
Nel Suo contributo, Guido Carpi tratteggia con maestria una descrizione del sentimento russo più profondo, quello che «il Mondo Zeta» ha esplicitato: «il grande trauma della fine dell’URSS e l’odio-amore per quel passato recente, col suo carico di sconfinata frustrazione; la perdita di identità e il tentativo di reinventarsene una brancolando fra lacerti sconnessi di storia e di cultura; la miseria disperata e l’ambiguo miscuglio di fascinazione e risentimento per un Occidente visto come paradiso di opulenza, abitato da gringos babbasoni; il cupo stoicismo di chi sente il mondo intero muoverglisi contro in assetto di guerra, il brutalismo ostentato e il conformismo più greve e subalterno (l’eterna pošlost’, la trivialità autocompiaciuta)»: è un’incomprensione di fondo tra Occidente e Russia quella che si è consumata nel fatidico 24/2?
No. Apprezzo e condivido quanto scritto e tracciato da Guido Carpi, così come è evidente che una incomprensione di fondo tra Occidente e Russia esiste ed esisterà sempre, ma nella citazione non trovo nessun tentativo di giustificare quanto è accaduto il 24 febbraio, se è questo il punto della domanda. Il sentimento ambiguo di fascinazione e risentimento verso l’Occidente è insito nei russi almeno a partire da Pietro il Grande. In particolare, gli anni Novanta del Novecento per i russi sono stati veramente tremendi e in quel decennio la Russia profonda (le cui viscere sono state illuminate alla perfezione dal contributo proprio di Carpi), che è quella che sostiene Putin, ha davvero provato un senso di frustrazione nei confronti del sogno occidentale.
Aggiungerei, però, che personalmente ho provato molto fastidio per il rumore alzato in Italia da ogni parte di interpreti, spesso improvvisati, altre volte mossi da battaglie ideologiche o, peggio, personali, più di qualcuno, temo, anche in malafede. Per le prime settimane e mesi, dopo l’inizio dell’invasione russa, qui in Italia si è dato spazio e importanza, esclusivi e decisivi, alla questione della Russia accerchiata dalla Nato e dall’Occidente, cosa che ha una sua parte di verità e sulla quale ha fatto leva proprio Putin per rafforzare il consenso delle masse e giustificare la sua carneficina. A un certo punto sono anche intervenuti storici prestigiosi e rappresentativi di un certo schieramento (evito di fare nomi perché la mia non vuole essere una accusa a livello personale) che, proprio per avvalorare la tesi dell’Occidente cattivo, hanno ricostruito, ad esempio, alcuni momenti storici inserendo, falsamente, i paesi baltici nella Comunità di Stati Indipendenti sorta dopo l’Urss, oppure hanno fatto ricostruzioni della storia russa e russo-sovietica tutte all’insegna del ruolo vigliacco assunto dall’Ucraina nel corso dei secoli, sempre pronta a spalleggiare l’invasore occidentale, con persino delle allusioni (sulla base di riscontri filologici, reali, ma fuorvianti) che attribuivano all’Ucraina la paternità dei Protocolli dei Savi di Sion (cioè del falso documento che ha scatenato l’antisemitismo nell’Europa del ‘900) che, qualunque cosa dica la filologia, restano il prodotto diretto dell’antisemitismo russo alimentato dalla polizia segreta zarista di Nicola II. Questa e altre suggestioni hanno fatto breccia nei nostri dibattiti proprio mentre Putin raccontava la barzelletta che l’operazione militare speciale (come in Russia va chiamata per legge questa ignobile guerra) era atto di denazificazione. Sono eventi che, passati sette mesi, si sono rivelati tutti insulsi, falsi, pretestuosi e che sarebbe stato più equilibrato evitare.
Per concludere, credo che la guerra sia stata scatenata contro l’Ucraina perché l’Ucraina, dalla caduta dell’Urss a oggi, a differenza della Russia, ha tentato veramente, pur tra contraddizioni forti, una strada democratica fondata sui diritti e sulle libertà, cosa intollerabile e pericolosa per il modello ideologico di mondo russo promosso da Putin e dalla Chiesa russa.
Nel Suo contributo, Lei ripercorre le tappe fondamentali della sua vita e come questa si sia incrociata (talvolta fatalmente) con la più recente storia russa lasciandosi andare ad una amara confessione: «In questi dieci anni, a furia di parlare di Gogol’ (che era ucraino), di Bulgakov (che era ucraino), di Majakovskij (che era georgiano), di tante cose culturalmente belle e complesse, mi sono sempre dimenticato di parlare del presente, del Putin che ho visto politicamente nascere, poi crescere e fare tanti, tantissimi danni. […] Ho provato vergogna del mio silenzio in questi 10 anni»: che compito hanno, in questo frangente storico, i russisti?
I russisti italiani, accademicamente inseriti nel settore scientifico della slavistica, hanno sicuramente subito un doloroso trauma ma anche una grossa pressione. Si è avvertita immediatamente la richiesta assillante di una ferma condanna della Russia e qualsiasi atteggiamento di silenzio o tentativo di fare delle distinzioni tra cultura russa buona vs cultura russa cattiva rischiava di essere catalogato come atteggiamento filoputinista. Questo, almeno all’inizio, è sicuramente avvenuto e lo dico io con la massima tranquillità visto che non faccio parte di nessuna associazione di russisti o di slavisti e che la condanna dell’invasione russa l’ho espressa immediatamente e senza nessun imbarazzo o pressione. Insomma, ho il motivato sospetto che all’interno della slavistica italiana ci sia stato il tentativo di un regolamento di conti con la russistica più che con la Russia, visto che nell’università italiana la stragrande maggioranza delle cattedre di slavistica sono storicamente ad appannaggio dei russisti.
Detto questo, e venendo al cuore della domanda, mi limito a dire cosa ho intenzione di fare io come docente e studioso di cultura russa, ovvero occuparmi molto di più dei fenomeni contemporanei e post-sovietici, analizzarli con gli studenti, andare a ricercarne le radici e soprattutto fare un’opera di messa in luce delle forze migliori della Russia, valorizzare le manifestazioni di opposizione e di dissenso che sono presenti e vanno incoraggiate (penso a Memorial, penso agli artisti che si sono riuniti intorno alla rivista ROAR – Russian oppositional arts review), dare voce a chi qui in Italia non l’ha avuta (perché si è dato tanto spazio alla propaganda russa e nessuno al dissenso russo?).
Sono sette mesi, dopo un senso di sgomento e di impotenza iniziali, che mi muovo in questa direzione. Ho contribuito a fondare il collettivo Russia resistente che coordina volontari e traduce in italiano i numeri della rivista ROAR; insieme alla Stilo editrice e al collega Marco Caratozzolo stiamo organizzando a Bari la IX edizione del Festival letterario Pagine di Russia (8-11 novembre) con un programma tutto dedicato alle forze d’opposizione russe: tra gli ospiti, tutti autori di Generazione Putin, oltre ai consueti Claudia Olivieri e Massimo Maurizio (rispettivamente dell’università di Catania e di Torino), e a Claudia Criveller, direttrice della rivista Avtobiografija (Journal on Life Writing and the Representation of the Self in Russian Culture), ci saranno Andrea Gullotta e Giulia De Florio di Memorial Italia che, tra le altre cose, presenteranno il libro di Irina Flige (Il caso Sandarmoch. La Russia e la persecuzione della memoria, in uscita ai primi di novembre sempre nella collana «Pagine di Russia» della Stilo editrice) su Sandormoch, la radura boschiva in Carelia in cui, negli anni Novanta è stata scoperta la fossa comune dove era stata sepolta un’intera tradotta di detenuti del primo lager sovietico, sulle isole Solovki; si tratta di un luogo e di un libro chiave per comprendere il ruolo della memoria storica nella Russia contemporanea e la battaglia ingaggiata dagli attivisti e storici indipendenti contro l’ideologia ufficiale. È probabile, infine, che l’edizione del festival sarà inaugurata dalla proiezione – la prima nel sud Italia – del reportage del regista russo Konstantin Goldenzweig Processo alla memoria (2021), lavoro realizzato per l’emittente televisiva indipendente TV Rain (Dožd’), in cui si indaga il ruolo di Memorial nei suoi trent’anni di attività in Russia.
Quale futuro immagina per la Russia?
Non riesco a immaginarlo, sono diviso tra forte paura e timide speranze. Per la Russia immagino un futuro nero. Temo molto, nella situazione attuale, un dopo Putin. Per quanto io sia critico e condanni con forza l’attuale governo russo, ho tanta paura che si possa precipitare in una dittatura militare ancor peggiore, dove a pagarla saranno, ancor prima che le relazioni politico-economiche con l’Occidente, i russi stessi che vedranno ancor meno riconosciuti i loro diritti e la loro libertà di espressione. L’unica piccola speranza la scorgo in Memorial, prima ong russa sorta dalla società civile (erede diretta dei dissidenti sovietici), nata non a caso durante la perestrojka per preservare la memoria delle innumerevoli vittime dello stalinismo e ricostruire la verità sulle tante pagine traumatiche dell’esperienza sovietica e che poi, subito dopo la dissoluzione dell’Urss, aveva allargato i propri interessi fino alla difesa dei diritti umani in Russia, tanto da svolgere un ruolo fondamentale di sorveglianza, in particolare durante le due guerre cecene. Parlo al passato perché, subito prima di avviare la campagna di Ucraina, Putin ha voluto sistemare, tramite una sentenza assurda della Corte suprema russa, proprio Memorial che infatti è stata liquidata definitivamente il 28 dicembre (sentenza confermata in appello il 28 febbraio per presunte violazioni della legge sugli agenti stranieri). Come ha ribadito Andrea Gullotta (presidente di Memorial Italia) nei suoi articoli presenti sul blog di Memorial Italia ospitato dall’Huffington Post: “In un colpo solo, la Russia ha perso la più importante voce indipendente della società civile e il più importante centro di monitoraggio dei diritti umani. Sembra lecito immaginare che si sia voluto sistemare il fronte interno prima di concentrarsi su quello militare. […] Il nocciolo della persecuzione da parte dello stato russo contro Memorial sta qui: è forse possibile immaginare, nella Russia odierna, che un’organizzazione indipendente possa continuare a fare ricerca, studiare ed educare le giovani generazioni sui crimini commessi da uno stato contro i propri cittadini, quando lo stato erede della Russia sovietica, comandato da un ex agente del KGB, scatena una guerra di invasione feroce contro l’Ucraina commettendo innumerevoli crimini di guerra e imponendo misure repressive contro chiunque protesti in patria?”.
E allora il futuro della Russia non lo immagino, mi limito a nutrire la speranza che le forze intellettuali migliori del paese, quelle raggruppate intorno a Memorial, per capirci, forze che comunque ci sono e ci sono sempre state in Russia possano avviare un processo finalmente democratico e indipendente all’interno del paese.
Certo, allo stato attuale è una speranza molto fioca, un po’ perché queste forze ora si trovano praticamente a vivere esuli e fuori dalla Russia, un po’ perché un processo democratico senza spargimenti di sangue e atti rivoluzionari in Russia è difficile da immaginare. Ci vorrebbe una personalità forte, già al potere, che faccia un passo indietro e indichi questa via, insomma ci vorrebbe che Putin si trasformasse in un Gorbačëv, tanto per evocare la figura, recentemente scomparsa, dell’ultimo leader russo illuminato, pur con tutti i difetti e le contraddizioni ascrivibili anche alle migliori personalità storiche.
Simone Guagnelli è ricercatore di Slavistica nell’Università di Bari, dove insegna Lingua russa e Cultura russa, e traduttore. Nel 2003 ha fondato, con Alessandro Catalano, la rivista internazionale di culture slave «eSamizdat». Nel 2010 ha pubblicato in Russia, con Andrej Ar’ev, la corrispondenza inedita del poeta russo emigrato Georgij Ivanov con il critico Roman Gul’ (Petropolis, 2010). Per la Stilo ha curato I corvi scherzano a Varsavia di Tommaso Fiore (2019) e sta preparando il volume Un dialogo futurista. V. Majakovskij, Una nuvola in brache; B. Jasieńki, Il canto della fame.