
Nel volume che ho menzionato prima, De Mauro ricorda un gesto molto curioso, nato a Napoli e diffusosi in seguito al di fuori della città, eseguito di solito con la punta delle dita della mano destra sfregata ripetutamente sulla parte sinistra del mento, dal basso in alto, da destra verso sinistra. Racconta De Mauro che questa grattatina del mento fu rivolta dall’economista Piero Sraffa al grande filosofo del Novecento Ludwig Wittgenstein; l’intenzione di Sraffa fu quella di manifestare la sua incertezza e il suo disaccordo verso le posizioni teoriche di Wittgenstein. La grattatina, infatti, può essere tradotta verbalmente in questo modo: «Sì, vedo. Certo, le cose pare proprio che stiano così. Però, eh: c’è qualcosa che non vedo, ma sento che c’è, e che non mi persuade. No, forse le cose non stanno così. Ma nemmeno di questo sono sicuro» (ibidem).
È specificamente dedicato ai gesti napoletani il dizionario ottocentesco del canonico Andrea De Jorio, su cui è incentrato il contributo di Serenella Baggio in Gesticolar parlando. Per la ricchezza delle informazioni raccolte nel dizionario e per la chiarezza nell’esposizione, vale la pena di riportare parte di una voce. Prendiamo come esempio la voce negativa, no (cito dall’edizione originale del dizionario, edita a Napoli nel 1832 per i tipi del Fibreno, pp. 222 e 224).
NEGATIVA, NO.
Si può dir di no col gestire, ed in diversi modi: Con gli occhi, con la testa, con la testa e le mani, con le mani sole, e con tutto il corpo, o col semplice trarre in su le spalle, infossando il collo. Per quello che riguarda lo spirito del gesto è anche vario, cioè Negativa con indifferenza, con impegno, con sorpresa, con isdegno od orrore, o finalmente con ironia; la quale, […], può accoppiarsi a tutti i gesti.
Già si comprende benissimo che queste varianti si definiscono dai diversi caratteri del volto, ma ciò non ostante spesso la semplice diversità del gesto ne varia il significato, come vedremo.
[…]
- Estremi esterni delle dita puntate sotto al mento, e spinte con violenza in fuori […]. Dopo l’anzidetto si comprende chiaro, come con simile atteggiamento il mimico vi dinota che egli vuole allontanare la sua testa da ciò che gli si offre o propone, perché non gli aggrada. Per eseguirlo presto e con forza, ricorre alla mano, acciò o con gli estremi esterni delle dita, o con le sole punte delle unghia, faccia atto di spingere al più lontano, che può, la sua testa; la quale in questo caso si prende anche per l’intera persona.
Nel suo contributo, Serenella Baggio sottolinea giustamente la modernità del testo di De Jorio; sin dalle prime righe della voce riportata sopra, l’autore dichiara la multimodalità (come diciamo oggi) della comunicazione. Quando desideriamo comunicare qualcosa a qualcuno siamo naturalmente (in quanto esseri umani) portati ad associare alle parole movimenti delle nostre parti del corpo (mezzi o modi – termine giù usato da De Jorio – semiotici). Anche quei movimenti del corpo, come le parole, hanno un preciso significato.
Il gesto di strisciare il dorso di una mano sotto il mento non si è espanso, in diacronia, a livello panitaliano con il significato “no”; vuole dire “non mi interessa”, “chi se ne importa”. In tutta Italia sono riconosciuti e usati come espressione di negazione (“no”, “non sono d’accordo”, “secondo me, no”, ecc.) il movimento della testa da sinistra a destra per due/tre volte con il collo tenuto fermo e il gesto compiuto con il movimento da sinistra a destra per due/tre volte dell’indice teso verso l’alto di una mano. Nel significato “disinteresse” c’è comunque la componente di negazione (“non mi interessa”).
Perché strisciare il dorso di una mano sotto il mento per mostrare negazione e disinteresse? Perché, come dice De Jorio, il movimento della mano starebbe ad indicare l’allontanamento della testa, e quindi per sineddoche (la parte per il tutto) dell’intera persona, da qualcosa. Allontanarsi da qualcosa è un atto fisico di rifiuto e noncuranza.
Nell’esecuzione e nell’uso dei gesti possono intervenire le figure retoriche: anche quest’aspetto era già chiaro a De Jorio. Il gesto di strisciare sorridendo il dorso di una mano sotto il mento esprime un ironico (e non reale) disinteresse.
Spero che quanto detto finora basti per comprendere l’importanza dei fattori tempo e spazio, della storia e della geografia, per lo studio della gestualità (non solo della lingua).
Quali potenzialità linguistiche e variabilità esprime la gestualità?
Da diverso tempo ormai mi occupo di gestualità dalla prospettiva di una «linguistica integrale» (l’espressione è nelle Lezioni di linguistica teorica di Tullio De Mauro, pubblicate nel 2008 per i tipi di Laterza, a p. 175). Tento cioè di indagare la gestualità in un confronto costante con il codice lingua, sia a livello teorico che pratico.
Un gesto, come una parola, è un’entità bifacciale significante-“significato”; il significante può essere descritto secondo i valori assunti dal gesto rispetto a quattro parametri: la forma della mano, l’orientamento del palmo, il luogo di esecuzione e il movimento. Sollevare all’altezza del petto nello spazio di fronte al parlante le mani con le dita unite nei polpastrelli e il palmo verso l’alto (mani a borsa) è un gesto traducibile in italiano con “tanta gente”, “pieno così”, “pieno di gente”, mentre sollevare, aprire e chiudere rapidamente all’altezza del petto nello spazio di fronte al parlante le mani a borsa è un altro gesto che in italiano significa “paura eh!”, “hai (avuto) paura?”: i due gesti differiscono soltanto per un valore corrispondente allo stesso parametro, ossia il movimento. Come ebbe a scrivere De Jorio (cfr. sopra): «la semplice diversità del gesto ne varia il significato».
Nel mio contributo accolto in Gesticolar parlando ho proposto un’analisi dei gesti così definiti, e più in generale dei movimenti del corpo con valore comunicativo, incrociando le variabili diafasica e diamesica, variabili canoniche nell’analisi (socio)linguistica. Nello specifico, ho esaminato le strategie linguistico-comunicative volte alla divulgazione della medicina e dell’arte attraverso trasmissioni televisive. Scrivo nelle conclusioni (p. 26): «I risultati hanno mostrato una costruzione del discorso nell’interazione empatica tra conduttrice e ospite-esperto intervistato: mentre la battuta di un interlocutore è ancora in corso, l’altro già annuisce con il capo in silenzio, prevedendo quella battuta e confermandola. […] in particolare, nel caso della medicina, i gesti si sono rivelati strumenti di concretizzazione del tempo attraverso l’uso dello spazio, mentre nel caso dell’arte i gesti deittici dell’esperto sono apparsi funzionali a indirizzare l’attenzione della conduttrice (da vicino) e dei telespettatori (da lontano) verso i quadri concretamente presenti sotto forma di riproduzioni nello studio televisivo e ben osservabili». E insisto su questo punto: «Senza la prospettiva di una linguistica integrale avremmo perso questi risultati» (ibidem). In una battuta, le parole sono importanti (come Nanni Moretti fa dire a Michele Apicella nel film Palombella Rossa del 1989), ma non sono tutto.
Alcuni gesti sono universalmente noti come Italian gestures: quale specificità possiedono, nella nostra cultura, i codici gestuali?
Gli Italian gestures rientrano nella categoria degli emblematici o simbolici: si tratta di gesti facilmente traducibili in parole o frasi perché il loro significato è stabile e ben noto ai parlanti nativi di una certa lingua e cultura; questo tipo di gesti viene inoltre volutamente usato per comunicare. Il gesto bandiera della nostra lingua e cultura, in patria e all’estero, è certamente l’oscillazione ripetuta verso l’alto e poi in basso di una o di entrambe le mani a borsa, “ma che cosa vuoi?!”, “ma che dici?”, “ma dove vai?”. Fabio Caon, nel suo Dizionario dei gesti degli italiani. Una prospettiva interculturale (Guerra Edizioni, 2010), segnala che «Il gesto, in Grecia, significa “ottimo”, “perfetto”, mentre in Egitto e nel mondo arabo in genere esprime la richiesta di aspettare, di avere pazienza. In Cina, infine, sta ad indicare “poca quantità”» (p. 121).
I gesti emblematici o simbolici sono potenzialmente autonomi dal parlato, vale a dire che possono persino sostituirlo completamente; al contrario, i gesti coverbali non sono prodotti in assenza di parlato.
In un mio volume uscito pochi anni fa (I gesti dell’italiano, Carocci, Roma, 2019) ho provato a dimostrare come anche i gesti coverbali codificati in italiano (non solo, quindi, gli emblematici o simbolici) possono essere raccolti in un dizionario che ho chiamato Gestibolario.
Sul Gestibolario e sul tema della gestualità torno a riflettere nel mio ultimo libro L’italiano senza parole: segni, gesti, silenzi, in uscita nella collana Italiano di oggi, diretta da Fabio Rossi e Fabio Ruggiano, pubblicata da Franco Cesati. La collocazione di un volume sui gesti in una collana dedicata all’italiano è un segnale importante di attenzione alla dimensione non verbale della nostra lingua.
Claudio Nobili è Ricercatore (tipo B) di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione (DISUFF) dell’Università degli Studi di Salerno. Si occupa prevalentemente di didattica dell’italiano, di gestualità in prospettiva linguistica e nell’ottica di un’educazione linguistica integrale, e di italiano variazionale in prospettiva sincronica. È autore delle monografie L’italiano e le sue varietà (Firenze, Franco Cesati Editore, 2018; con Sergio Lubello); I gesti dell’italiano (Roma, Carocci, 2019). Con Serenella Baggio ha curato il volume Gesticolar parlando. Esempi di studi linguistici trasversali (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2022).