“Freud genio infedele. Identità di un ebreo tedesco irreligioso” di Francesco Marchioro

Dott. Francesco Marchioro, Lei è autore del libro Freud genio infedele. Identità di un ebreo tedesco irreligioso edito da  FrancoAngeli: quali interrogativi solleva la natura dell’identità di Freud?
Freud genio infedele. Identità di un ebreo tedesco irreligioso, Francesco MarchioroL’opera del fondatore della psicoanalisi è attraversata da correnti di pensiero, figure di studiosi illustri, eredità di conoscenze, clima culturale ed eventi politico- sociali di forte influenza sulla formazione e la professione di Freud. Approfondire questi aspetti ha il senso di interrogarsi sulle caratteristiche che ne connotano l’identità.

In quale clima familiare e contesto culturale e sociale cresce Freud?
Il padre di Freud, Jacob, nell’unirsi in matrimonio (1855) con Amalia Nathanson compie un chiaro passaggio dall’ebraismo ortodosso della propria tradizione familiare e caratteristico dello Stetl di lingua e cultura jiddish ad un ebraismo riformato. Decide di apprendere la lingua e la cultura tedesca, di indossare abiti all’europea e di respirare il vento rivoluzionario seguito ai moti del 1848. Nei suoi continui viaggi d’affari tra le grandi città dell’Impero austro-ungarico, viene a contatto con gli ebrei illuministi e aderisce al movimento ebraico dei maskilim che permette di essere “ebrei e tedeschi” contemporaneamente.

Jacob Freud fa parte della generazione ebraica cosiddetta “in transizione”: pur riconoscendo la personale eredità dello chassidismo, sceglie di abbandonare l’ortodossia e di modellare la propria identità integrandosi nella nuova società borghese.

Quando a tre anni si trasferisce da Freiberg, città natale in Moravia, a Vienna Sigmund Freud si trova immesso in un contesto complesso. La capitale asburgica è attraversata da flussi migratori, soprattutto di ebrei galiziani, che superano la componente stessa dell’alta borghesia ebraica, per intraprendere il processo di emancipazione, assimilazione ed integrazione con gli stessi viennesi.

La particolarità della cultura viennese di fine Ottocento è di essere mitteleuropea ed è costituita dalla stretta commistione della componente ebraica con quella più specificamente viennese. Freud frequenta un ambiente familiare e sociale quadrilingue: il ceco, sua lingua di nascita, l’jiddish, lingua materna, l’ebraico, lingua “sacra” del padre, il tedesco, di cui è uno  stilista e che è la lingua del suo modello ideale di identificazione culturale.

Cresciuto in un periodo in cui la nuova legislazione apre agli Ebrei delle prospettive favorevoli, ad esempio concedendo loro l’accesso all’Università, Freud aspira, come ogni ebreo tedesco della sua generazione, ad appartenere alla “grande” cultura tedesca. Abbandonare la condizione ebraica, parlare, scrivere e dunque lavorare, vivere allo stesso modo dei tedeschi appare la maggiore aspirazione di ogni giovane emigrato nella capitale dell’Impero austro-ungarico, questo gli appare il requisito migliore per emanciparsi.

La psicoanalisi ha dimostrato l’importanza per la costituzione psichica dell’individuo dei primi anni di vita. Ma il problema dell’identità rimane per Freud un compito difficile da traghettare nelle pieghe non sempre svelate della sua esistenza.

Che influenze ha sulla sua identità l’ebraismo?
Possiamo delineare l’identità di Freud attraverso tre componenti: il suo modo particolare di essere ebreo, la lingua e la scrittura e, infine, l’ateismo o l’irreligiosità. Quanto all’ebraismo Freud afferma ripetutamente la propria ebraicità, ma in una maniera alquanto contraddittoria, ambivalente: non si sente coinvolto dalla religione ebraica né da altre religioni, eppure coltiva un sentimento di forte appartenenza al popolo ebraico. Per lui essere ebreo ha il senso non tanto di condividere la religione ebraica quanto piuttosto di far parte del popolo ebraico. Vi è una sorta di mimetismo che Freud adotta, talvolta, per adempiere al processo di assimilazione, un percorso segnato dall’insicurezza tra l’accoglienza e il rifiuto, l’integrazione e la marginalità.

La lingua e la scrittura di Freud punteggiano la ricchezza della sua cultura. Come Thomas Mann, suo amico ed estimatore, padroneggia uno stile impareggiabile: raffinato, allegorico, armonioso, dove trovano posto i valori caratteristici della Kultur e della Bildung tedesca, come profondità, senso tragico dell’esistenza, nichilismo. La scrittura freudiana oltre alla chiarezza espositiva rispecchia l’acutezza critica e il rigore etico tipici dell’intellettuale ebreo.

L’ateismo o sentimento di irreligiosità si manifestano nel suo essere un non-credente, senza-dio, laddove la religione è per lui un residuo di stadi e credenze dell’umanità che lui deve smascherare e superare.

Cosa rinveniamo quindi di ebreo nell’opera di Freud?
Ci chiediamo: se la psicoanalisi nasce ad opera di uno scienziato ebreo, Freud, dobbiamo considerare la psicoanalisi un prodotto del sapere ebraico?

Molti studiosi mettono in evidenza lo stretto parallelismo tra “Edipo e Mosè” quale schema della relazione edipica di Freud con Jacob, suo padre, e di identificazione con il “grande uomo” padre fondatore dell’ebraismo, Mosè. Analogamente, il riferimento a L’interpretazione dei sogni pone il capolavoro di Freud nella tradizione biblica della lettura dei sogni, pur con le grandi differenze tra le due opere.

La psicoanalisi si manifesta chiaramente come “scienza ebraica” in rapporto alle sue concezioni sul tempo, la memoria, l’etica, la razionalità. Sebbene al di fuori di ogni religione, Freud è consapevolmente all’interno del patrimonio culturale ebraico.

Nell’evidenza che la psicoanalisi è opera di un ebreo, Freud, si muove anche con la particolare natura multipla della sua identità di ebreo: riformato, mitteleuropeo, tedesco, irreligioso e infedele. Per lui essenziale resta soprattutto la libertà di ricerca, l’indipendenza dal dogma religioso, non curante dei condizionamenti sociali, del consenso e persino delle persecuzioni. Avverte che fondamentale è mantenere fede all’etica della responsabilità e dell’autonomia di pensiero.

In che modo i testi freudiani rispecchiano il conflitto identitario che attraversa la vita, l’opera e il movimento psicoanalitico? Qual è il senso del suo essere “infedele”?
La trama del saggio si sviluppa a partire proprio dai testi freudiani: è mio intento far parlare i protagonisti di queste pagine e ciò avviene non certo sovrapponendo la mia interpretazione al loro pensiero ma, al contrario, a partire dalle loro parole e testimonianze. Infatti, le opere di Freud, ad iniziare dalle lettere alla fidanzata Martha o dalla corrispondenza con l’amico Wilhelm Fliess fino a L’avvenire di un’illusione o all’Antisemitismo in Inghilterra sono ampiamente contrappuntate da esperienze, aneddoti, affermazioni e smentite continue, riguardo alla propria identità e carattere. La sua visione illuministico- positivista, il suo pensiero imbevuto di biologia inglese, scienza sperimentale tedesca non gli consentono di concepire l’inconscio come parte dell’inconoscibile, partecipe della religione. Pertanto, dall’esame delle tre accezioni caratterizzanti l’identità di Freud condotto nel libro, posso dedurre che egli è nell’inconscio ebreo, illuminista e assimilato; per l’ebraicità è reticente rispetto al mandato paterno; egli è talmente non ortodosso che non indugia ne L’Uomo Mosè e la religione monoteistica dal privare “un popolo dell’uomo [Mosè] che esso celebra come il più grande dei suoi figli”; per la lingua e la cultura è raffinatamente tedesco; per l’ateismo e il suo sentimento di irreligiosità è un

non-credente. Per tutte e tre queste categorie dell’identità egli rimane pertanto un infedele, così come lo è sia in quanto appartenente al movimento illuminista ebraico che si contrappone ai “fedeli” dello chassidismo (chassidim in ebraico significa “pio, fedele”), sia verso l’immagine marmorea del Mosè iracondo e passionale forgiato da Michelangelo (Freud gli riconosce al contrario una “pacatezza esteriore e commozione interiore”), come pure nei confronti ora della psicologia sperimentale, scientifica dei suoi maestri, Wilhelm M. Wundt, Gustav Theodor Fechner, Johan Friedrich Herbart, ora dei maestri della neurologia e della medicina del tempo: Jean Martin Charcot, Josef Breuer, Hermann Nothnagel, Theodor Meynert, Heinrich Obersteiner. Ci si potrebbe argutamente chiedere se Freud avrebbe potuto scoprire la psicoanalisi senza essere infedele nei confronti della religione dei padri, della sua tradizione, della sua cultura.

Che ruolo hanno, nella biografia di Freud, figure femminili come Amalia, la madre, Martha Bernays, prima fidanzata, poi moglie e la figlia Anna?
Il libro sottolinea l’importanza delle figure femminili di casa Freud, personalità spesso relegate nelle biografie a pallide comparse.

Amalia Nathanson, madre di Freud, viene descritta come una donna più egoista che materna. Ama il suo “Sigi” (diminutivo, vezzeggiativo di Sigmund) perché intende veder realizzati in lui i propri desideri: narcisista e ambiziosa, affida al figlio prediletto la propria aspirazione ad essere madre di un uomo importante, avendo subito percepito che il suo primogenito era una creatura speciale. La moglie Marhta Bernays è una efficiente Hausfrau, signora della casa, sovrintende alle donne di servizio, si dedica alla famiglia. In perfetto stile borghese, è riservata e ligia nel seguire i principi della morale della sua classe sociale. Sebbene per Martha sia difficile accompagnare con attenzione l’evoluzione professionale del marito, non gli fa mancare tuttavia la certezza del proprio incoraggiamento ed approvazione per la sua impresa. Ed è anche la silenziosa coscienza della tradizione ebraica in casa Freud, una persona capace di grande amore ed abnegazione. Anna Freud, la più giovane delle figlie, sin dai primi elementi biografici sembra destinata alla psicoanalisi: il suo nome richiama quello di Anna O. (Bertha Pappenheim), la protagonista degli Studi sull’isteria, come pure quello di Irma (l’autrice del sogno dell’Iniezione a Irma, 23-24 luglio 1895) che è in realtà Anna Hammerschlag Lichtheim, la figlia dell’insegnante di ebraico di Freud. La piccola Anna, rifiutata dalla madre e maschio mancato, viene salvata dal padre che ne riscatta la sorte: dopo un’adolescenza alquanto sofferente, viene “sorprendentemente” presa in analisi dal padre, in due riprese: tra il 1918 e il 1920, e tra il 1922 e il 1924. Quindi, nell’estate del 1923 Anna, preoccupata per il cancro alla mascella diagnosticato al padre e per la complessità della situazione all’interno del Movimento psicoanalitico, sia assume con coraggio il ruolo di figura prescelta per prestare le cure al padre, sia entra con grande sicurezza e protagonismo nella scena viennese e nel destino della psicoanalisi internazionale. Anna è ben presto la caposcuola delle applicazioni della psicoanalisi ai bambini, alla pedagogia e fonda la psicologia infantile. È l’iniziatrice della “psicologia dell’Io”. Dopo l’abbandono di Vienna (1938) e l’esilio a Londra, un suo sogno realizzato è la fondazione, dell’Hampstead War Nursery, lo Hampstead Child-Therapy Course e nel 1952 della Hampstead Clinic, centro di formazione e ricerca (insieme a Dorothy Burlingham e Helen Ross). Sarà, infine, lei con decisione ed intelligenza ad organizzare, controllare, pubblicare e custodire l’Opera e la memoria di Sigmund Freud. Ci lasciamo, qui, interrogare da una questione che sorge dalla sua biografia: dobbiamo considerare Anna vittima o vestale del padre? Nel libro la mia risposta.

Francesco Marchioro, storico della psicoanalisi e studioso di Freud, ha scritto e curato numerosi saggi, tra i quali: Sigmund Freud, Gli aforismi. Tutti i concetti fondamentali (Bollati Boringhieri 2021); Sigmund Freud, Aforismi metafore passi (Bollati Boringhieri, 2020); La passeggiata Freud. Camminare ricordare sognare (Weger, 2019); Psicoanalisi e archeologia. Freud e il segreto di Atena (Sovera-Armando, 2017); Frammenti d’ascolto (Gruppo ed. l’Espresso, 2011); Inaudibile (Gruppo ed. l’Espresso, 2009); Martin Freud, Mio padre Sigmund Freud (Il Sommolago, 2001). Ha curato e tradotto in italiano le Opere di Otto Rank.

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