
Per quali ragioni l’Italia venne esclusa dall’incontro?
Pur preferendo una soluzione comunitaria a quella intergovernativa profilata dall’incontro di Schengen, l’Italia era fortemente interessata a una completa liberalizzazione della mobilità interna. Funzionale all’incremento dei traffici commerciali in un quadro di significativa ripresa dell’economia nazionale, l’abolizione dei controlli alle frontiere comuni rappresentava anche il coronamento di una storica battaglia della diplomazia italiana volta a ottenere la libera circolazione delle persone su scala comunitaria. Tradizionalmente concepita come uno strumento per facilitare l’emigrazione italiana, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta questo obiettivo si arricchì di una nuova dimensione ideale: la possibilità di circolare liberamente in uno spazio europeo senza frontiere, infatti, veniva sempre più considerata dalle autorità italiane come un fondamentale volano per la costruzione di una cittadinanza comune, oltre che segno tangibile della volontà di realizzare una auspicata unione politica. L’esclusione dall’incontro di Schengen, per di più, rischiava di offuscare il ruolo di rilancio del processo di integrazione che il Governo italiano si era assegnato nella sua veste di presidente di turno del Consiglio della Comunità Europea.
Le principali e decisive resistenze, in quella fase, provennero dal Governo francese, esecutivo dell’unico Paese fondatore di Schengen confinante con l’Italia. I timori riguardavano soprattutto l’assenza di una vera politica italiana di controllo sull’immigrazione e, conseguentemente, la prospettiva che in assenza di controlli alle frontiere comuni la penisola potesse diventare un comodo varco di accesso all’Europa Centro-Settentrionale per gli immigrati illegali provenienti dai Balcani, dal Medio Oriente e dall’Africa Settentrionale e Sub-Sahariana. Oltre a questo, il Ministero degli Interni francese paventava ripercussioni negative su una più una ampia gamma di traffici illeciti molto attivi a livello di frontiere comuni: denaro contraffatto, opere e oggetti d’arte trafugati, auto rubate e, soprattutto, stupefacenti. Il ruolo della Mafia siciliana e della Camorra campana, in questo senso, veniva particolarmente temuto. A preoccupare, infine, erano i rapporti tra le Brigate Rosse e la sempre pericolosa Action Directe, oltre che la possibilità che il terrorismo di matrice araba potesse avvantaggiarsi dell’eliminazione dei controlli alle frontiere italo-francesi.
Se l’Italia voleva diventare un membro del sistema Schengen, si argomentava, essa avrebbe dovuto preliminarmente accettare un accordo di riammissione degli immigrati illegali intercettati ai confini, un’intesa per la collaborazione internazionale tra servizi di polizia e l’adozione di norme più severe in materia di controllo dell’immigrazione.
Come si articolò la fase di definizione del sistema Schengen?
In seguito alla firma dell’Accordo di Schengen venne creato un complesso sistema istituzionale parallelo a quello comunitario in cui vennero condotti i negoziati per una Convenzione di applicazione dell’accordo stesso. Mentre l’Accordo di Schengen si presentava come una dichiarazione d’intenti, la sua Convenzione di applicazione avrebbe dovuto offrire un piano dettagliato d’azione. I negoziati furono molto più complicati del previsto, sia per la delicatezza dei temi trattati, sia per i riflessi che su essi ebbero i processi rivoluzionari in atto nell’Europa Centro-Orientale. Dopo una fase di stallo imposta dalla Germania tra il 1989 e il 1990 per spingere gli alleati a rimuovere i visti all’Ungheria e a considerare la Repubblica Democratica Tedesca come un membro di fatto del sistema, la Convenzione di applicazione venne siglata tra i Cinque paesi firmatari dell’Accordo di Schengen il 19 giugno 1990. Pur importante, però, questo documento era solo un’ulteriore tappa del percorso; prima di arrivare alla vera e propria area Schengen, infatti, i Paesi firmatari avrebbero dovuto procedere al deposito degli atti nazionali di ratifica e, soprattutto, avrebbero dovuto provvedere al preliminare rispetto di tutte le condizioni necessarie per garantire la sicurezza dei cittadini e rendere effettivi i controlli alle frontiere esterne.
Quando e come si giunse alla creazione dell’area Schengen?
L’area Schengen venne ufficialmente creata il 26 marzo 1995, a conclusione di quasi cinque anni di durissime trattative negoziali condotte all’interno del sistema istituzionale Schengen. Avvenuti nel contesto della difficile transizione post-comunista dell’Europa Centro-Orientale, delle guerre balcaniche e della recrudescenza delle attività terroristiche legate agli antichi e nuovi conflitti scoppiati nelle aree mediorientale e magrebina, i negoziati furono caratterizzati da un clima di reciproca diffidenza; a spiccare, in particolare, furono i sospetti francesi verso la politica liberale olandese in materia di stupefacenti e verso una politica tedesca di immigrazione e asilo giudicata troppo generosa. Gli ultimi ostacoli vennero superati sia per ragioni economiche e politiche generali sia perché le stesse autorità francesi si resero conto che, a certe condizioni, Schengen avrebbe potuto rappresentare un conveniente strumento per ridurre i costi finanziari e politici legati al controllo delle frontiere.
In che modo l’Accordo di Schengen ha influenzato e persino plasmato la politica migratoria italiana?
Con pochissime eccezioni, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta la classe politica italiana si approcciò alla questione migratoria senza cogliere i rischi associati a un eccesso di immigrazione illegale e, conseguentemente, senza porsi il problema di creare efficaci strumenti di controllo, respingimento e, eventualmente, espulsione dal territorio nazionale. Questo atteggiamento, a sua volta figlio di radicate motivazioni storiche, economiche, geopolitiche, religiose e politico-ideologiche, era oggettivamente in contraddizione con un sistema europeo che prevedeva il trasferimento e, contestualmente, il rafforzamento dei controlli alle nuove frontiere esterne. L’esclusione e, poi, l’accettazione condizionata della presenza italiana agli accordi di Schengen agirono, in questo senso, come potenti fattori di pressione sulla classe politica nazionale e come strumenti di reale trasformazione del dibattito, della legislazione e della politica migratoria italiana. Le prime sostanziali misure restrittive adottate dalla legge Martelli nel 1990 e, allo stesso tempo, la decisione di rimuovere la clausola della riserva geografica per i richiedenti asilo furono fortemente segnate dalla necessità di aderire agli accordi di Schengen. Le stesse politiche migratorie, dalla gestione della prima crisi albanese del 1990-1991 alla gestione dei flussi di rifugiati curdi nel 1997, vennero condotte sotto il pesante condizionamento del vincolo europeo. Le principali innovazioni legislative introdotte dalla legge Turco-Napolitano del 1998 in materia di respingimenti e espulsioni, a cominciare dall’istituzione dei Centri di Permanenza Temporanea, furono infine influenzate, in maniera decisiva, dalla volontà di entrare a far parte della già costituita area Schengen.
A distanza di circa un quarto di secolo dalla sua effettiva attuazione, quale bilancio si può trarre di questo complesso e affascinante percorso?
Recentemente intervistati su quale fosse il miglior risultato del processo di integrazione comunitaria, gli europei hanno confermato una tendenza di lungo periodo citando in maggioranza la libertà di circolazione delle merci, dei servizi e delle persone. La possibilità di potersi muovere senza ostacoli, in particolare, è considerata dalle giovani generazioni come il contributo più positivo e più tangibile che l’Unione Europea ha saputo offrire ai propri cittadini. Schengen, per l’importante ruolo che ha svolto nel rendere possibile questa opportunità, rappresenta, quindi, un evidente successo. Allo stesso tempo, intervistati su quale fossero le loro principali preoccupazioni, gli europei hanno risposto in maggioranza citando l’immigrazione e il terrorismo internazionale. La maggior parte vorrebbe una politica comune in materia ma, contemporaneamente, ritiene che l’intervento comunitario su questi temi sia ampiamente inadeguato. Nella misura in cui esso ha rappresentato una modalità di gestione delle frontiere e dei flussi migratori, Schengen appare dunque, al contrario, un clamoroso fallimento. La verità, quindi, è che Schengen pare aver perso l’ambiziosa scommessa su cui si era fondato e con cui era stato giustificato: ampliare le libertà rafforzando, nel contempo, la sicurezza dei propri cittadini e l’efficienza complessiva dei propri sistemi di controllo e gestione delle frontiere esterne. La storia aiuta a comprendere le ragioni di questo parziale insuccesso, dovuto certamente all’evoluzione delle dinamiche migratorie ma anche alla concezione stessa della politica migratoria europea. Il trasferimento dei controlli alle frontiere esterne senza una reale comunitarizzazione delle politiche migratorie, unito all’attribuzione di responsabilità ai Paesi di prima accoglienza nell’esame delle richieste d’asilo prevista dal sistema di Dublino, ha finito per caricare sui paesi della periferia meridionale e orientale dell’Unione Europea una quota prevalente del costo economico, sociale e politico di un fenomeno epocale che riguarda l’intero continente; la speranza, a lungo coltivata dai Paesi del cuore geopolitico della Comunità e poi dell’Unione Europea, di poter utilizzare Schengen e, poi, Dublino a proprio esclusivo vantaggio, si sta sempre così rivelando una drammatica illusione.