“Geneticamente analfabeti. Come la mente plasma il cervello” di Massimo Piccirilli

Prof. Massimo Piccirilli, Lei è autore del libro Geneticamente analfabeti. Come la mente plasma il cervello edito da Armando: che relazione esiste tra mente e cervello?
Geneticamente analfabeti. Come la mente plasma il cervello, Massimo PiccirilliLa relazione tra mente, cervello e comportamento rappresenta il fulcro di un dibattito filosofico che impegna l’essere umano dagli albori della civiltà, ma è anche di interesse squisitamente clinico tanto da aver dato origine ad un settore scientifico autonomo denominato neuropsicologia.

Dal punto di vista soggettivo è indubbiamente difficile sfuggire all’impressione di essere costituiti da due componenti, il corpo e la mente, e soprattutto all’idea che queste due componenti siano profondamente diverse l’una dall’altra. Questa tesi dualista, a cui indubbiamente siamo soliti riferire il nostro comportamento pratico quotidiano, è stata formalizzata da Cartesio ipotizzando l’esistenza di due entità distinte, una fisica, definita “res extensa”, ed una mentale, definita “res cogitans”. A questa impostazione teorica si deve il cambiamento metodologico che ha dato origine alla medicina moderna e alle sue progressive conquiste diagnostiche e terapeutiche di cui oggi si osservano gli straordinari frutti. Da allora infatti il corpo è divenuto oggetto di studio (in precedenza espressamente e severamente condannato) alla stregua di qualunque altro aspetto del mondo fisico. D’altra parte in questo modo restava insoluta la questione della causazione mentale: come può la mente, immateriale, influenzare la materia di cui il corpo è costituito ed agire su di esso? Una possibile risposta è l’oggetto del libro, come recita il sottotitolo: la mente plasma il cervello.

La proposta è che l’idea cartesiana di una trasformazione dell’energia psichica in energia fisica possa essere riformulata a partire dalla nozione che mente e cervello non siano entità separate. In un certo momento della sua storia, che possiamo far corrispondere ai primi indizi del sorgere della consapevolezza di sé – quali l’arte rupestre o la sepoltura intenzionale dei defunti accompagnata della deposizione di offerte funerarie – l’essere umano ha attraversato una transizione di fase: la nascita della mente. Anziché adottare soluzioni specifiche per ogni problema specifico (ad esempio variare le caratteristiche della cute in relazione al clima), il percorso evolutivo è riuscito a sviluppare uno strumento – la mente – in grado di affrontare e risolvere i problemi indipendentemente dalla loro natura. I processi mentali consentono di riconoscere l’esistenza di un problema, immaginare una sua possibile soluzione, programmare la sua applicazione, verificarne l’esito e valutarne il reale vantaggio. Grazie allo sviluppo della mente il mondo diviene sempre più comprensibile. Possedere una mente consente una rappresentazione coerente di sé, degli altri e del mondo; in questo modo l’ambiente complesso e confuso (e quindi pericoloso) in cui l’organismo vive diventa comprensibile e prevedibile; il comportamento che ne deriva diventa il più adatto a padroneggiare e risolvere i problemi posti dalla vita.

Lo sviluppo della mente, come suggeriscono le neuroscienze ed in particolare l’uso delle metodiche basate sulle neuroimmagini, appare legato alla plasticità del sistema nervoso: il cervello, a differenza di altri organi corporei, si forma e si organizza sulla base delle informazioni che gli giungono dall’ambiente. La sua proprietà peculiare è rappresentata dalla capacità di rimodellarsi continuamente in base alle esperienze effettuate. Modificare l’ambiente modifica quindi l’organizzazione ed il funzionamento del cervello. In questo modo l’ambiente plasma il sistema nervoso e viceversa il sistema nervoso si appropria delle caratteristiche dell’ambiente in cui vive. Per questo ad esempio bambini che crescono in ambienti privi di altri essere umani non imparano a parlare. A questo proposito si dice che il cucciolo dell’uomo, il neonato, sia l’essere vivente più debole ed indifeso dell’intero universo: non è in grado di sopravvivere senza assistenza. Eppure quello che sembra un difetto si rivela un’arma vincente: il patrimonio genetico fornisce le condizioni di base del progetto e predispone una struttura appropriata per la funzione specifica, ad esempio per il linguaggio, ma la funzione non si realizza se anche le condizioni ambientali non sono quelle appropriate. La realizzazione effettiva del progetto insito nei geni avverrà in modo differente in relazione alle modalità di interazione con l’ambiente.

Lo sviluppo mentale è quindi il risultato di una faticosa costruzione che richiede un tempo eccezionalmente lungo non solo con riferimento alla storia dell’umanità ma anche in riferimento alla storia del singolo individuo. Ma proprio grazie alla mente, nella nicchia abitativa dell’essere umano sono presenti artefatti che non esisterebbero senza l’intervento dell’uomo. La loro introduzione ha modificato radicalmente il percorso evolutivo proprio perché, una volta immesse nell’ambiente, queste informazioni agiscono sul cervello riorganizzandolo. Inizia un processo a spirale in cui causa ed effetto si scambiano continuamente di ruolo e di cui non si prevede una fine. Tra mente e cervello c’è una corrispondenza biunivoca: la mente non si sviluppa in assenza di un sistema nervoso organizzato e il sistema nervoso non si organizza in assenza dei processi mentali che formano il contesto culturale in cui si trova immerso. Causa ed effetto non sono più distinguibili, mente e cervello non sono più entità separabili. Nella storia evolutiva non esiste un prima e un dopo; il meccanismo è coevolutivo; si procede insieme, ognuno grazie al contributo dell’altro. La mente ed il cervello possono essere pensati come entità differenti così come la vite e il cacciavite possono essere esaminati come oggetti distinti ma mantenendo la nozione che ognuno assume senso solo grazie all’altro.

È stato un equivoco considerare natura e cultura, innato ed acquisito, genetica ed ambiente come processi alternativi; natura e cultura agiscono in modo complementare e raggiungono insieme i loro effetti sul comportamento. È solo la loro combinazione ad essere vincente. Mente e cervello costituiscono un’unità indivisibile e nessuno dei due è più importante dell’altro. Sarebbe come chiedersi se per formare il sale sia più importante il contributo del sodio o del cloro.

In che modo la realtà viene deformata dalla nostra percezione?
I filosofi greci facevano notare che l’acqua contenuta in un determinato recipiente sembra fredda se prima abbiamo immerso la mano in un altro recipiente contenente acqua riscaldata ma sembra calda dopo aver immerso la mano in un recipiente contenente acqua gelata. Si chiedevano allora come si può avere la garanzia che la conoscenza sia oggettiva se la medesima acqua può apparire ora fredda ora calda. L’equivoco sta nel ritenere che il sistema percettivo serva ad inviare resoconti oggettivi del mondo. Di fatto la sua funzione è invece quella di facilitare la sopravvivenza. Raccogliere informazioni non è un’attività fine a se stessa; serve esclusivamente a decidere come comportarsi nel modo più adeguato. Se proviamo ad immaginare un organismo vivente che di fronte ad un pericolo adotti una strategia non adeguata, possiamo comprendere come una simile risposta comportamentale porti inevitabilmente alla sua estinzione. Nel corso della storia sono sopravvissuti solo quegli organismi che di fronte ai problemi posti dal proprio habitat hanno trovato il modo più adatto per superarli.

Il modo in cui percepiamo il mondo deriva quindi dalla nostra storia evolutiva. Lo stesso principio sta all’origine di tutti i processi mentali. Per fare un esempio diverso, la memoria non serve, come riteniamo di solito, a ricordare il passato, ma a progettare al meglio le azioni future: a questo scopo fornire informazioni dettagliate non è necessario, anzi riprodurre fedelmente la realtà potrebbe richiedere il consumo di una quantità eccessiva di risorse. Ogni aspetto del comportamento nasce in funzione di risolvere uno specifico problema ambientale ed è organizzato in maniera tale da raggiungere l’obiettivo adattativo. Nel caso del sistema percettivo, il convincimento di avere un accesso diretto e un rapporto immediato e oggettivo alla realtà serve ad impedire di rendersi conto che l’interpretazione della realtà è una costruzione illusoria basata sull’interazione gerarchica ed organizzata di un insieme di processi distinti. L’illusione viene svelata solo dall’analisi dei disturbi conseguenti ad una lesione. La percezione visiva, ad esempio, è associata all’attività di circa trenta differenti strutture cerebrali (i cosiddetti moduli) tra cui si possono annoverare un modulo per il riconoscimento dei colori, uno per il riconoscimento dei volti, uno per il riconoscimento del movimento e così via. Ad esempio, un danno al modulo dei colori implica una percezione visiva in cui l’unica anomalia è rappresenta dalla mancanza del colore in una scena per il resto invariata; un danno al modulo per il movimento implica l’impossibilità di stabilire quali oggetti sono in movimento; il paziente in questo caso non potrà evitare il pericolo di attraversare la strada perché non vedrà i veicoli avvicinarsi e se li troverà accanto improvvisamente senza averli visti muoversi; non riuscirà nemmeno a riempirsi un bicchiere d’acqua non potendo stabilire il momento opportuno per fermarsi e non versarla fuori dal bicchiere; tuttavia le altre caratteristiche del mondo visivo (ad esempio il colore) non saranno compromesse. In questa prospettiva il cervello può essere immaginato come un mosaico di strutture altamente specializzate, ognuna deputata ad un compito specifico. Un comportamento adeguato dipende quindi dalla funzionalità dei singoli moduli e dalla loro corretta interazione. Percepire la realtà non corrisponde a rispondere in modo passivo alle informazioni ambientali ma è il risultato di un processo attivo di costruzione che dipende da strategie che sono state selezionate nel corso della storia evolutiva.

Cosa hanno rivelato le neuroscienze circa l’idea che sia il pensiero razionale a guidare il comportamento umano?
Anche il pensiero razionale è un risultato della storia evolutiva. Come ricorda Castoriadis, l’uomo è un animale folle, la cui follia ha creato la ragione. Un uomo dell’anno mille vedeva il sole muoversi nel cielo allo stesso modo di un uomo dell’epoca attuale ed anche oggi per cercare un po’ d’ombra si continua a seguire il movimento del sole nel cielo e non il movimento della terra. Tuttavia ad una identica percezione corrisponde una diversa conoscenza. Non è il sole che ha cambiato il suo percorso nel cielo; è la mente di chi guarda il sole che è cambiata. I prodotti della mente modificano il modo di percepire il mondo. Lo sviluppo della mente consente di andare oltre l’apparenza fornita dai sensi. Oltrepassata la soglia dell’apparenza, un mondo prima inconoscibile diviene misurabile e governabile. Non c’è più bisogno di interagire come singoli individui con la materia di cui è fatto il mondo fisico; i prodotti mentali interagiscono fra loro e creano un mondo immateriale che può essere condiviso; nasce la cultura e il singolo individuo non deve scoprire ogni volta se è il sole che gira intorno alla terra o se è vero il contrario.

Ma divenire un essere culturale non è un prodotto diretto del corredo genetico. Uno dei vanti principali dell’essere umano è di possedere un pensiero razionale in grado di guidare il comportamento, ma neuropsicologia, neuroscienze ed epigenetica hanno contribuito a sfatare anche questo radicato convincimento rivelandone la natura illusoria, per quanto potente. Le norme che il pensiero filosofico aveva posto alla base del comportamento umano, quali la coscienza, la volontà, il libero arbitrio sembrano essere interpretabili sulla base dell’attività cerebrale. A togliere dal trono il pensiero razionale sono sufficienti i dati provenienti dalla neuroeconomia o esperimenti quali il dilemma del carrello ferroviario o del buon samaritano, solo per citare i più noti. Il ragionamento logico è solo uno dei modi possibili di affrontare i problemi del mondo ma non è certamente immediatamente disponibile e di routine viene facilmente sostituito da strategie più veloci e meno dispendiose come il cosiddetto pensiero intuitivo. D’altra parte, lo stesso individuo può mostrare comportamenti opposti in condizioni contestuali differenziate. In questo senso anche la dicotomia tra razionalità e irrazionalità perde il suo valore assoluto.

Quali meccanismi presiedono alle nostre scelte?
Il problema nasce dal bisogno di comprendere l’origine del comportamento, in particolare di stabilire se un individuo si comporta come si comporta perché è nato in un certo modo o perché è stato allevato in un certo modo. A questo proposito può essere opportuno sottolineare che l’essere umano non nasce buono o cattivo, egoista o altruista, empatico o antisociale, aggressivo o mansueto; nasce possedendo la predisposizione a sviluppare ogni tipo di interazione sociale; si tratta di potenzialità complementari, non di dicotomie autoescludentesi. Le scelte comportamentali continuano ad essere sempre disponibili: è l’equilibrio dinamico di autoregolazione reciproca che, tenendo conto della totalità dei fattori coinvolti, determina la prevalenza dell’una sull’altra. Questo bilanciamento reciproco e questo gioco di forze relative rappresenta una regola generale di funzionamento del sistema mente/cervello.

Il cervello può essere considerato un solutore di problemi che consente ad ogni organismo di ricorrere prontamente a ciò che gli è necessario per sopravvivere nel proprio specifico habitat. Il processo si basa su una regola semplice che si affida al senno del poi: tutto ciò che si rivela adeguato alla bisogna viene mantenuto, stabilizzato e, se possibile, rafforzato, mentre le variazioni che non si dimostrano vantaggiose vengono eliminate. Ogni aspetto del comportamento nasce in funzione di risolvere uno specifico problema ambientale ed è organizzato in maniera tale da raggiungere in modo appropriato l’obiettivo adattativo. In questo modo le acquisizioni che sono state apprese nel corso dell’evoluzione biologica sono immediatamente disponibili all’occorrenza. Però la conquista della dimensione mentale, simbolica, perfeziona ulteriormente e progressivamente il sistema in quanto consente un controllo dell’ambiente non più limitato al presente e che in modo duttile ingloba alternative comportamentali sempre più numerose e sempre più complesse.

Il convincimento che sia la mente a guidare i comportamenti fa la sua comparsa solo ad un certo momento della vita di un individuo, intorno ai quattro anni. Inizia l’illusione di una mente autonoma dal corpo e dalla realtà fisica: il bambino comincia a “fare finta”, può usare un oggetto (un pezzo di legno) come se fosse un altro (un’automobile), può attribuire una proprietà ad un oggetto che ne è privo (un’automobile con le ali come se fosse un aereo), può relazionarsi con un oggetto o un evento o una persona che non sono presenti. In queste rappresentazioni mentali non valgono più le regole che valgono per il mondo fisico ma solo quelle che legano tra loro i significati. Il mondo si sdoppia: il pezzo di legno continua ad essere tale, ma contemporaneamente un’automobile, che non ha un correlato fisico, è altrettanto presente. I processi mentali costruiscono un mondo parallelo a quello materiale. I prodotti della mente, divenuti autonomi, possono creare scenari che nulla hanno più da condividere con il mondo fisico ed anche ricondurre il comportamento ad un modello unitario che renda gestibile l’esperienza impedendo da un lato il verificarsi di una scissione caotica (dovuta alla contemporanea attività dei diversi moduli cerebrali) e suscitando nel contempo il convincimento che la scelta effettuata sia volontaria, responsabile, spontanea e libera da condizionamenti.

Per mantenere efficiente il sistema è però necessario perdere di vista i meccanismi sottostanti al comportamento palese. Possiamo averne un’idea sommaria pensando al fenomeno della guida cieca di un’automobile. Tutti hanno fatto l’esperienza di guidare e non sapere come si è arrivati alla meta: stabilito l’obiettivo, il resto sembra essersi verificato in modo automatico, senza bisogno di controllo. In effetti, non c’è bisogno della consapevolezza per questo tipo di comportamenti: la consapevolezza sembra essere un’isola immersa in un oceano di inconsapevolezza, un’isola che oltre tutto sembra difficile da raggiungere.

A questo scopo è vincente nascondere ogni traccia dell’attività indefessa associata alla scelta comportamentale. Proprio l’illusione che la mente sia immateriale consente il racconto coerente del mondo, interno ed esterno all’individuo, e il mantenimento del senso di identità personale e continuità della propria storia.

I processi mentali sono essi stessi un prodotto dell’evoluzione e scorporare la mente è la più riuscita delle illusioni. Solo la possibilità di inibire la risposta spontanea di allontanamento dallo stimolo doloroso può consentire a Caio Muzio (soprannominato Scevola che significa “il mancino”) di agire secondo volontà. Una mente che non sia svincolata dalle esigenze corpo e che sia costretta a rispondere alle leggi fisiche della materia non potrebbe garantire un comportamento come quello che ha reso leggendario Muzio Scevola.

Che relazione esiste tra cervello e comportamento?
L’esistenza di una relazione tra cervello e comportamento è ormai parte integrante del patrimonio di conoscenze di ogni individuo di cultura occidentale. Dalla metà del diciannovesimo secolo i neuropsicologi, descrivendo i disturbi del comportamento conseguenti ad una lesione cerebrale, hanno permesso di associare il danno di una determinata regione cerebrale all’insorgenza di una specifica anomalia comportamentale. Il cervello è una parte del corpo apparentemente “silente”, della cui esistenza non abbiamo una immediata consapevolezza, come possiamo averla ad esempio di altri organi del corpo come il cuore. Eppure un evento patologico a carico del cervello dà origine a vicende che possono sembrare incredibili. La persona che ne soffre potrebbe ad esempio non essere più in grado di riconoscere il volto delle persone più care, non riuscire più a trovare la strada di casa o a provare piacere dall’ascolto della musica o a comprendere quanto gli altri gli dicono; oppure potremmo assistere a fenomeni incredibili, come cercare di abbottonare la camicia con una mano e osservare l’altra mano fare il contrario, lasciare cibo in una metà del piatto e chiederne altro dicendo di avere ancora fame, non riuscire a leggere ciò che abbiamo appena finito di scrivere (o viceversa), ricordare perfettamente gli eventi del passato ma non ciò che è accaduto solo qualche minuto prima. Come ho scritto in “Dalla mente al cervello”, il mondo all’improvviso può divenire ambiguo, incomprensibile, imprevedibile. Le indagini neuropsicologiche hanno ampiamente documentato che le caratteristiche del disturbo comportamentale dipendono da dove il danno è localizzato a livello cerebrale; ad esempio in un soggetto destrimane l’afasia, cioè la perdita della capacità di utilizzare il linguaggio per comunicare, si verifica se una patologia compromette il funzionamento dell’emisfero sinistro del cervello, ma non se ad essere danneggiate sono le strutture dell’emisfero destro. Che il comportamento ed il funzionamento dei processi mentali dipendano dal corretto funzionamento dell’attività cerebrale è quindi comunemente accettato.

Al contrario che il funzionamento del cervello dipenda dall’attività dei processi mentali non solo è poco noto ma spesso è esplicitamente negato. Nel libro ho cercato di chiarire come al cammino che procede dal cervello alla mente si affianchi sistematicamente il cammino reciproco che procede dalla mente al cervello.

È ormai dimostrato che, come il corpo di un lavoratore si modifica secondo il lavoro da lui svolto, così il cervello di una persona cambia secondo le sue passate esperienze. La proprietà intrinseca del cervello, che lo differenzia dagli altri organi corporei, è la plasticità, cioè la capacità di modificare la propria struttura in risposta alle informazioni che riceve. Lo stratagemma evolutivo della plasticità fornisce l’essere umano di un mezzo capace di adattarsi all’ambiente in modo non precostituito: non viene specificato un comportamento specifico sviluppando un organo apposito, al cervello viene donata la capacità di modellarsi in base all’esperienza e in relazione al contesto ambientale. Con lo sviluppo della mente, l’essere umano non solo riesce ad adattarsi all’ambiente di vita nel modo migliore possibile ma riesce ad adattare l’ambiente alle proprie esigenze, modificandolo opportunamente. Ai cambiamenti dell’ambiente il cervello risponde riorganizzandosi grazie ai fenomeni plastici che lo contraddistinguono. Il mezzo più rapido ed efficace da questo punto di vista è rappresentato proprio dagli stimoli che provengono dal contesto culturale. Grazie alla cultura la realtà viene interpretata sulla base non delle caratteristiche fisiche ma dei modelli mentali ed il cervello deve fare i conti con l’ambiente nuovo creato dalla mente. Esemplare è la capacità delle parole di modificare l’attività cerebrale. Se un soggetto viene informato che alla comparsa di un determinato stimolo (ad esempio visivo) gli sarà comminata una scossa elettrica, nel momento in cui lo stimolo di preavviso compare il soggetto reagisce come se avesse già effettivamente sperimentato il dolore; non c’è bisogno di provocarlo davvero; lo stesso effetto si ottiene con le parole: le aree cerebrali che si attivano sono sovrapponibili.

Il fatto è che l’avvento della mente ha inserito l’essere umano in una dimensione culturale che ha creato una nuova nicchia abitativa. L’uso di simboli culturali sostitutivi degli stimoli provenienti dal mondo fisico costruisce una trama di relazioni di significato le cui procedure rispondono solo ad una logica associativa ed in questo modo possono addirittura inventare la realtà: Pegaso è un cavallo alato. Non c’è più distinzione tra dati provenienti dall’esperienza dei sensi e informazioni create nel mondo dell’immaginario mentale. La demarcazione tra materiale e immateriale diventa netta, anche se fittizia. L’esperienza si svincola dal dato concreto e si presenta indipendentemente dalla percezione. Il linguaggio sostituisce un’esperienza percettiva e diviene per il cervello un input alla stessa stregua delle informazioni sensoriali; in quanto tale diventa in grado di attivare una risposta neuronale identica; l’attivazione cerebrale innescata in assenza del dato percettivo concreto può agire fattivamente sullo stato corporeo dando origine ad una sensazione che equivale a quella provocata dallo stimolo fisico. L’esperienza corporea non è più solo una risposta al contesto fisico immediato ma comprende l’immaginario e l’assente. L’evocazione tramite il linguaggio è sufficiente: il corpo reagisce. Così una parola offensiva può farci arrossire. L’illusione perfetta occulta il fatto che i processi mentali influenzano lo stato del corpo utilizzando l’architettura del sistema nervoso e le peculiari proprietà del suo funzionamento. Il vincolo reciproco che lega mente e cervello è rappresentato dalla plasticità cerebrale.

In che modo è possibile agire sulla nostra mente per modificare il comportamento?
Santiago Ramon y Cajal ha scritto che ogni uomo può, se lo desidera, diventare lo scultore del proprio cervello. Effettivamente le neuroscienze hanno ormai accertato che gli eventi mentali sono in grado di modificare il funzionamento e l’anatomia del cervello. La mente non agisce sul corpo dall’esterno, come res cogitans, ma ne è parte integrante. In quanto principale fattore di plasticità del sistema nervoso, la mente, come una “res plasmans”, è in grado di modificare il comportamento. La linea di demarcazione tra biologico e psicologico, apparentemente così netta sulla base dell’esperienza soggettiva, si fa sempre più sfumata.

Il solco tra fisico e mentale non somiglia più ad un abisso invalicabile se si parte dal presupposto che la mente, nella sua apparenza immateriale, è essa stessa un prodotto del processo evolutivo. In qualche modo l’essere umano ha trovato la strada per acquisire una rappresentazione non istantanea della realtà: tenere in memoria un’informazione non più a disposizione dell’analisi sensoriale immediata ha consentito di creare uno spazio tra l’analisi della situazione ambientale e l’organizzazione della risposta comportamentale. In questo spazio si possono inserire le rappresentazioni di ciò che non è ancora avvenuto e di ciò che non è più presente; in altri termini, l’assenza dell’elemento percettivo concreto lascia la libertà di creare mondi possibili, anche senza averne esperienza diretta. La capacità di astrarre dalle informazioni sensoriali ha poi raggiunto le sue massime potenzialità con lo sviluppo del linguaggio, orale e scritto: si può manipolare la realtà senza agire direttamente su di essa; diventa possibile apprendere senza necessariamente dover fare esperienza diretta e usufruendo dell’esperienza altrui; si può trasmettere la conoscenza anche attraverso le generazioni.

Va considerato in particolare che la comparsa del linguaggio simbolico non ha rappresentato un’aggiunta gerarchicamente sovrapposta all’esperienza percettiva (le parole non sono semplici etichette), ma ne ha provocato una radicale trasformazione. L’evoluzione autonoma del linguaggio infatti svincola l’esperienza corporea dalla presenza dello stimolo ambientale e crea una nicchia apparentemente autosufficiente e indipendente dal contesto materiale. Grazie alla dimensione simbolica la mente perde ogni contatto con il corpo, vive di vita propria e si manifesta come una entità autonoma dal cervello, priva delle caratteristiche proprie della materia.

Un esempio della procedura utilizzata può essere fornito dall’alfabetizzazione. Solo una minoranza dell’umanità sa leggere e scrivere. Questo tipo di apprendimento richiede un’istruzione; non è sufficiente l’esposizione allo stimolo, come può avvenire per altre funzioni cognitive, anche complesse, come il linguaggio. Per imparare a leggere è necessario modificare profondamente le strategie cognitive: se si confronta un analfabeta con chi sa leggere fluentemente ci si rende conto ad esempio che gli illetterati non padroneggiano la nozione che le parole scritte sono costituite da forme elementari (grafemi) che corrispondono ai suoni del linguaggio orale (fonemi); per questo gli analfabeti non riescono a risolvere problemi quali la delezione del primo suono di una parola né a comprendere come cambiando i suoni si può cambiare il significato.

Le neuroscienze hanno potuto documentare come l’apprendimento del linguaggio scritto abbia un impatto massivo sull’organizzazione cerebrale. Quando un lettore adulto viene invitato a leggere delle parole, sistematicamente si produce l’attivazione di una regione specifica della corteccia visiva dell’emisfero sinistro; questa regione negli analfabeti non si attiva e reagisce invece a stimoli diversi (ad esempio all’immagine di volti). Inoltre, esaminando soggetti analfabeti che apprendono a leggere in età adulta, si può osservare la formazione progressiva, proporzionalmente alla competenza raggiunta, di un fascio di fibre nervose che collegano le aree visive con quelle linguistiche, che cioè funzionano da interfaccia tra i moduli che servono ad elaborare i grafemi e i moduli che servono ad elaborare i fonemi.

Più in generale si può dimostrare che sotto la spinta dei prodotti culturali strutture cerebrali originariamente deputate a funzioni specifiche si adattano a nuove esigenze. La cultura agisce sul cervello modificandolo e riorganizzandolo per indurlo a svolgere una funzione diversa da quella originaria. Dal momento che l’universo della mente utilizza gli stessi percorsi neuronali dell’universo fisico, la preesistente organizzazione cerebrale può cambiare per adattarsi alle nuove acquisizioni, culturalmente determinate.

In questa ottica l’attività mentale assume un ruolo preponderate. L’allenamento cognitivo e la qualità delle interazioni sociali possono ridurre o ritardare il declino cognitivo fisiologicamente associato ai processi di invecchiamento e possono contribuire ad un invecchiamento di successo. La “salute sociale”, nelle sue componenti emozionali, comunicative e relazionali, è uno dei fattori plastici più potenti. Come ho descritto in “Quell’eterno bisogno umano di sollievo”, le parole possono modificare il modo in cui il cervello elabora e reagisce agli stimoli. Ad esempio nel disturbo post-traumatico da stress, qualunque tipo di trauma vissuto come pericoloso per la propria incolumità comporta alterazioni massive delle reti neuronali che oggi possono essere visualizzate con le indagini neuroradiologiche e che provocano disturbi eclatanti del comportamento. Eventi mentali indotti da una psicoterapia efficace possono modificare il funzionamento cerebrale anomalo dando origine ad un pattern di attivazione diverso da quello che sarebbe attivo spontaneamente. Alle modificazioni della configurazione delle strutture cerebrali conseguono poi corrispondenti modificazioni comportamentali. Il misterioso effetto placebo (come può una sostanza farmacologicamente inerte produrre un miglioramento dello stato fisico del corpo?) e lo speculare effetto nocebo (l’insorgenza di un disturbo clinico conseguente ad un trattamento con placebo) rappresentano uno dei paradigmi di come la mente agisce sul corpo: è il significato che il paziente attribuisce all’atto terapeutico che si traduce in una serie di reazioni cerebrali che inducono modificazioni neuro-endocrino-immunologiche capaci a loro volta di modificare la reazione soggettiva ed oggettiva alla malattia. L’effetto benefico del placebo viene suscitato non dalla sostanza somministrata, per definizione farmacologicamente inerte, ma dal contesto in cui si colloca l’atto terapeutico. La risposta viene innescata da eventi mentali come l’aspettativa di ottenere un beneficio e la speranza di guarire. È il convincimento di essere curato ad avere un effetto terapeutico. Detto in modo più esplicito, mentre un farmaco agisce su meccanismi chimici che non si modificano sulla base di una falsa credenza, è lo stato mentale del paziente a generare l’effetto terapeutico. Un essere vivente privo di mente non potrebbe usufruire del fatto di credere di star assumendo un farmaco. Il funzionamento della mente ha inevitabili riflessi sul funzionamento del cervello e viceversa. Il comportamento è il risultato della loro azione come sistema unitario.

Massimo Piccirilli, medico specialista in neurologia e in psichiatria, associato della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Perugia, insegna in numerosi Corsi di Laurea e di Specializzazione e svolge cicli di conferenze divulgative sulle relazioni fra mente, cervello e comportamento. Ha pubblicato oltre 350 articoli ed è autore di Dal cervello alla mente. Appunti di neuropsicologia (2006) e coautore di un Manuale di Psichiatria (2009).

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