“Genova e Roma tra Cinque e Seicento. Gruppi di potere, rapporti politico-diplomatici, strategie internazionali” di Diego Pizzorno

Dott. Diego Pizzorno, Lei è autore del libro Genova e Roma tra Cinque e Seicento. Gruppi di potere, rapporti politico-diplomatici, strategie internazionali edito da Mucchi: qual è la situazione politica a Genova durante quello che è stato definito il Siglo de los Genoveses?
Genova e Roma tra Cinque e Seicento. Gruppi di potere, rapporti politico-diplomatici, strategie internazionali, Diego PizzornoPotrei pescare a piene mani da autori che più e meglio di me hanno approfondito la questione. E non ci sarebbe niente di male, perché, proprio per la loro autorevolezza, le disamine di quegli studiosi hanno integrato il mio percorso di ricerca e di scrittura. Ma, negli spazi di un’intervista, forse è meglio affidarsi alle frecce che si ha al proprio arco. Il che mi porta a porre innanzitutto un accento polemico sul Siglo, che è un brand storiografico di successo, divenuto, con il passare del tempo, un arcigno baluardo a conservazione dell’esistente. Già Claudio Costantini, a cui debbo l’“istigazione a delinquere” del mio libro, aveva visto nel Siglo una sorta di Moloch, e aveva suggerito di aggirarlo attraverso la “pista romana” da me imboccata. Intendiamoci: non si tratta di negare le robuste ragioni di fondo del Siglo, che indica una stagione di grandi prosperità finanziarie genovesi all’interno dell’alleanza tra Genova e Madrid; ma di valutarne le ricadute negative. Il Siglo porta acqua al mulino di una storiografia intenta da tempo a ridimensionare la decadenza italiana nei secoli della pax hispanica. Proposito benemerito, perché si tratta di contrastare una vulgata risorgimentale e nazionalistica che per molto tempo ha viziato gli studi storici. Se non fosse che la battaglia è stata vinta da tempo; e, se si perde di vista lo sbilanciamento nei rapporti di forza generali tra Genova e Madrid, il risulto è quello di dare visioni non meno fuorvianti, e viziate da tic storiografici di tipo campanilistico. Lo conferma l’atteggiamento degli studiosi iberici, che, a differenza dei colleghi italiani, non mostrano remore a parlare di un “protettorato” spagnolo sulla Repubblica di Genova. Cosa difficile da negare, se si considera che lo Stato genovese non poteva ospitare legazioni diplomatiche al di fuori di quella spagnola, e che i privati genovesi erano tenuti a mettere al servizio degli Asburgo le proprie finanze e forze navali. Tutte condizioni imposte da Madrid, che non si faceva scrupoli a perseguitare i genovesi “non allineati”, come Claudio De Marini, che subì un processo alle intenzioni – peraltro formalmente rispettose delle leggi genovesi – per il sol fatto d’aver progettato di allestire una flotta al soldo di Parigi. Un processo, insomma, del tutto politico, e imposto da Madrid. A Genova vi era una imponente armata navale comandata dai discendenti del “padre della patria” genovese Andrea Doria. Ma quella flotta era privata, e agli ordini di Madrid: era lo stuolo spagnolo di stanza a Genova; mentre la Repubblica disponeva di forze sul mare – per non parlare degli eserciti di terra – così deboli, e ridotte nel numero, da non consentirle neppure di rivaleggiare con Venezia: figuriamoci se potevano riequilibrare i rapporti di forza con Madrid! L’oligarchia genovese esercitava la sua sovranità su uno Stato territoriale; ma up to a point, perché la Corona spagnola non si faceva problemi a scavalcare le autorità della Repubblica con occupazioni arbitrarie, o con acquisti di feudi liguri che ne erodevano la sovranità. Di questa situazione, il patriziato genovese aveva una così chiara consapevolezza, che malumori e insofferenze erano molto diffusi, anche se magari non maggioritari. Ed è proprio in questo ribollente e velleitario calderone che prese ad agitarsi l’“opzione romana” di cui parlo nel mio libro.

Chi furono i genovesi protagonisti delle vicende affaristiche e negoziali da Lei raccontate nella Roma del potere pontificio?
Numerosissimi. In larga misura, ho privilegiato i membri dell’aristocrazia; e, tra questi, in particolar modo i “nuovi”, quelli cioè di più fresca nobilitazione, perché, diversamente dai “vecchi”, generalmente più sensibili al problema dei vincoli imposti da Madrid. Il vero discrimine l’ho però trovato in tre modelli di ascesa e di affermazione: l’exploit famigliare, che vedeva intere famiglie penetrare in maniera capillare nei gangli del potere curiale e amministrativo romano, formando importanti cartelli finanziari; l’intraprendenza individuale: quei singoli che si facevano strada puntando esclusivamente sulle capacità e doti personali; e infine i percorsi altalenanti legati al mutare degli scenari romani e genovesi. Al centro dell’indagine, stanno i cardinali, che rivestivano un importante ruolo negoziale specialmente nel caso della Repubblica di Genova, che pativa una situazione di cronica debolezza delle sue strutture diplomatiche a Roma. Ho passato al setaccio figure già piuttosto note: è il caso, tanto per fare qualche nome, di Benedetto Giustiniani, o Stefano Durazzo. Importantissimi, poi, i due cardinal protettori più attivi e longevi: Domenico Pinelli e Antonio Sauli. Ma sono venute a galla anche le vicende di famiglie in parte meno note, in parte quasi del tutto sconosciute, come i Costaguta e gli Zacchia. Vi sono poi i Landinelli, mai giunti alla porpora, ma particolarmente attivi nella persona di Vincenzo sul fronte diplomatico. Non sono i soli, perché, come detto all’inizio, la pattuglia di affaristi, curiali e amministratori coinvolti in manovre finanziarie e negoziali è davvero corposa; e diversi di questi sono personaggi piuttosto sfuggenti. L’affresco è insomma molto ricco di colori e sfumature, e va osservato con pazienza; tanto più che, tra gli ecclesiastici, la fedeltà alla Repubblica e al sovrano pontefice erano fattori di difficile conciliazione, e alcuni curiali genovesi si mostrano più attenti agli interessi personali e familistici, che a quelli della Repubblica.

Qual era il ruolo di Genova nella politica estera del papato?
Ho parlato di “benevola e vantaggiosa neutralità”, e cercherò di spiegarne brevemente le ragioni. Al di fuori dei centri di potere italiani controllati da Madrid, come Milano o Napoli, nella Penisola Genova e i genovesi avevano forti interessi soltanto a Roma e nello Stato pontificio; il che favoriva senza dubbio le sinergie. Emblematico il caso della devoluzione di Ferrara nel 1598, quando quella città, capitale fino a quel momento dei domini degli Este, entrò a far parte dello Stato pontificio. In quelle circostanze, Genova, la sua oligarchia, e i suoi carrieristi romani sostennero le istanze di Clemente VIII, che rivendicava a sé la città emiliana in ragione del fatto che s’era estinta la linea principale degli Este. E, all’emissario pontificio diretto a Madrid, non a caso un genovese, Paolo Emilio Zacchia, i potenti Doria fecero intendere che anche la Corona spagnola avrebbe appoggiato Roma. È un punto che evidenzia l’importanza dello scenario genovese. Fedele a una linea della neutralità che la Repubblica cercò di mantenere sempre, nei momenti di crisi internazionale Genova diventava un corridoio diplomatico molto utile. Durante il primo conflitto per Castro, nella prima metà degli anni Quaranta del Seicento, la Repubblica dovette destreggiarsi tra le parti in guerra: lo Stato pontificio da una parte, e Parma – sostenuta da Venezia, Firenze e Modena – dall’altra. Una situazione concitata e molto difficile da gestire; ma che l’oligarchia genovese seppe maneggiare con abilità. E, se a conti fatti favorì effettivamente il papato, lo fece non senza far valere le proprie prerogative di Stato sovrano. D’altronde, rispetto a Madrid, lo Stato pontificio era un interlocutore più debole, e la Repubblica poteva mettere in campo un potere contrattuale dunque più forte. Nella sostanza, Genova tendeva a schierarsi dalla parte di Roma, ma cercando di ottenere quelle contropartite che gli riusciva più difficile guadagnare con Madrid. Tornando alle vicende della devoluzione di Ferrara, la Repubblica ottenne in cambio da Clemente VIII la promessa di sostenerne le ragioni, in una querelle con il Ducato di Savoia per il possesso di Pornassio, una delle molte piccole località di confine tra i domini genovesi e quelli sabaudi. Da questo punto di vista, occorre dire che la questione dei problematici e tesi rapporti tra Genova e Torino è tra quelle che attraversano per intero la mia indagine, perché Roma fu spesso un importante partner per la Repubblica, che poté servirsene per risolvere o moderare gli attriti con i Savoia.

Come si articolava invece l’azione diplomatica della Repubblica a Roma?
Con il pragmatismo che caratterizzava l’oligarchia genovese nell’esercizio del potere, e nella gestione degli affari di Stato. Come ho accennato, la Repubblica non poteva fare affidamento su una stabilità rappresentativa a Roma; e le figure di maggiore riferimento erano i porporati. In particolar modo cardinali protettori, che, con la loro precipua connotazione diplomatica, si prendevano carico delle pendenze negoziali: dall’ordinaria amministrazione alle faccende più spinose che si facevano avanti all’occorrenza. La forte presenza genovese a Roma aiutava il cardinal protettore a creare di gruppi di pressione operanti nella Curia e presso il pontefice, utilizzando innanzitutto quei porporati connazionali il cui numero era spesso sovradimensionato rispetto all’effettivo rilievo della Repubblica nello scenario internazionale. Ma non meno importanti erano gli uomini d’affari, come il mecenate Vincenzo Giustiniani, che, da profondo conoscitore della realtà romana, era chiamato spesso a portare avanti le istanze dello Stato genovese. Ad ogni modo, le scelte dei governi genovesi variavano a seconda delle circostanze, e non sempre seguivano le indicazioni dei cardinali protettori, che non di rado rimbeccavano la Repubblica per la poca delicatezza nel muoversi all’interno del mellifluo milieu romano. La disposizione del singolo pontefice faceva inoltre sentire tutto il suo peso, anche se la ripartizione tra pontefici amici e ostili (tra i primi, soprattutto Paolo V; tra i secondi, indubbiamente Clemente VIII) ha una valenza soltanto indicativa. Anche quando le richieste e le rivendicazioni della Repubblica incontravano il muro di gomma della Curia romana, i compromessi e i taciti accordi ebbero sempre la meglio, indirizzando i rapporti tra Genova e Roma verso una generale distensione.

Qual era il ruolo e la posizione della Spagna nei rapporti tra Genova e Roma?
Di aperta opposizione. Madrid voleva essere il solo interlocutore con i governi genovesi, e s’opponeva perciò a ogni tentativo della Repubblica di guadagnare spazi d’azione liberi e indipendenti. Nel caso specifico, ogni ambasciatore spagnolo inviato a Roma aveva il compito di ostacolare il rafforzamento dei rapporti tra la Repubblica e lo Stato pontificio: che, in soldoni, significava impedire che Genova stabilisse a Roma un’ambasciata permanente, e che il papato insediasse a Genova una Nunziatura apostolica. Condizioni alla base del Siglo. Diversamente, infatti, non si spiega l’assenza di Genova dal novero delle Nunziature apostoliche. Tra Roma e Madrid operava un accordo sottobanco perché la Santa Sede rinunciasse a una Nunziatura genovese, e lo testimonia la grande attenzione che i papi riservarono all’instabile scenario genovese, con interventi volti a mantenere la Repubblica nell’orbita spagnola per non sparigliare gli equilibri nella Penisola. Rassegnati in qualche modo al predominio di Madrid, i papi vedevano in Genova un importante elemento di stabilità: perciò lasciarono intatto il protettorato spagnolo. Del resto, l’oligarchia genovese era ben rotta alle vie informali, e si poteva dunque fare a meno di una rappresentanza a Genova; tanto più che i genovesi erano forti e numerosi a Roma, e vi si poteva fare affidamento per dialogare con la Repubblica. Un punto che incentivò non poco la presenza genovese nella Città Eterna. I rapporti tra Genova e Roma nell’età barocca suonano insomma, se non come una smentita, certamente come un ridimensionamento del Siglo.

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