“Giannettino Doria. Cardinale della Corona spagnola (1573-1642)” di Fabrizio D’Avenia

Prof. Fabrizio D’Avenia, Lei è autore del libro Giannettino Doria. Cardinale della Corona spagnola (1573-1642), edito da Viella: quale importanza riveste la figura di Giannettino Doria per la storia del suo tempo?
Giannettino Doria. Cardinale della Corona spagnola (1573-1642), Fabrizio D’AveniaNell’immaginario collettivo (e in buona parte anche storiografico) la figura di Giannettino Doria è ancora prevalentemente legata al suo ruolo di protagonista in occasione di un’epidemia, quella di peste che investì Palermo e la Sicilia tutta nel 1624. Il cardinale si ritrovò ad affrontarla non solo come arcivescovo di Palermo, ma anche come presidente del Regno, carica assunta in seguito alla morte del viceré Emanuele Filiberto, deceduto proprio a causa del morbo. La promozione del culto di S. Rosalia, i cui resti furono ritrovati sul Monte Pellegrino nel luglio di quell’anno, ebbe in Doria il principale regista, trasformandolo agiograficamente nel «pestilentis morbi contemptor, […] Sollicitus Pastor animan tuam ponens pro ovibus tuis», come ebbe a definirlo il pontefice Urbano VIII in una lettera del marzo 1630, nella quale lo informava dell’inserimento della vergine palermitana nel Martirologio Romano. Quella di Doria è stata dunque per lungo tempo un’apparizione tanto improvvisa quanto fugace sul palcoscenico della storia, una presenza tanto agiograficamente eroica da trasformarsi in una figura disincarnata, priva di una storia precedente e successiva ai drammatici fatti del 1624. Proprio su questa storia si concentra invece il libro, con l’obiettivo di ricollocare pienamente il cardinale genovese nel contesto della sua epoca e di comprendere meglio quest’ultima proprio attraverso la ricostruzione della sua biografia. Egli ha infatti incarnato il profilo internazionale tipico di un ecclesiastico diviso tra plurime lealtà politiche, nel contesto delle trasformazioni che tra XVI e XVII secolo coinvolsero la Monarquía católica degli Asburgo e la Santa Sede. La griglie di letture utilizzate per approfondire tale traiettoria biografica sono sostanzialmente tre: la coerenza di una condotta politica sostanzialmente filoasburgica nei confronti di entrambi i rami della famiglia (spagnolo e tedesco), ma con qualche concessione alle rivendicazioni, soprattutto giurisdizionali, della corte papale; l’azione pastorale ispirata ai decreti tridentini come mezzo indispensabile per affermare/rafforzare la sua autorità e prestigio nei confronti dei poteri temporali ed ecclesiastici concorrenti (per esempio quelli inquisitoriali); il sostegno alle strategie sociali della famiglia di origine, tanto come mediatore delle alleanze matrimoniali, quanto come protagonista di un “nepotismo cardinalizio” fonte di benefici per i parenti destinati alla carriera ecclesiastica.

In quale contesto si sviluppò la formazione del cardinale genovese?
Fin dalla nascita (marzo 1573) egli fu destinato a una carriera ecclesiastica “proporzionata” al prestigio e al potere della celebre dinastia genovese dei Doria, prestigio e potere costruiti e consolidati all’ombra degli Asburgo dal bisnonno (adottivo) Andrea Doria e dal padre Gian Andrea, principi di Melfi (Regno di Napoli), asentistas di galere e ammiragli della squadra navale spagnola. La sua formazione si sviluppò innanzitutto nei palazzi e ville di famiglia (Fassolo, Pegli, Loano), che furono il palcoscenico dove il piccolo e poi adolescente Giannettino vide sfilare molti tra gli uomini (e le donne) più potenti della Monarchia degli Asburgo (viceré, diplomatici, funzionari civili e militari, cardinali, infantas e futuri re di Spagna, principi e principesse di mezza Europa), protagonisti degli ultimi due decenni del regno di Filippo II. Essi furono beneficiari di quegli splendidi hospitaggi la cui regia, date le frequenti assenze del padre Gian Andrea, era affidata alla madre Zenobia del Carretto. Più o meno consapevolmente, il futuro cardinale fu dunque educato alla scuola di un principesco display of art che esaltava l’antichità/continuità del casato e la sua fedeltà alla causa degli Asburgo. Alla formazione genovese seguì quella spagnola con gli studi presso l’Università di Salamanca, dove Giannettino conseguì il baccalaureato in diritto canonico nel 1592, fu rettore ed ebbe tra i suoi colleghi un nipote del conquistatore del Messico Hernán Cortés, un cognato del banchiere Simon Ruiz e un fratello del generale Ambrogio Spinola. Dopo una parentesi genovese, alla fine del 1596 tornò di nuovo in Spagna, assistendo alla delicatissima fase di transizione tra il regno di Filippo II e quello del figlio Filippo III. Ben presto, insieme con il fratello Carlo – futuro duca di Tursi e successore del padre al comando delle galere –, riuscì a entrare nell’entourage del nuovo sovrano, intessendo relazioni con gli esponenti più influenti del governo, il valido (ministro favorito) duca di Lerma in primis. In questo contesto si andavano nel frattempo rafforzando le alleanze parentali e le solidarietà politiche della sua famiglia, su tutte quella con i Borja, duchi di Gandía, il celebre casato di papa Alessandro VI e del santo generale dei gesuiti Francisco. Una sorella e una nipote di Giannettino, infatti, sposarono rispettivamente due duchi di Gandía, padre e figlio, mentre un’altra nipote si sarebbe unita a un Lencastre, discendente del secondo lignaggio aristocratico più prestigioso del Portogallo, la cui corona in quel momento era unita a quella di Spagna.

Quali tappe segnarono la vita del porporato?
Al termine della lunga esperienza spagnola – di sé Giannettino avrebbe detto che «aunque no nací en España, en ella me crié que es lo más» – giunse la promozione alla porpora (giugno 1604) e un breve soggiorno romano, durante il quale partecipò ai due conclavi del 1605. In quell’occasione, nonostante l’inesperienza, dimostrò la capacità non solo di sapersi destreggiare nelle complesse negoziazioni tra le parti in campo, ma anche di giocare un ruolo di mediatore all’interno della stessa fazione spagnola (il gruppo di cardinali nominati su richiesta dei sovrani dei due rami degli Asburgo, iberico e tedesco). Di ritorno a Genova, dovette affrontare il difficile frangente familiare seguito alla morte del padre Gian Andrea (1606) e si ritagliò comunque un ruolo di mediatore di informazioni tra le corti di Madrid e di Roma, per esempio sui teatri di guerra del Milanese e delle Fiandre o sulla nota questione dell’Interdetto veneziano. Allo stesso tempo provava a trovare una collocazione stabile nella Curia romana, aspirazione di carriera mai realizzatasi. Nel 1609 iniziò la seconda fase della sua vita con il trasferimento in Sicilia in seguito alla nomina ad arcivescovo di Palermo, dove rimase fino alla morte, nel 1642. La permanenza nell’isola mise ben presto in evidenza le personalissime qualità di governo del cardinale, contrassegnate tuttavia da una morbosa gelosia per le (proprie) giurisdizioni ecclesiastiche, che si tradusse in ambito pastorale in un’intensa opera di riforma tridentina dell’arcidiocesi palermitana e lo portò a scontrarsi con i viceré in carica in materia di cortesías (precedenze). Contemporaneamente, Doria acquisì un ruolo politico chiave grazie ai suoi legami con una parte importante dell’aristocrazia isolana e ai quattro mandati come presidente del Regno (viceré ad interim), che lo trasformarono in un invadente “viceré ombra” nelle sue relazioni con l’alter ego del re di Spagna, con gli inquisitori locali e con i giudici del Tribunale della Regia Monarchia (l’onnipotente, almeno sulla carta, braccio giurisdizionale del privilegio della Legazia apostolica).

Quali vicende accompagnarono la sua elevazione alla porpora?
La nomina cardinalizia arrivò nel giugno 1604 al culmine di una complessa, e a tratti rude, negoziazione decennale con la Curia romana. La candidatura di Doria aveva trovato l’appoggio dei sovrani spagnoli, prima di Filippo II e poi di Filippo III e del suo valido, il duca di Lerma, che tuttavia in più di un’occasione gli antepose suoi parenti ed esponenti del suo entourage di potere. Sul fronte romano il papa Clemente VIII Aldobrandini mostrò un spiccata insofferenza nei confronti della nomina di Giannettino, innanzitutto a motivo delle continue e “sgraziate” pressioni che riceveva in tal senso dal padre Gian Andrea e delle voci poco lusinghiere che circolavano a Roma circa i supposti “vizi” del giovane Doria in materia di donne e di gioco. Non stupisce che la natura altiera del principe di Melfi reagisse malamente ai dinieghi del papa, come all’indomani della (mancata) promozione cardinalizia del 1599, quando egli si lamentò del fatto che «male mi ha pagato Sua Santità il molto che l’ho servito […] Li preti mi hanno burlato et no perdono». Le resistenze del pontefice ai condizionamenti “esterni” sulle nomine cardinalizie – da parte dei sovrani di Spagna e di Francia innanzitutto – rispondeva in realtà a una più ampia strategia mirante a rilanciare il protagonismo universalistico della Santa Sede e a ritagliarle un ruolo di regista della politica internazionale, ponendola, come ai tempi di Lepanto, alla guida di una pacificata alleanza antiturca di principi cristiani. In questo contesto, la tardità che il papa rimproverava a Gian Andrea Doria nelle sue azioni contro il nemico turco e barbaresco – prime fra tutte il mancato contrasto al sacco di Reggio Calabria nel 1594 ad opera del rinnegato messinese Sinan Pasha, ammiraglio della flotta ottomana, e la fallita spedizione per la liberazione di Algeri nel 1601 – non poteva che tradursi a sua volta in un rinvio della concessione della porpora a Giannettino. Questa arrivò invece quasi all’improvviso, nel giugno 1604, confermando quanto fosse difficile fare pronostici sulle nomine cardinalizie, anche in ragione della mole di informazioni, spesso contraddittorie, che circolavano sui possibili candidati.

Quale funzione svolgevano i Cardinali della Corona?
I cardinali cosiddetti “della Corona” erano quelli la cui candidatura era avanzata direttamente da un sovrano, di norma in occasione della terza tornata di promozioni di ciascun pontefice. Come spiegava un memoriale indirizzato nel 1637 al re di Spagna Filippo IV, tale prassi rispondeva in realtà a una legge non scritta, alla quale il pontefice avrebbe potuto tranquillamente derogare, considerandola a buon diritto un abuso. Questi porporati “nazionali” avrebbero dovuto costituire una sorta di gruppo di pressione impegnato nel difendere gli interessi della Corona che li aveva sponsorizzati, in modo particolare nel momento delicatissimo dell’elezione di un nuovo pontefice. Non a caso, il già citato Clemente VIII aveva sentenziato che «i cardinali eletti per richiesta dei principi seguono quasi sempre interessi particolari, come ho io sperimentato nei conclavi». Nella pratica, sull’appartenenza ufficiale a una “fazione” o “partito” cardinalizio prevalevano spesso gli interessi personali. Come recenti ricerche hanno documentato, anche i cardinali spagnoli di nascita sfuggivano al controllo del loro re-patrono, assumendo posizioni in contrasto tra loro o con lo stesso ambasciatore spagnolo a Roma, dove risiedevano spesso a malincuore, trovando il modo di allontanarsene nonostante il parere contrario di Madrid. Una conferma esplicita si può leggere in due lettere proprio del cardinale Doria indirizzate al duca di Lerma nel maggio 1605, all’indomani della chiusura del secondo conclave di quell’anno, nelle quali egli affermava senza giri di parole che tutti i suoi colleghi, indipendentemente dal grado di legame con la Monarchia spagnola, non guardavano ad altro se non a ciò che «les parece que les está mejor».

Come visse il cardinale genovese la nomina ad arcivescovo di Palermo?
Sulla base della documentazione presentata nel volume credo di aver dimostrato quanto egli aspirasse a una prestigiosa carriera nella Curia romana, magari come ambasciatore di Spagna o cardinale protettore di uno dei reinos governati dagli Asburgo. Certamente, l’idea di essere stato destinato alla “periferica” Sicilia fu per lui motivo di frustrazione. Nell’estate del 1608 egli si lasciò andare a uno sfogo che non lascia spazio a dubbi in proposito: in risposta all’ambasciatore spagnolo a Roma, marchese di Aytona, che gli aveva fatto gli auguri – «el pláçeme» – per la nomina ad arcivescovo di Palermo, Doria lo invitava piuttosto a porgergli le condoglianze – «el pésame» –, non mostrando alcuna «prissa para yrme a Sicilia», anzi giudicando quel trasferimento come una fuga, «desterrándome a mí mismo». Più volte, negli anni successivi, egli ribadì la volontà di lasciare l’isola in vista di altri e più prestigiosi incarichi. Furono proprio le drammatiche vicende dell’epidemia di peste del 1624 e legarlo invece per sempre alla Sicilia e alla sua capitale Palermo, facendogli accantonare una volta per tutte le aspirazioni romane.

In che modo il cardinale riuscì a comporre le sue multiple lealtà?
Non c’è dubbio che fu innanzitutto il suo forte carattere a consentirgli di tenere insieme, in un equilibrio tuttavia sempre precario, le sue diverse “appartenenze”, senza mai consentire che una prevalesse nettamente sulle altre. Il profilo che emerge dal libro è, infatti, quello di una una personalità forgiata da una miscela di pesanti condizionamenti esterni e libere scelte individuali, raramente disposta a piegarsi al compromesso, soprattutto quando si trattava di reputazione personale (e familiare). In lui era indubbiamente fortissima la convinzione di una superiorità aristocratica derivante dall’appartenenza a un casato antico, il cui prestigio e potere era indipendente da una legittimazione esterna, fosse quella proveniente dalla Repubblica genovese, dalla Corona spagnola o dalla Santa Sede. Erano queste semmai a “dover” riconoscere il prezioso ruolo svolto dai Doria al loro servizio. Basti qui ricordare quante volte ricorressero nella corrispondenza di Giannettino i riferimenti ossessivi alla sua reputación o alla sua condizione di hijo de mis padres, spie di quella natura molto altiera (evidentemente ereditata dal padre) che lo portava a illudersi di poter trattare alle pari con papi, sovrani, principi, viceré e ministri. Penso si possa però affermare che Giannettino Doria fu cardinale della Corona spagnola, prima ancora che di Santa Romana Chiesa. La questione chiave sarebbe comprendere – ma le stesse considerazioni potrebbero estendersi più in generale a un’intera categoria di prelati cattolici della prima età moderna – quanto destreggiarsi tra queste due lealtà (Madrid e Roma) abbia richiesto solo abile opportunismo o anche (e soprattutto) consapevolezza di una ratio superiore che potesse ricomporle. C’è da ipotizzare che questa coincidesse con l’adesione a quell’universalismo cattolico all’interno del quale casato di origine, “patria” di nascita (i rapporti tra il cardinale e quest’ultima furono per altro giocati all’insegna di una reciproca ma rispettosa diffidenza), papato romano e Monarquía spagnola, e più ampiamente ragion di stato e fede religiosa, stemperavano i reciproci contrasti e concorrevano a una superiore fedeltà. Nel caso di Doria ne era plastica rappresentazione l’aquila nera, simbolo delle insegne di famiglia, campeggiante nel suo stemma cardinalizio. Il nobile rapace, protagonista di una delle orazioni funebri declamate in occasioni dei suoi funerali solenni, coincideva infatti con quello degli stemmi degli Asburgo, ma anche del Regno di Sicilia e della città di Palermo. Una testimonianza efficace di convinzioni che coniugavano politica e provvidenza Doria la espresse quando era ancora un inesperto, ma non certo ingenuo, cardinale. Nel marzo 1605, prima di partecipare al suo primo conclave, scrisse infatti al duca di Lerma che «el suceso depende de la voluntad de Dios, […] y así creo que todo se encaminará en bien de la Cristiandad y en servicio de la Real Corona de Su Majestad, pues lo uno y lo otro van tan juntos como sabemos». Che gli accidenti (e gli incidenti) frutto delle scelte umane si potessero (e dovessero) ricomporre in un disegno divino complessivo era, com’è noto, un argomento ricorrente nell’ampia letteratura dei cosiddetti “discorsi di conclave”. Al di là dell’esagerazione retorica, esso rispondeva tuttavia anche alla necessità di relativizzare le contrapposizioni più irriducibili, tanto più – come scriveva sempre Doria tre anni dopo all’ambasciatore francese a Roma – se il «servitio di Dio […] è simile all’animo di Vostra Maestà [di Francia] cossi non è dissimile da quello del re cattolico [di Spagna] mio signore». Come molti suoi contemporanei, il cardinale sembrava convinto del fatto che, come «la creatione dei papi», anche la storia «appartiene a Dio, e se le fattioni humane presumono havervi parte, [egli] dissipa e distrugge loro pensieri».

Dalla documentazione emergono altri tratti della religiosità del cardinale?
Le fonti da me analizzate sono in realtà avare di indicazioni in merito, se non fosse per l’indubbia influenza esercitata dall’esempio della madre Zenobia, i rari riferimenti alle sue devozioni private – pellegrinaggi a Loreto e dipinti di soggetto sacro in suo possesso – o la presunta ma tardiva conversione a un’intensa vita spirituale negli ultimi mesi prima della morte, sollecitata dagli ammonimenti profetici di un servo di Dio (dalla ricerca è emersa per altro la sua sensibilità anche per un altro genere di previsioni, come quelle astrologiche). Per quanto è dato sapere, durante il lungo periodo siciliano la sua esistenza fu pervasa dalle manifestazioni esteriori e retoriche (nel senso di persuasive e coinvolgenti) tipiche della pietas barocca e adeguate alla dignità di un cardinale-arcivescovo “tridentino”: culto dell’Eucarestia e dei santi (la devozione a santa Rosalia da lui “inventata” sarebbe presto arrivata fino a Nizza), fondazioni e rinnovamenti di chiese, monasteri e conventi, esemplari provvedimenti di disciplinamento pastorale, committenza di manufatti artistici sacri, eventi straordinari attributi al miracoloso intervento divino. Quanto a tale “religiosità visuale” corrispondesse una convinta adesione di fede personale non è invece possibile indovinare ed è probabilmente una questione mal posta per un’epoca in cui la separazione tra coscienza privata e azione pubblica (anche in campo politico) risultava estranea alla sensibilità dominante.

Fabrizio D’Avenia è Professore Associato di Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato La Chiesa del re. Monarchia e Papato nella Sicilia spagnola (secc. XVI-XVII) (Roma, 2015).

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