
a cura di Andrew George
traduzione di Svevo D’Onofrio
Adelphi
L’epopea di Gilgamesh viene unanimemente annoverata tra i grandi capolavori della letteratura mondiale. Il poema babilonese – del quale il testo pubblicato da Adelphi e curato dall’assiriologo britannico Andrew George costituisce l’edizione scientifica (che si avvale, tra l’altro, dell’apporto dei frammenti scoperti più di recente, come la Tavoletta XI, venuta alla luce nel giugno 1999) – «narra l’eroica lotta di un uomo contro la morte – per conquistare dapprima una fama imperitura attraverso gesta gloriose, poi la stessa vita eterna; e narra la sua disperazione di fronte all’inevitabile fallimento, fino a realizzare che l’unica immortalità alla quale l’uomo può aspirare è il nome durevole che si ottiene lasciando dietro di sé un retaggio duraturo.»
Il poema, in realtà, tratta di molto altro ancora: «È la storia del “cammino verso la saggezza” di un uomo, la storia della sua formazione attraverso i successi e i fallimenti, e in quanto tale offre molti spunti profondi sulla condizione umana, sulla vita, la morte». A far da sfondo alla narrazione, «il tema che più interessava le corti regali di Babilonia e Assiria […]: il dibattito sui doveri della regalità, su quello che un buon re dovrebbe fare e non fare.»
«Sapientemente intessuti nella vicenda di Gilgamesh troviamo anche il racconto tradizionale del Diluvio, la grande inondazione tramite la quale, agli albori della storia umana, gli dèi cercarono di annientare l’umanità, e una lunga descrizione del tetro regno dei morti. Da tutto ciò, Gilgamesh emerge come una sorta di eroe culturale. La saggezza ottenuta ai confini della terra da Utnapishtim, l’unico superstite del Diluvio, gli consente di restituire i templi del paese e i loro rituali al loro stato ideale di perfezione antidiluviana. Nel corso delle sue avventure eroiche, pare che Gilgamesh sia stato il primo uomo a scavare oasi nel deserto, il primo ad abbattere i cedri del Monte Libano, il primo a scoprire le tecniche dell’uccisione dei tori selvatici, della navigazione oceanica, dell’immersione corallifera.»
Gilgamesh ci è giunto attraverso tavolette, «lisci rettangoli di argilla simili a piccoli cuscini, incisi su entrambi i lati con una scrittura in forma di cunei», e perciò detta cuneiforme, provenienti dalle antiche città della Mesopotamia. I testi, in lingua sumerica e accadica, sono stati ricostruiti grazie ad un paziente lavoro di decifrazione solo a partire dal secolo scorso. Il sumerico è «una lingua senza alcuna parentela con altre lingue note, che pare essere stata la prima ad avere una forma scritta.» L’accadico, invece, è «membro della famiglia linguistica semitica e perciò imparentato con l’ebraico e l’arabo. Le due lingue, sumerico e accadico, erano state a lungo utilizzate l’una accanto all’altra dai popoli della bassa Mesopotamia, sebbene il sumerico prevalesse nel Sud urbanizzato, e l’accadico nel più provinciale Nord.»
«L’ambientazione principale dell’epopea è l’antica città-stato di Uruk nella terra di Sumer. Uruk, la più grande città del suo tempo, era governata dal tiranno Gilgamesh, semidivino in virtù della madre, la dea Ninsun, ma ciononostante mortale. Gilgamesh era una delle grandi figure della leggenda.»
«L’epopea di Gilgamesh è una delle pochissime opere della letteratura babilonese che può essere letta e apprezzata senza una conoscenza specialistica della civiltà da cui è sorta. I nomi dei personaggi possono sembrare insoliti e i luoghi strani, ma alcuni dei temi toccati dal poeta sono così universali, nell’esperienza umana, che il lettore non ha difficoltà a capire che cosa guidi l’eroe dell’epopea, e può facilmente identificarsi con le sue aspirazioni, la sua afflizione, la sua disperazione.»