“Genesi e forme del documento medievale” di Alessandro Pratesi

Genesi e forme del documento medievale, Alessandro PratesiGenesi e forme del documento medievale
di Alessandro Pratesi
Jouvence

«La diplomatica è la scienza che ha per oggetto lo studio critico del documento […] al fine di determinarne il valore come testimonianza storica, non soltanto nella sfera della storia in generale o storia politica, ma anche in quelle della storia economica, della storia sociale, della sto­ria della lingua. Il documento, infatti, presentando la pratica applicazione di leggi e consuetudini che i testi giuridici solo parzialmente rivelano nella formulazio­ne teorica, rispecchia sempre una determinata situazio­ne politica, sociale, economica; inoltre, in quanto atte­stazione scritta, esso fissa nel tempo fasi dell’evoluzio­ne linguistica che testi letterari e cronistici non illu­strano a sufficienza.

Il termine «diplomatica» è entrato nell’uso attraverso il titolo del primo grande trattato di questa disciplina: i sei libri De re diplomatica di Jean Mabillon (1681). Dal greco διπλόω «rendo doppio», il vocabolo diploma fu usa­to nell’antichità classica per indicare originariamente i do­cumenti scritti su due tavolette unite tra loro a cerniera (dittici), ma fin dall’inizio dell’età imperiale figura riferito, di preferenza, a particolari tipi di documento emanati dal Senato o dall’Imperatore, come i permessi di circolazione a mezzo del cursus publicus, il servizio postale di Stato, o i decreti con i quali si riconoscevano ai veterani collocati in congedo lo ius civitatis e lo ius connubii (diplomi militari). Col valore di «privilegio imperiale» il termine venne an­che adoperato, ma piuttosto raramente, nel medioevo, mentre tornò in auge nell’età umanistica, soprattutto per designare documenti signorili emanati in forma solenne: questo valore ristretto esso conserva anche oggi nella ter­minologia scientifica, come vocabolo tecnico.

Ai fini dell’indagine che le è propria la diplomati­ca estende però l’esame critico anche ad altre scritture che non rientrano nella categoria ristretta del docu­mento così come è stato definito: e se è esagerato riferire indiscriminatamente il suo oggetto a tutte quelle che i Francesi chiamano «pièces d’archives», in quanto è noto come il materiale di un archivio sia spesso eterogeneo, è vero, nondimeno che il diplomati­sta deve prendere in considerazione le attestazioni scritte che si riferiscono ad atti preparatorii o che accompagnano il documento; esse tuttavia non sono studiate per se stesse, bensì per una migliore compren­sione del documento vero e proprio.

È opportuno ricordare a questo proposito che giusta­mente i Tedeschi distinguono í documenti giuridici in sen­so stretto, Urkunden, dalle scritture di altro genere, Akten. In Italia, invece, càpita troppo spesso di imbattersi nel vocabolo generico «atti» riferito a qualsiasi scrittura che forma materiale di archivio: è un uso deteriore, esem­plato sul francese actes, che va sradicato.

L’analisi, critica esercitata dalla diplomatica si ba­sa sulle forme del documento, le quali hanno una loro tipicità che ne rende possibile la sistemazione scientifi­ca: giacché gli atti giuridici, se come espressioni singo­le di incontri di volontà sonò infiniti, pure risultano basati su rapporti che nell’ambito di uno stesso am­biente politico, sociale, economico, ripetono strutture identiche, e di conseguenza anche la loro documenta­zione si attua secondo schemi espressivi ed elementi formali ricorrenti di frequente con modi pressoché uniformi. La diplomatica pertanto tiene d’occhio, ac­canto al contenuto e più ancora di esso, la forma del documento, sicché si giustifica, sotto questo aspetto, l’affermazione che Georges Tessier ha formulato nel 1952: «oggetto della diplomatica è la spiegazione del­la forma degli atti scritti» (La dzplomatique, p. 13) e ha ripetuto in maniera ancor più categorica nel 1961, scrivendo che la diplomatica «è la conoscenza ragiona­ta delle regole di forma che si applicano agli scritti e ai documenti assimilati» (Diplomatique, p. 667). Tale caratteristica ha influito senza dubbio per lungo tem­po sul procedimento stesso della scienza diplomatica che, in armonia con la formazione culturale dell’età illuministica in cui ebbe origine, è rimasta per oltre due secoli ancorata a un metodo eminentemente classi­ficatorio, suscettibile di buoni risultati ai fini della chiarezza sistematica, ma rivelatosi inadeguato per la comprensione di molti problemi strettamente connes­si con la realtà storica nella quale il documento pren­de vita. Pei tanto, senza perdere di vista l’inquadra­mento acquisito con l’antico indirizzo metodologico, la diplomatica deve tendere oggi soprattutto a rico­struire schematicamente il processo di documentazio­ne nelle sue varie fasi seguendo un metodo storico, in maniera di accertare da un lato la genuinità o meno della singola attestazione controllando l’aderenza del­le sue forme alla prassi richiesta in quel particolare ambiente per quel determinato tipo di documento, e di recare dall’altro un più vitale contributo alla storia nella sua accezione più vasta attraverso una conoscen­za approfondita degli ordinamenti e degli istituti da cui la documentazione discende.

Va rilevato che la tradizione di scuola ha imposto alla diplomatica alcuni limiti di carattere geografico e cronologico, restringendo il campo di indagine all’età medievale e umanistica e al mondo occidentale (docu­menti in lingua latina e in volgare): limitazione che nuoce senza dubbio alla comprensione di taluni fenomeni, ma non superabile in una esposizione somma­ria, sia perché la diversità degli istituti giuridici com­porta un concetto diverso del documento anche pres­so civiltà che con il medioevo occidentale hanno evi­denti punti di contatto (per esempio il mondo classi­co, quello bizantino, quello arabo), sia perché non si dispone ancora di una manualistica rivolta allo studio del documento in quelle civiltà (soltanto per l’ambito bizantino si cominciano ad avere ora ricerche puntua­li, soprattutto dietro l’impulso dei saggi di Franz Dölger).

La genesi del documento pubblico

Il documento pubblico nasce nel­la «cancelleria», che è l’ufficio in cui si svolgono tutte le pratiche inerenti all’emanazione dei documenti di pub­bliche autorità, dalla raccolta delle petizioni al coordi­namento degli atti preparatorii, dalla stesura della mi­nuta alla redazione dell’originale, dall’autenticazione e registrazione fino alla spedizione: anzi il fondamento dell’autenticità del documento pubblico risiede appun­to nella sua emanazione da parte della cancelleria, stru­mento e simbolo della volontà assoluta dell’autorità da cui dipende, in quanto esercita totalmente ed esclusiva­mente ogni facoltà di documentazione e certificazione propria di quella autorità.

Il vocabolo cancelleria deriva da «cancellarius», il cu­stode dei cancelli posti nel tribunale per separare il pubbli­co dagli ufficiali addetti all’amministrazione della giusti­zia. Nella tarda classicità lo si trova anche presso i più alti organi dello Stato e persino con funzioni piuttosto delica­te, tanto che Cassiodoro ci dà del «cancellarius» del Sena­to un quadro assai onorifico ( Variae, XI, 6) presentandolo come partecipe delle deliberazioni segrete di quel conses­so ed esecutore dei suoi mandati. Si può quindi facilmente intuire come dovette avere ai suoi ordini impiegati di rango inferiore (per cui Papias lo definiva nel suo Vocabolarium «qui in cancellis primus est») e tra questi in particolare i «notarli», scribi addetti a raccogliere in note tachigrafiche o le fasi del dibattito giudiziario, e a stilarne gli atti relativi, o i processi verbali delle adunanze del Senato, finché divenne il capo di un ufficio speciale che comprendeva, ai suoi ordini, notai e funzionari inferiori, con il compito di provvedere alla stesura degli atti pubbli­ci. La dignità di tale carica raggiunse presso taluni sovrani un grado così eccelso che il titolo venne a volte conferito a un capo soltanto nominale, mentre le funzioni effettive erano esercitate da un suo dipendente e sostituto.

L’organizzazione delle cancellerie non può deli­nearsi in base a uno schema unico, poiché la comples­sità dell’ufficio variava secondo il rango dell’autorità da cui esso dipendeva e la mole giornaliera dei docu­menti da spedire, che ne determinavano le strutture: in alcuni casi il numero dei funzionari addetti era assai rilevante, e le loro mansioni risultavano distinte, in altri il personale si riduceva ad uno o due ufficiali; ma sostanzialmente le fasi in cui si articolava il proces­so di documentazione erano identiche.

Per ricostruire tale processo bisogna distinguere i documenti emanati nel quadro dell’attività politica e amministrativa dell’autore per sua diretta volontà da quelli sollecitati dai sudditi. Nel primo caso l’autorità comandava senz’altro al capo della cancelleria, o ad altro ufficiale che curava i legami tra autore ed uffi­cio, di redigere il documento, a meno che non si trattasse di atti che rientravano nella normale routine burocratica, per i quali la cancelleria poteva provvede­re senz’altro ad emanare il relativo documento, pre­scindendo dall’ordine manifesto dell’autorità, sebbene questa figurasse sempre come autore. Nel secondo caso chi attendeva il beneficio produceva una «petizio­ne» o «supplica» che, raccolta e registrata in cancelleria, veniva poi presentata in udienza all’autorità per l’accoglimento o meno dell’istanza. Spesso il dettato del documento conserva un ricordo esplicito della peti­tio con espressioni come «Significasti nobis quod…», «… per postulationem tuam…», «Petitio nobis exhibi­ta continebat quod…» e simili: alcune di tali formule non implicano di necessità la presentazione di una domanda scritta e sappiamo che effettivamente la ri­chiesta poteva essere anche orale. […]

Come la petitio, così anche il momento successivo da prendere in considerazione non costituisce un atto indispensabile per la genesi del documento pubblico, sebbene sia tutt’altro che raro: si tratta di quella che i diplomatisti chiamano intercessio, ossia dell’intervento propiziatorio di persone vicine all’autorità alla quale la domanda era diretta — per lo più suoi familiari o alti funzionari della sua corte — che potevano o pre­sentare di persona la domanda del petitore raccoman­dandone l’accoglimento o agire successivamente da intermediari interponendo i loro buoni uffici per un felice esito della richiesta. Anche di questa fase si ha per lo più ricordo diretto nel dettato del documento, attraverso formule come «per interventum…», «per intercessionem…» e simili.

L’intervento ora descritto non va però confuso con quello proprio di uno stadio ulteriore nel proces­so formativo del documento al quale alcuni diplomati­sti hanno dato appunto il nome di intervenzione. L’esatto significato di questo momento costituisce un tema assai controverso della diplomatica e non è possi­bile riassumere qui i vari punti di vista e gli argomen­ti addotti in favore o contro le diverse interpretazioni. Basterà ricordare che molti documenti accennano al­l’intervento di personaggi, distinti dal richiedente e dagli intercessori, la cui funzione è stata variamente interpretata, ma che certamente assume significato di­verso secondo i tempi, via via che si evolvevano con­cetti e istituti con i quali non soltanto le forme ma il valore stesso della documentazione erano intimamen­te connessi. Nei secoli dell’alto medioevo la figura giuridica degli «intervenientes» è quella di persone che, potendo ricevere un danno dalla concessione fat­ta ad altri, garantivano con la loro presenza la validità incontrastata dell’atto. Ben presto però tali interventi si moltiplicarono, tendendo a trasformarsi, soprattuto nei periodi in cui debole appariva il potere dell’auto­re, in vero e proprio consenso dei maggiorenti; gli «intervenientes» divennero così «consentientes», fin­ché tra il X e il XII secolo si ebbe una nuova evoluzio­ne — dove più rapida, dove invece più lenta, ma per lo più in relazione con il rafforzarsi del potere sovra­no — la quale portò i consenzienti al rango di semplici testimoni la cui presenza non contribuiva più alla validità del documento che, in quanto pubblico, fon­dava la sua autenticità sul fatto di essere emanato dalla cancelleria, ma rappresentava un elemento di maggiore solennità. Dibattuta è la questione riguar­dante la fase in cui l’intervento di questi personaggi si inserisce nella genesi del documento: se infatti è fuor di dubbio che «intervenientes» e «consentientes» svolgevano la funzione loro propria al momento del­l’azione giuridica, riesce invece difficile stabilire se i «testes» fossero presenti all’actio o alla conscriptio, fossero cioè testimoni dell’azione o della documenta­zione. La diversità dei punti di vista sull’argomento riflette assai probabilmente — come talora le stesse formule del dettato lasciano intendere — situazioni diverse: in alcuni casi i testimoni dovettero interveni­re nel momento in cui si esprimeva la volontà sovra­na, cioè all’actio, altre volte in quello in cui si perfezio­nava il documento. Non bisogna dimenticare, tutta­via, che spesso la presenza dei testimoni, e talora già quella dei consenzienti, era puramente fittizia e la loro menzione comprova soltanto che quei personaggi ricoprivano in quel momento gli uffici loro attribuiti, non già che fossero i-ealmente presenti in loco.

Il passaggio dalla fase dell’azione giuridica a quel­la della documentazione è dato dal momento della iussio, ossia l’ordine impartito dall’autorità alla cancel­leria (direttamente o per il tramite di un ufficiale che aveva tale mansione) di redigere il documento. Non sempre ne rimane ricordo nel tésto, che lo tralascia in particolare quando il documento è personalmente sot­toscritto dall’autore; ma, implicita od esplicita che sia, la iussio rappresenta sempre un momento fondamenta­le nel processo genetico del documento pubblico (e talora in essa si compendia l’intera azione giuridica), sicché ritengo che debba intendersi ugualmente mani­festata, se anche in forma generica e una tantum, anche per i documenti di ordinaria amministrazione emanati direttamente dalla cancelleria all’insaputa del­l’autorità.

Lo stadio successivo è quello della redazione del documento. I tempi e le modalità di essa variano se­condo la complessità dell’ufficio: dove l’organizzazio­ne era ridotta, lo scrittore provvedeva senz’altro alla stesura del testo, ma se la vastità dell’ufficio imponeva una divisione. minuziosa di compiti toccava a un uffi­ciale tra i più eminenti, talora al capo stesso della cancelleria, distribuire il lavoro secondo criteri di op­portunità incaricando della redazione l’uno o l’altro scrittore e più precisamente un funzionario della cate­goria dei «dictatores» che, raccolti e vagliati i prece­denti (atti preparatorii), provvedeva a stilare il docu­mento in forma di minuta. Quest’ultimo particolare veramente è controverso, poiché alcuni studiosi sosten­gono la presenza assoluta e costante di una minuta, altri invece, considerando che il numero di minute giunte fino a noi è, soprattutto fino al secolo XII, vera­mente esiguo, ritengono che il ricorso ad essa fosse saltuario e in alcune cancellerie addirittura ignorato. È necessario tuttavia tener presente non soltanto lo scar­so interesse alla conservazione della minuta una volta passati alla stesura in mundum, ma anche la possibilità che fungesse come tale la petizione, opportunamente integrata secondo il formulario in uso (sia che esistes­se una vera e propria raccolta ufficiale di formule, sia che queste si ricostruissero di volta in volta in base ai documenti emanati in precedenza).

La minuta, riveduta e corretta a volte — ma ecce­zionalmente — dalla stessa autorità emanante, ordina­riamente da un ufficale a ciò deputato, veniva quindi riportata in bella copia («in grossam litteram») da uno scrittore che nelle grandi cancellerie apparteneva a ca­tegoria diversa dai minutanti o dictatores, quella ap­punto dei grossatores. Come la minuta doveva tener conto delle caratteristiche interne del particolare tipo di documento, secondo la prassi specifica della cancel­leria in cui era redatta, così la bella copia (e cioè il vero originale) doveva conformarsi a particolari carat­teristiche esterne: il rispetto delle une e delle altre offriva garanzia, come si vedrà in seguito, per la genui­nità del documento.

Problema dibattutissimo è quello riguardante la registrazione, vale a dire la trascrizione in un apposito registro, da conservare in cancelleria, di ogni docu­mento spedito, È probabile che in alcuni uffici tale pratica non sia stata mai attuata; presso altri, invece, fu certamente in usó, ma si ignora quando cominciò ad essere sistematicamente osservata, in quale momen­to della documentazione era posta in atto (se cioè la trascrizione si faceva dall’originale o dalla minuta), se riguardava veramente tutti i documenti o alcuni sol­tanto e, in questo caso, quale criterio si seguiva per la selezione. Poiché la prassi dovette essere assai mute­vole non soltanto da una cancelleria all’altra, ma perfi­no — a seconda dei tempi — nell’ambito di uno stesso ufficio, la questione può essere affrontata soltanto caso per caso dalla diplomatica speciale. In una rico­struzione schematica e ideale delle fasi che concorro­no alla formazione del documento possiamo soltanto raffigurarci il documento stesso (minuta o mundum) consegnato a quella sezione dell’ufficio che faceva ca­po al registrator, per la trascrizione.

Un atto da cui non si poteva in alcun modo pre­scindere era invece quello della roboratio, ossia della convalida del documento eseguita con sistemi diversi nelle varie cancellerie; i più frequenti (talora sommati l’uno all’altro) sono: l’intervento dell’autore che sotto­scrive il documento o vi appone un, segno particolare; la recognitio cancelleresca, ossia l’attestazione che, so­prattutto quando manchi la presenza personale del sovrano, viene rilasciata dal più alto funzionario della cancelleria o da un suo delegato circa la perfetta corri­spondenza tra la volontà sovrana e il documento; le sottoscrizioni dei testimoni quando la loro presenza concorra alla solennità del documento stesso; la raffi­gurazione di segni particolari (monogramma, rota, ecc.); l’apposizione del sigillo. Anche queste operazio­ni venivano svolte nelle cancellerie maggiori da uffi­ciali diversi; particolare importanza si attribuiva ov­viamente all’uffico dei sigillatores, custodi del più co­mune e più delicato mezzo di convalida.

Il documento veniva poi passato ad altro ufficiale (quello che nella cancelleria pontificia ebbe nome di computator) per il calcolo della tassazione a cui era soggetto il destinatario: le voci di tale imposta erano diverse e comprendevano la materia scrittoria, il lavo­ro dello scrittore, la registrazione; naturalmente erano esclusi dal pagamento i destinatari di documenti d’uf­ficio o quelli che ne ottenevano l’esonero dall’autore.

Il momento conclusivo era rappresentato dalla spe­dizione, alla quale provvedevano di norma altri ufficia­li ancora, o attraverso corrieri o mediante la consegna personale al destinatario o ad un suo procuratore.»

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