
di Carlo Dionisotti
Einaudi
«Poco prima dell’ultima guerra tornò in discussione fra studiosi italiani il quesito se e fino a qual segno la storia d’Italia potesse dirsi unitaria. In tale occasione Benedetto Croce pubblicò nei «Proceedings of the British Academy» un saggio in cui ribadiva la tesi, coerente al suo pensiero, ma splendidamente ardita in quella sede e a quella data (1936), che di una storia d’Italia anteriore al processo unitario del Risorgimento non fosse il caso di parlare, risolvendosi essa nella varia storia delle singole unità politiche, regionali o municipali o altramente costituite, in cui l’Italia per secoli era stata divisa.
La tesi del Croce si abbatteva sul tentativo che la storiografia e pubblicistica cortigiana veniva allora facendo di ritrovare patenti di nobiltà romana e di ascendenze cesaree al nazionalismo imperialistico e di lì a poco razzistico che si era affermato in Italia al potere. Ma essa anche e principalmente mirava a più decente obiettivo: si opponeva cioè alla tesi, sostenuta pur da studiosi competenti e disinteressati, che sotto la diversità innegabile, e divergenza a volte, degli eventi politici verificatisi in Italia durante il Medioevo e l’Età moderna, fosse tuttavia riconoscibile la linea maestra di una tradizione e insieme di un’aspirazione unitaria, di un’unità civile volta a volta e progressivamente fondata sulla comunità dei costumi, degli interessi economici, delle istituzioni giuridiche, del linguaggio, delle lettere, delle arti, tale insomma che senza di essa inesplicabile sarebbe rimasta l’unificazione politica finalmente attuata dal Risorgimento.
A questa discussione, nuovo alimento e stimolo dovevano inevitabilmente fornire le vicende dell’ultima guerra e dell’immediato dopoguerra. Senonché da una presunta continuità unitaria della storia d’Italia, la discussione fu spostata sulla compattezza stessa della unificazione risorgimentale, più acuta facendosi la preoccupazione politica e maggiore la consapevolezza storica delle differenze che fra le varie parti d’Italia intercedono nel loro assetto attuale e nelle stratificazioni del passato. Quanto ad esempio l’unità stessa di una regione isolata e periferica come il Piemonte, e di una regione che tanta parte ha avuto nel processo unitario del Risorgimento, sia cosa recente, e come essa risulti da una lenta assimilazione di nuclei minori, ciascuno con una sua vivace tradizione di indipendenza, è quel che brevemente insegna un eccellente saggio da poco apparso, del primo cittadino, oggi, d’Italia, Luigi Einaudi.
Certo è che mai come all’indomani di una disfatta militare e nel decorso di una crisi politica che hanno insidiato l’unità e l’esistenza stessa, come nazione e come stato, dell’Italia, si è sentito forte il bisogno di vedere con chiarezza in che modo e fino a che punto l’Italia sia stata a tutt’oggi fatta. Ma il problema che si è così posto nei suoi termini propri di storia politica, invade per un buon tratto la storia della letteratura, e sollecita l’attenzione degli studiosi di questa. Già è significativo il fatto che una storia della letteratura, quella ormai classica di Francesco De Sanctis, sia, credo, il solo libro che alla maggioranza degli Italiani abbia offerto e tuttavia offra una suggestiva rappresentazione e interpretazione unitaria della loro storia. Né occorre ricordare che su documenti letterari, da Dante al Manzoni, è principalmente fondata la tradizione unitaria in Italia. Occorre però forse precisare che questa tradizione non risulta, alle sue origini e nel suo impulso espansivo, da un intempestivo ideale politico bandito ai margini della storia da irresponsabili benché fatidici sognatori. Essa risulta invece da un tempestivo e vittorioso ideale letterario, dal mito che la cultura italiana del Rinascimento creò e impose di una Italia risvegliatasi dal suo lungo e impotente sonno medievale non più donna di province ma pur sempre donna di una ineguagliata e forse ineguagliabile civiltà. È stata, come la storia della storiografia insegna, una tradizione umanistica, nutrita di successi linguistici e letterari, fondata sulla persuasione che gli Italiani soffrono sì la violenza degli eventi storici, ma sono essi soli capaci, per elezione e per educazione, di opporre a quella effimera e cieca violenza la perenne, lucida validità del discorso, della scrittura. Strano può sembrare oggi a primo aspetto quel mito, questa orgogliosa persuasione. Non però a chi consideri quanta importanza abbia avuto per la cultura tutta dell’Europa moderna la tradizione classica e quanto a questa abbia contribuito la scuola umanistica italiana per più di due secoli, dal Tre al Cinquecento. Comunque è un fatto che durante tale periodo il mito di una innata e acquisita insieme aristocrazia letteraria italiana ebbe largo corso in Europa e vi lasciò traccia anche nei secoli successivi. Quanto all’Italia, è ben naturale che quel mito vi abbia avuto radici profonde, rigogliose, tenacissime. Crescevano, dal Cinquecento in poi, di contro e al di sopra della letteratura italiana, le altre grandi letterature moderne. Mutava via via, in seguito a nuove esperienze e ricerche, la concezione che il Rinascimento italiano aveva avuto così dell’antichità classica come del Medioevo. La cultura italiana si trovò fra il Sei e il Settecento a dover difendere, spalle al muro, la legittimità dei suoi privilegi. Si difese, nel complesso, bene. Come essa aveva, nel pieno del suo vigore, largamente donato ad altri, così ora, nell’età che è pur quella del Vico e del Metastasio, essa poté accettare il combattimento sul terreno degli avversari non meno che sul proprio. Da questa manovrata difesa, nel contrasto con la superiore cultura francese e a riscontro della allora iniziata Histoire littéraire de la France, nasce nel Settecento, come organica costruzione, la storia della letteratura italiana.»