrini, laureato in Lettere classiche e in Filosofia (Università Cattolica, Milano), ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia della filosofia antica (ibidem) e in Filosofia teoretica (Università degli studî di Bergamo), perfezionandosi presso gli Atenei pontifici. Già assegnista di ricerca presso l’Università dell’Aquila, svolge attività di ricerca presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato monografie e saggi su riviste scientifiche, occupandosi della relazione tra la filosofia greca e la patristica nonché della tradizione di testi greci in lingua copta e siriaca.