“Gang giovanili. Perché nascono, chi ne fa parte, come intervenire” di Franco Prina

Prof. Franco Prina, Lei è autore del libro Gang giovanili. Perché nascono, chi ne fa parte, come intervenire edito dal Mulino: innanzitutto, di cosa parliamo quando usiamo la parola «gang»?
Gang giovanili. Perché nascono, chi ne fa parte, come intervenire, Franco PrinaNon esiste una definizione unanimemente condivisa di gang o banda, nonostante il tema vanti una lunga tradizione di studi nel corso di tutto il ‘900 e nei primi decenni del 2000: dagli Stati Uniti degli anni ’20-’30 al Canada, dall’America centrale e del Sud alle diverse società europee (Gran Bretagna, Francia, Belgio, Germania, Spagna, Italia).

La parola gang designa un oggetto così indefinito e plurale nelle articolazioni che presenta, da farla ritenere una parola «contenitore», che fa sintesi di cose molto diverse tra di loro. Sono infatti tante le forme che assumono le aggregazioni più o meno stabili e durature nel tempo sinteticamente così denominate. Si possono collocare su un continuum che va dalle gang con centinaia di aderenti (presenti nelle carceri di molte parti del mondo e su territori che dominano), strutturate gerarchicamente e che gestiscono grandi traffici illegali (soprattutto di droghe) con tutta la violenza che connota il loro rapporto con altre gang, con le vittime e con la polizia, ai gruppi di ragazzi che più o meno stabilmente si riuniscono in spazi aperti delle nostre città semplicemente esibendo qualche tratto distintivo (magari ripreso dalle organizzazioni più conosciute), agendo comportamenti devianti come il consumo di alcol e sostanze psicoattive e, al massimo, difendendo quello spazio se sono aggrediti da altri gruppi o se presi di mira dalle autorità. In mezzo una grande varietà di aggregazioni che, più o meno sistematicamente e per periodi più o meno lunghi, si riuniscono, compiono reati predatori o legati al piccolo spaccio, esprimono attraverso la violenza gratuita i sentimenti di disagio e la marginalità sociale che sperimentano.

Quanto è diffuso il fenomeno delle gang giovanili? 
Se parliamo dell’Italia, la dimensione quantitativa del fenomeno sfugge, proprio la fluidità dei gruppi di cui parliamo. Diverso è in altri Paesi dove i contorni delle stesse gang sono più definiti e dove, soprattutto da parte delle autorità di polizia e dalla magistratura, sono raccolti sistematicamente dati come risultato di schedature apposite derivanti da definizione giuridiche che indicano esattamente cosa si debba intendere per gang o “banda urbana”, essenzialmente una struttura organizzata e persistente dedita alla violenza e a traffici illegali su larga scala. Gang di questo tipo in Italia non esistono, se non marginalmente, perché non hanno potuto svilupparsi come altrove. Il motivo è che quei traffici e quelle attività criminali da noi sono gestiti dai gruppi di criminalità organizzata. E proprio l’esistenza di mafie sul nostro Paese impedisce ai giovani che si aggregano per compiere reati o che intendano assumere rilevanza e potere in un determinato contesto di diventare quello che sono diventate le gang in altri Paesi. Al massimo le mafie consentono a gruppi di giovani che vivono nei territori controllati di sperimentarsi in alcune attività illegali per poi semmai assorbirne gli elementi più affidabili e esperti.

Dunque in Italia (e in altri simili paesi europei) è difficile dire quante siano le aggregazioni fluide, temporanee, presenti e visibili solo per certi periodi nelle strade e nelle piazze, composte da ragazzi e giovani. Ne possiamo osservare la presenza quando leggiamo sui giornali episodi di violenza verso altri, negli scontri tra gruppi rivali o per affermare il predominio in un certo spazio urbano, o ancora quando compiono reati come le rapine per strada o in esercizi commerciali, sono arrestati per spaccio di droga, o, più raramente, per estorsioni a commercianti. La cosa difficile è distinguere tra le situazioni in cui i minorenni o giovanissimi – come da sempre e ovunque accade – compiono reati insieme ad altri coetanei (il cosiddetto e diffuso co-offending che caratterizza i più giovani autori di reato) e la costituzione di un gruppo più stabile che si riconosce come gruppo, ha un minimo di struttura di ruoli (ad esempio con un leader e con alcuni gregari), programma di agire in modo reiterato per obiettivi condivisi.

Gli unici dati di cui disponiamo riguardano, in generale, i minorenni e i giovani adulti denunciati e condannati, le situazioni di correità e, con maggiore approssimazione, il numero di imputati per associazione per delinquere (l’art. 416 del nostro Codice penale), reato che più direttamente fa pensare a una qualche forma organizzativa assimilabile a una banda. E questi dati – osservabili sui siti della Giustizia minorile e nelle statistiche giudiziarie dell’Istat – sono confortanti per la sostanziale stabilità se non, a volte, diminuzione, negli ultimi decenni, dei soggetti denunciati e condannati, anche per il reato associativo.

Cosa spinge un giovane ad aderire ad una gang?
Se parliamo della realtà italiana, ciò che spinge all’aggregazione a un gruppo o una banda di strada sono essenzialmente bisogni diffusi in modo esteso tra gli adolescenti e giovani nelle fasi di passaggio dall’infanzia all’età adulta, ma che – in presenza di certe condizioni sociali – alcuni vivono in forme più “radicali” e in più aperto conflitto con il mondo degli adulti e con le istituzioni. Sono bisogni articolati: di identità (chi sono? cosa sarò uscendo dalla condizione di bambino?), di aggregazione con altri simili (chi mi capisce davvero? dove posso trovare solidarietà e fiducia?), di rivalsa verso percezione di trattamenti ingiusti (perché tutti mi trattano male? come gliela posso far pagare?), di soddisfazione di desideri indotti dalle mode (come posso procurarmi ciò che altri più fortunati di me posseggono? come posso apparire al meglio ed essere considerato dagli altri?), di riempimento di vuoti esistenziali e relazionali (cosa faccio del mio tempo libero? cosa mi può procurare piacere? come posso provare sensazioni forti per uscire dalle routine e dalla noia?).

In una parte dei casi è evidente anche il bisogno di definire il proprio futuro: come posso risolvere i problemi che vivo nella condizione mia e di tanti nel mio contesto? in che modo posso guadagnare da vivere? come posso affermarmi e – anche – diventare ricco?

Se poi in specifico pensiamo ai ragazzi di origine straniera (i minori non accompagnati, le seconde generazioni, i ragazzi ricongiunti ai loro genitori in età adolescenziale) i problemi di identità, di riconoscimento, di accettazione, di integrazione, di costruzione del proprio futuro sono amplificati. E la banda di pari può apparire un rifugio e una opportunità, anche solamente assumendone alcuni tratti distintivi da esibire con orgoglio perché fanno sentire qualcuno. A maggior ragione se intorno a te percepisci ostilità, diffidenza, sfiducia, come succede sempre più frequentemente nelle nostre città.

Chi sono i ragazzi che sperimentano queste forme di aggregazione?
Dipende dai contesti. In quelli più segnati da povertà materiale e, soprattutto, culturale, si tratta di adolescenti e giovani deprivati di riferimenti di adulti solidi, esclusi dai possibili percorsi di crescita che sperimentano i coetanei in particolare attraverso la frequenza scolastica e il successivo inserimento nel mondo del lavoro. Esposti, proprio perché senza competenze critiche, a tutti i messaggi che connotano la società contemporanea del consumismo e del nesso tra beni materiali, da esibire costantemente per essere considerati, e felicità. In altri casi, abbiamo detto, sono i ragazzi di origine straniera che crescono tra due culture e sperimentano problemi di accettazione e integrazione in una o entrambe di esse. Per essi il richiamo alle origini, mitizzate ad esempio da comunità culturali identitarie rappresentate da alcune organizzazioni (ad esempio di latinos), porta a sentirsi qualcuno e a trovare le risorse per difendersi dagli attacchi degli estranei. Ma vi sono anche ragazzi e giovani italiani di famiglie socialmente integrate che in gruppo vanno alla ricerca di sensazioni forti (in primis lo “sballo”), dell’adrenalina che può scatenare l’agire e il fuggire, dell’esibizione dell’indifferenza verso le regole e le leggi da infrangere per dimostrare coraggio. A volte sono gli stessi che nel muoversi in “branco” e nella violenza di gruppo verso le donne o verso i “diversi” come gli stranieri o i più deboli e indifesi trovano modo di affermare posizioni ideologiche di carattere estremistico.

Come si rapportano al mondo degli adulti e alle istituzioni?
Il rapporto con gli adulti è molto legato a quali adulti hanno nel loro orizzonte quotidiano. In molti casi, soprattutto se pensiamo ai ragazzi delle piccole aggregazioni dei nostri territori, prevale piuttosto una assenza di rapporti. Pensiamo ad adulti troppo presi dai propri problemi e difficoltà che non riescono a svolgere una funzione genitoriale adeguata o a insegnanti che non ce la fanno a trattenere nelle scuole i ragazzi più difficili. E la “non presenza” connota anche le istituzioni dei contesti più deprivati socialmente e culturalmente, dove le uniche che realtà che resistono (a fatica) sono appunto le scuole, a volte le parrocchie e – ma non sempre – i presidi di polizia o carabinieri. Molti dei ragazzi che si aggregano in bande di strada vivono l’estraneità ai loro problemi e alle loro aspettative delle istituzioni e dei servizi che esse erogano. Di più: avvertono l’ostilità di tante istituzioni per chi non si adegua e infrange le regole o semplicemente è “diverso” (come sono sempre un po’ i giovani) o è estraneo in quanto straniero. In molte delle periferie delle città dove sono concentrate le popolazioni marginali, le istituzioni sono percepite come nemiche, quindi, ad esempio, da vandalizzare o da attaccare. Pensiamo alle scuole o ai servizi presi di mira o alle forze di polizia con cui si verificano spesso scontri, soprattutto quando i giovani in generale e i gruppi di strada avvertono la loro ostilità e il pregiudizio che si esprime in controlli costanti (anche solo chi è giudicato dall’aspetto vicino ai gruppi devianti), in provocazioni e atteggiamenti di disprezzo, in vessazioni o accuse ingiustificate. Sono questi gli elementi a volte esplosivi (come nel caso delle rivolte delle banlieues francesi), altre volte più sotto traccia, che hanno effetti di rinforzo delle aggregazioni in banda come strumento di difesa e come unica risorsa solidale e di senso per un numero ancora maggiore di ragazzi.

Quali risposte istituzionali e sociali è possibile fornire al fenomeno delle gang giovanili?
V’è in tutto il mondo un modo prevalente (benché non risolutivo) di rispondere alle aggregazioni in banda laddove esprimono comportamenti criminali e violenti: la repressione attraverso gli strumenti del diritto penale e l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. Questo orientamento prevalente merita qualche considerazione: sebbene siano tutti d’accordo che si debba in qualche modo sanzionare chi commette reati, puntare tutto sull’impegno a identificare, schedare, punire e incarcerare chi fa parte di una banda non coglie la natura profonda del fenomeno, in particolare laddove non si sia in presenza di gang strutturate e dedite ad affari illeciti su larga scala e dove siamo in presenza di giovani e giovanissimi. È il caso dei Paesi come l’Italia dove le forme di aggregazione in bande dei ragazzi che abbiamo sopra descritto esprimono bisogni non affrontabili con la mera repressione, ma possono e debbono prendere in conto le motivazioni che spingono alcuni ad aggredire altri o commettere reati. Cosa che è stata fatta con successo in particolare da alcuni Tribunali per i Minorenni e da servizi sociali del territorio approfittando delle opportunità che il codice di procedura penale minorile offre. Ad esempio la messa alla prova o altre misure non detentive che hanno consentito di aprire un dialogo con gli stessi ragazzi coinvolti e farli maturare nella consapevolezza dei danni che producono e della possibilità di orientare diversamente le proprie vite.

Ciò che occorre sono però principalmente programmi di prevenzione che incontrino, dialoghino, propongano alternative, affrontando e dando risposte ai bisogni e alle aspirazioni di realizzazione di chi sta cercando una strada per la propria vita. In questo campo le idee sono molte e le esperienze condotte in tanti Paesi sono significative a partire da interventi di miglioramento delle condizioni di vita dei quartieri e di sostegno alle famiglie, alle istituzioni scolastiche alle associazioni di comunità perché svolgano al meglio i loro compiti educativi. E ancora, lotta all’abbandono scolastico, informazione e sensibilizzazione sui rischi insiti nei comportamenti criminali e sulle loro conseguenze, ma soprattutto proposte di attività nel tempo libero che incontrino gli interessi dei ragazzi “a rischio”, a partire dall’aggancio dei gruppi di strada da parte di educatori preparati e del loro coinvolgimento in progetti e iniziative valorizzanti. Ma per tutto ciò servono maggiori investimenti in risorse, strutture, operatori, formazione.

Franco Prina è professore ordinario di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Torino. Si occupa da sempre di devianze giovanili e ha svolto ricerche sulle loro varie forme: delinquenza minorile, bullismo, consumi e abusi di alcol e di droghe, nonché sulle norme e le politiche di prevenzione e di controllo poste in essere per affrontarle. Ha svolto il ruolo di giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Torino e si dedica alla formazione di assistenti sociali e di altri operatori impegnati nel campo dell’inclusione sociale. Oltre che del volume Gang giovanili è autore, tra altro, di Devianza e politiche di controllo. Scenari e tendenze nelle società contemporanee (Carocci Editore, Roma, 2003) e del più recente: Devianza e criminalità. Concetti, metodi di ricerca, cause, politiche, Carocci Editore, Roma, 2019.

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