“Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes

Frammenti di un discorso amoroso
di Roland Barthes
Einaudi

«(Fragments d’un discours amoureux) Saggio dello scrittore francese Roland Barthes (1915-1980), pubblicato nel 1977. Raccolta dei topoi e delle “pose” caratteristiche dell’innamorato, di cui l’autore traccia un ritratto “strutturale, non psicologico”, il penultimo scritto di Barthes nasce nell’ambito dei seminari sulla ricerca semiologica da lui tenuti a Parigi presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. In particolare quello sul discorso, o discorsività, ovvero sui tentativi di classificazione e di analisi dei diversi modi di enunciazione, qui oggettivati nel genere di discorso tenuto dal soggetto innamorato romantico.

L’”io” che parla nel testo è l'”io” marginale, inattuale e “intrattabile” del sentimento amoroso, che pronuncia le innumerevoli “figure” del suo linguaggio interiore di fronte all’altro, l’oggetto d’amore, il quale invece non parla. Nella convinzione che il discorso del soggetto amoroso sia oggi di una “estrema solitudine”, e che richieda per questo la sua affermazione – argomento del libro -, Barthes ha ricostruito ad un tempo il lessico e il ritratto dell’innamorato che non è amato ma che pensa di esserlo, e la cui realtà è solo il rapporto, “de-reale”, con l’oggetto amato, la sua stoltaggine e la sua follia, il suo permanere nel registro dell’immaginario. Archetipo di questo amore-passione è il Werther di Goethe, e le infinite proiezioni personali, letterarie e culturali che si sono accumulate dopo e prima di lui.

Ogni frammento, necessariamente concluso in sé e possibile inizio di un nuovo racconto, sempre interrotto, coagula infatti letture e conversazioni con amici, confidenze e reminiscenze, da Platone a Novalis, da Balzac a Bataille, da Kierkegaard a Nietzsche, da Stendhal a Proust, da Freud a Lacan. Discorso composito, “montato”, ma discontinuo e “svolazzante”, perché tale è secondo l’autore la storia del soggetto d’amore: “Il suo discorso non esiste se non attraverso vampate di linguaggio che gli vengono in seguito a circostanze infime, aleatorie”, le cui figure sorgono nella mente prive di ordine e di logica, come “Erinni che si agitano, cozzano, si chetano, ritornano”.

Il loro succedersi è allora assolutamente insignificante e sottoposto all’arbitrarietà della nomenclatura e dell’alfabeto: da “abbraccio” a “alterazioni”, da “demoni” a “incontro”, da “languore” a “sprofondare”, da “tenerezza” a “voler prendere”. Prima fra tutte, la figura dell’“attesa” dell’altro e della perdita, o dispendio, che vi è sottesa. L’avventura amorosa che se ne deduce non è perciò quella lineare di un divenire, anche se nella “trama” che pure si snoda si possono leggere tre tappe: la cattura o rapimento nella “vacanza” attuata in sé da chi sta cercando “chi” amare, nel momento in cui è attratto dall’immagine dell’altro – sempre mediata, realizzata “per contagio”-; l’incontro, o esplorazione della perfezione dell’essere amato, ovvero l’insperato adeguamento dell’oggetto del desiderio, l’essere unico e assoluto, la persona per eccellenza, nel tempo dell’idillio che precede la fine: quel lungo tunnel di smarrimenti, angosce, stanchezze, gelosie, rimpianti e tranelli, altrettante figure di minaccia di decadimento e di perdita di sé.»

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