“Geografia economica dell’Europa sovranista” di Gianmarco Ottaviano

Geografia economica dell’Europa sovranista, Gianmarco OttavianoProf. Gianmarco Ottaviano, Lei è autore del libro Geografia economica dell’Europa sovranista edito da Laterza: dove si manifesta maggiormente la sfiducia nei confronti dell’Unione Europea e per quali ragioni?
Nell’immaginario collettivo l’integrazione europea viene spesso associata alla globalizzazione. Per questo la sfiducia nei confronti dell’Unione Europea si manifesta principalmente nelle regioni che hanno subito maggiormente gli effetti negativi della globalizzazione: competizione dall’estero, chiusura delle fabbriche, disoccupazione persistente, stallo del potere di acquisto dei salari, deterioramento delle infrastrutture e dei servizi pubblici, marginalità e asocialità dilaganti, crisi del modello di vita tradizionale e dell’identità della comunità locale, “fuga dei cervelli”, crescente incertezza sul futuro.

In questo senso, la sfiducia manifestata nei confronti dell’Unione sembra essere una richiesta di “protezione” contro la globalizzazione da parte di chi ritiene che altri (le “elite”) si arroghino il diritto di prendere, in nome dell’interesse collettivo, decisioni che sulla carta dovrebbero essere a vantaggio di tutti, ma alla fine sembrano essere buone soltanto per chi le ha prese nella misura in cui non è disposto a condividerne i benefici. È da questa mancanza di redistribuzione dei benefici della globalizzazione che nasce la richiesta di protezione, che tanto spiega delle recenti dinamiche politiche in Europa.

Che effetti economici deriverebbero da un distacco dall’Europa e chi ne subirebbe le conseguenze negative?
Se davvero liberi, gli scambi commerciali, nazionali e internazionali, generano prosperità economica. Il progetto di integrazione europea, perseguito dopo le tragedie della Seconda guerra mondiale, nasce dalla convinzione che il libero scambio possa anche sostenere la pace, generando un circolo virtuoso di pace e prosperità.

La quantificazione dei costi e dei benefici economici dell’integrazione europea porta effettivamente a concludere che i secondi superino di gran lunga i primi. Per esempio, lo scenario di ritorno al passato pre-Unione comporterebbe una riduzione di reddito pro capite per i paesi membri notevole.

Tuttavia, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una crescente sfiducia nella capacità dell’Unione Europea di creare le condizioni necessarie a distribuire i suoi benefici a tutti i cittadini. È da una distribuzione più equa di questi benefici che bisogna ripartire. Analogamente, in assenza di ridistribuzione, a subire maggiormente la conseguenze negative di un distacco dall’UE sarebbero proprio le persone che hanno maggiore sfiducia nel progetto europeo perché sono quelle che avrebbero più ridotte vie di scampo di fronte alla concorrenza globale: i lavoratori poco qualificati perché più difficilmente occupabili; gli anziani perché il tempo non è più dalla loro parte nella ricerca di soluzioni alternative.

Quali reali costi e benefici comporta l’essere parte dell’Unione?
Il beneficio economico più importante per uno Stato membro è il libero accesso per le sue merci, i suoi servizi, i suoi capitali e le sue persone al più grande mercato del mondo: il Mercato Unico dell’Unione Europea. Per godere di questo privilegio, gli stati membri devono però accettare una serie di restrizioni nella conduzione della propria politica economica. Per esempio, un’importante restrizione è quella che impone agli stati membri di non concludere accordi commerciali indipendenti con i paesi extra-Unione.

Inoltre, per essere membro dell’Unione, un paese deve pagare una “quota associativa” che, al netto, dipende dalla sua dimensione economica e dal suo livello di sviluppo. I principali conferimenti degli stati membri a Bruxelles sono grossomodo proporzionali al reddito aggregato nazionale, mentre nel loro insieme i principali trasferimenti da Bruxelles agli stati membri (per iniziative legate all’agricoltura, all’assistenza alle regioni più povere, alle reti di infrastrutture transeuropee e alla ricerca) premiano i paesi meno sviluppati. In questo meccanismo redistributivo a vantaggio dei paesi più poveri, i paesi più ricchi (come Francia, Germania, Italia e Regno Unito) ricevono da Bruxelles meno di quello che danno.

L’Unione ci espone alla concorrenza internazionale e alla delocalizzazione del lavoro oppure ci difende?
Spesso si tende ad identificare l’integrazione europea con la globalizzazione. In realtà la prima ha ben poco a che fare con la seconda. Globalizzazione ed integrazione europea non sono la stessa cosa. Poiché non sono la stessa cosa, i loro effetti sono molto diversi.

Solo le regioni più ricche del Vecchio Continente riescono a vedere le due facce della globalizzazione: quella aggressiva della maggiore concorrenza estera, ma anche quella sorridente dei nuovi mercati di sbocco nel resto del mondo. Le regioni più povere vedono solo la faccia aggressiva, in particolare quella associata alla cresciuta potenza economica dei Paesi emergenti come la Cina e alle loro esportazioni. Nel caso dell’integrazione europea, invece, non solo la Collina ma anche la Valle riescono a vedere entrambe le facce: quella dei nuovi concorrenti ma anche quella dei nuovi clienti.

La sfiducia nell’Unione europea sembra quindi essere scaturita da un equivoco, dovuta all’incapacità diffusa di distinguere gli effetti della “globalizzazione” dei mercati sull’economia locale da quelli della loro “europeizzazione”. Si tratta di un’incapacità di cogliere la differenza tra le opportunità regionali (e quindi più facilmente accessibili per l’economia locale) della seconda e le opportunità globali (e quindi meno facilmente accessibili per l’economia locale) della prima: la quota del PIL di uno Stato membro derivante dalla domanda di consumo e investimento del resto dell’Unione Europea di circa tre volte superiore a quella derivanti dalla domanda di Stati Uniti e Cina; quelle degli altri Paesi extra-UE sono ancora più piccole.

Il protezionismo può incentivare la nostra economia?
Il protezionismo di un Paese può dare un sollievo temporaneo alle sue imprese, ma a danno dei suoi consumatori e soltanto se gli altri Paesi non perseguono a loro volta politiche protezionistiche. Ci sono infatti solide ragioni per ritenere che, in generale, ridurre la libertà degli scambi internazionali finisca per indebolire l’economia nazionale. Almeno questa è la conclusione del dibattito tra i sostenitori del libero scambio e i suoi critici che ha attraversato i secoli .

Una prima ragione sottolinea l’importanza della libera iniziativa privata che il protezionismo tende a soffocare. Una seconda ragione è che la creazione di un unico grande mercato transnazionale consente, alle imprese individualmente e ai settori nel loro insieme, di raggiungere volumi di produzione impensabili in un mercato locale isolato, promuovendo in questo modo l’efficienza produttiva, la riduzione dei prezzi nonché l’aumento di redditi e consumi. Una terza ragione è che la concorrenza estera riduce il “potere di mercato” delle imprese nazionali, cioè la loro capacità di mantenere i loro prezzi molto al di sopra dei costi di produzione, razionando inefficientemente l’offerta in virtù del fatto che in un mercato protetto i loro clienti locali non hanno molte alternative.

Perché crescono i divari di sviluppo tra regioni europee ricche e povere se l’integrazione avrebbe dovuto ridurli?
Lo sviluppo economico passa spesso attraverso la concentrazione geografica delle attività economiche e quindi attraverso una divisione delle regioni in più o meno sviluppate. Questo è quello che avviene anche in Europa. La sfida è quella di far sì che il successo delle regioni più dinamiche si diffonda anche a quelle meno attive. Se questo avviene, lo sviluppo economico diventa inclusivo e riesce a godere di un ampio consenso popolare.

All’inizio del progetto europeo i più pensavano che la convergenza nei livelli di benessere tra regioni più o meno dinamiche sarebbe stata una naturale conseguenza del processo di integrazione economica: imprese e persone si sarebbero ridistribuite tra le regioni fino ad eliminare ogni incentivo a farlo, cioè fino a quando le differenze regionali di profitti e salari fossero scomparse.

Questo ragionamento funziona fintantoché le “forze centripete”, che favoriscono la concentrazione geografica delle attività economiche, sono controbilanciate da “forze centripete” di pari intensità, che promuovono invece la dispersione di tali attività. L’evoluzione recente della geografia economica europea sembra suggerire che l’integrazione europea abbia alterato questo equilibrio tra forze centripete e centrifughe a vantaggio delle prime, cioè promuovendo una maggiore disuguaglianza regionale che ben spiega la crescente polarizzazione politica tra “centri” dominanti e “periferie” dimenticate.

Quali effetti reali ha l’immigrazione sulle economie di tutta Europa?
Quello dell’immigrazione è un problema particolarmente sentito dai cittadini europei e in tempi recenti li ha portati a votare con crescente entusiasmo partiti che della “lotta all’immigrazione” hanno fatto la propria bandiera. Nonostante questo, non si segnalano finora effetti economici negativi particolarmente rilevanti dell’immigrazione sui cittadini dei paesi di destinazione, né in termini di occupazione né in termini di salari. Mentre infatti il numero di immigrati è cresciuto costantemente, i salari e il tasso di disoccupazione dei lavoratori autoctoni hanno continuato a oscillare seguendo le fasi del ciclo economico senza alcuna variazione tendenziale.

Sembrerebbe, quindi, che la spiegazione di certi recenti risultati elettorali a favore della “lotta all’immigrazione” vada ricercata nella diffusa sensazione tra i cittadini europei di essere di fronte ad un nuovo fenomeno di rilevanza epocale, di cui i governi non stanno dimostrando di saper gestire le implicazioni sociali, più che nelle sue effettive conseguenze economiche.

Quale futuro per l’Unione Europea?
Il progetto europeo deve recuperare la spinta degli ideali che ne hanno motivato la nascita. Negli ultimi anni la distanza emotiva tra i cittadini e le istituzioni europee si è andata accentuando a causa della narrativa economicista che domina ormai ogni dibattito sull’Unione Europea, ridotta da progetto di pacifica convivenza sociale, politica e culturale a mero esercizio contabile, fatto di debiti e crediti, deficit e surplus, spread e rendimenti, indici di borsa e bilance commerciali. Il valore dell’Unione europea per i cittadini dei suoi Stati membri si è ridotto al saldo di un’analisi dei costi e dei benefici economici.

Aver svuotato il dibattito sull’Unione da considerazioni non puramente economiciste ha favorito l’insorgere della retorica populista anti UE oggi dominante in molti Paesi. Questo sta avvenendo purtroppo nel momento storico sbagliato, quando, di fronte sia all’aggressività di grandi “nemici” e “alleati”, vicini e lontani, quali Cina, India, Russia, Stati Uniti e Turchia, e che alla pressione migratoria dall’Africa e dalle zone di conflitto del Medio Oriente, l’unità d’intenti del Vecchio Continente sembrerebbe essere l’unica difesa possibile del suo modello di sviluppo economico-sociale. Modello che, paradossalmente, sono proprio i sovranisti a dichiarare di voler difendere in quanto ritenuto il migliore possibile.

Gianmarco I.P. Ottaviano si è laureato in Discipline Economiche e Sociali all’Università Bocconi di Milano, ottenendo successivamente il Master of Science in Economics presso la London School of Economics and Political Science e il Ph.D. in Economics all’Université Catholique de Louvain. È professore ordinario di Economia politica all’Università Bocconi di Milano.

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